Di Giulia Rusconisi parla in luoghi autorevoli. Nei Nuovi poeti italiani 6 dell'Einaudi, per esempio, Giovanna Rosadini, pur non includendola, la definisce "certamente promettente". E in effetti, I padri (Ladolfi 2012) hanno un'unità d'ispirazione difficile da trovare in un'opera prima, tanto che il libro ha vinto il primo premio Poesia Giovane 2011 di Fiume Veneto e alcuni testi, titolati L'altro padre e prefati da Anna Maria Carpi, sono inclusi nell’antologia La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi Editore, 2011). La Carpi scrive anche la prefazione all'opera prima di Rusconi, riconoscendone un umore di fondo di "forte straniamento verso il grottesco", ma anche uno spaesamento che chiede accoglienza, a partire dall'esergo "Eloi, Eloi, lemà sabactàni?" (Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?). La posizione dunque è quella della croce, del momento in cui la mortalità splende in tutto il suo numinoso orrore e non si trovano ragioni fondanti che giustifichino la postura. In Giulia Rusconi, il tragico cristologico si converte, laicamente, in paura d'invecchiare: sentimento umano, troppo umano, ma certo capace di intristire le notti di chiunque, specie la prima volta che ci assale. Giulia ha quasi trent'anni e ne può quindi parlare con cognizione. C'è una poesia esemplare in questo senso, che coniuga bellezza e fragilità, saggezza e sentimento della caducità. Non chiama in causa un padre specifico, ma costituisce la sintesi di tutti: «Tutti mi dicono che sono una donna / e bella e che ho spalle ampie / gambe robuste di ferro. / "Cammina da sola ora". / Io non cerco che una mano / grande che mi copra tutta la faccia / non mi faccia invecchiare». In alternativa, chiede a differenti padri di riconoscerla, di insegnarle a parlare, di proteggerla, e ci racconta di come Elettra si faccia sedurre dagli innumerevoli fantasmi che suppliscono quanto un padre genetico non potrebbe concedere: leccarle i lobi, soffiarle in bocca il fumo, farsi succhiare le dita. È sempre la bocca, in Rusconi, il luogo del peccato. Anche scrivere poesie parte dalla bocca ma qui la colpa scompare, per lasciare posto invece a un eros autentico, non costruito, nato assieme al verbo. Un eros che mette in scena, in modo ordinato, un recondito inconfessabile, un misto di desiderio e di paura verso il Padre pagano, quel Tempo mortale che consuma e insieme eccita, qui incarnato appunto in un teatrino di padri minori, tutti inadeguati eppure necessari a tenerlo in gioco. La madri invece sono latitanti, controfigure dell'invidia o della debolezza, a volte tenere e spesso proiezione di sé, di un tempo in cui, uscita dal guado del chiedere protezione, intraprenderà la strada del dare protezione. Intanto, la Rusconi continua la sua interrogazione sul proprio bisogno di figure maschili, che edifichino un tempo abitabile, e sull'identità che rifiuta di liberarsi dalla dipendenza: Cura, da poco uscita su "Nuovi argomenti", conferma infatti il registro tematico e stilistico de I Padri, coniugando entrambi gli aspetti (figure maschili e dipendenza) nell'amore coniugale, che si dà quale relazione asimmetrica in cui l'io lirico è sempre sul punto di spezzarsi come una bambola di ceramica: "La miglior cosa che un uomo ha fatto / per me è stata lavarmi / in acqua tiepida sfregando forte / e rivestirmi con cautela per non spezzarmi / braccia gambe e collo". Un io che sogna d'essere infermo, accudito giorno e notte non più da padri con cui sensualmente interagire, ma da infermieri capaci di mantenerlo nella sua "immensa beatitudine", un nirvana raggiunto con le flebo, anzi, meglio, uno stato prenatale permanente, scandaloso in un'epoca dove indipendenza e libertà costituiscono le leve dell'emancipazione.
C'è tuttavia un altro padre, meno evidente, ma decisivo: è lo stile, che sorveglia l'emozione e assume il discorso comunicativo quale veicolo relazionale; di esso Giulia si fida e si prende cura come una madre premurosa.
da I padri(Ladolfi Editore, 2012)
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Tutti mi dicono che sono una donna
e bella e che ho spalle ampie
gambe robuste di ferro.
«Cammina da sola ora».
Io non cerco che una mano
grande che mi copra tutta la faccia
non mi faccia invecchiare.
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Mio padre –il quarto –
mi insegna a scrivere.
Compitiamo poesie e per farlo
lui tiene la sua mano sopra la mia
e scriviamo insieme. La mia
è avvolta nelle sue dita che sono lunghe
hanno i nodi degli anni, sono
forti. Mi fa rileggere a voce alta
e mi si mette dietro
e mi lecca i lobi.
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Sono col mio settimo padre
il più feroce. Tiene bene
le posate e mi insegna a mangiare.
Labbra piccate occhi in divenire.
Quando ero piccola mangiavo
con mia madre ma il mio settimo padre
mi toglie di mano le posate
mi infila nella bocca un occhio
di rana si fa succhiare le dita.
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La mia seconda madre non somiglia a nessuno
è tenera di occhi schietta di mano
ci siamo viste tre volte, mi dice
che ha due gatti e un complesso paterno
in digestione perenne.
Non mi insegna niente e mi piace.
Mi guarda con i guizzi di chi ha fatto un patto
mi insegna a prendere posto
a disegnare contorni.
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Dico le parolacce me le insegna
mio padre numero diciotto.
Mio padre –l’altro- le dice
ma di nascosto nel suo studio.
Uso metafore spinte parlo
di sesso e sadomaso. Mio padre
-il numero diciotto- mi insegna le brutture.
«E tu vuoi imparare a essere cattiva?»
Lo tengo perché è sfortunato, come me
è avido, e malato.
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Mio padre il numero tredici è bello
è il più vecchio di tutti mi insegna
l’amore. Nemmeno mi sfiora
ma ha occhi di sesso mani di scimmia
labbra che incalzano e tremano.
Il mio padre numero tredici
mi fa venir voglia di fare l’amore
camminiamo a braccetto lo penetro
e afferro con la mia mano.
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Guardo i miei padri ognuno
nel suo scanno conosco a memoria
le loro crepe i loro tic nervosi.
Ho un padre che non conosco
l’ho visto una volta so come si fa
chiamare so che non parla
quasi mai e che vive in una buca
piena di ossa di lupo
occhi di vetro e angeli maestosi.
Il mio padre sconosciuto è un visionario
mi insegna le allucinazioni
me le fa toccare.
da Cura
La miglior cosa che un uomo ha fatto
per me è stata lavarmi
in acqua tiepida sfregando forte
e rivestirmi con cautela per non spezzarmi
braccia gambe e collo
e cullandomi dirmi che mai più
avrei avuto bisogno di mangiare
io fatta d’aria, io sciolta nell’aria
uno zeffiro dolce pronto ad amare tutto.
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È solo perché l’amore è buono però
dura quel poco che può.
Ed è tutto un sottrarsi uno stare
in bilico tra menzogna e menzogna.
Quella del fingere una sosta
vera e la vera pace
dei corpi offesi quella
di tornare poi nel mondo incerto
fingere ancora una qualche pacatezza
un’obbedienza cieca.
Comodo invece e eterno
è camminare cauta
e a piedi scalzi nella clinica
bianchissima della mia vera cura.
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Io non mi muovo, ma ormai
non tollero nemmeno l’odore delle lenzuola.
Sogno una clinica o un pronto soccorso
una lettiga inamidata quell’odore
di farmaco e di pulizia. Gli infermieri
entrano e controllano la flebo
io non so più se è notte o giorno.
Che immensa beatitudine, che pace.
Giulia Rusconi è nata nel 1984 a Venezia, dove si è laureata in Lettere Moderne. Sue poesie sono uscite in varie riviste, tra cui «AbsoluteVille», «l’immaginazione» e «clanDestino». La raccolta Distanze ha ottenuto il primo premio Teglio Poesia 2012 per la sezione Under 40 in italiano. Parte de I padri ha vinto il primo premio Poesia Giovane 2011 di Fiume Veneto (Pn) ed è inclusa nell’antologia Lagenerazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta (Ladolfi ed., 2011). Questo è il suo primo libro.