Poetessa milanese, Alessandra Paganardi ha assorbito e fatta propria la linea montaliana, contaminandola con le voci più recenti di molta poesia lombarda, e non solo. Penso per esempio alla verticalità dell’Anedda e alla radice del tempo primo pavesiana, che attraversano La pazienza dell’inverno (puntoacapo, 2013), libro della maturità espressiva, segnato dalla ricerca di una saggezza in grado di cogliere l’assolutezza dell’attimo quale risposta al dolore di cui è intrisa la memoria. La poetica degli oggetti e il loro correlarsi con la malattia del vivere emerge sin dalla prima lirica, lapidaria nell’assertività (“E’ dato il salto – come questo marmo”), colta (“quell’orecchio di Dioniso svuotato / nel venerdì di Pasqua”), capace di intrecciare spazio e memoria (“[…] il tempo che attende / di tagliare i ricordi, di spostarli / via dalla mente in blocco”), usando metafore concrete, disseminate in tutto il libro, che cerca la narrazione allegorica, non con fine didascalico o conflittuale, ma piuttosto emblematico, quale esempio amplificato di un accadimento, di un’esperienza.
Che cosa sia la scrittura poetica, ce lo dice “paratesto”, citando implicitamente Osip Mandel’štam: “[…] un solco / che si gonfia di terra sempre nuova / una crepa che chiama sotto i piedi”. La Poesia della Paganardi convoca talvolta il tempo abissale, ma spesso evita di perdersi in quell’infinitezza mistica propria del neoromanticismo, riconoscendo che “la traccia è vera ma non è invisibile – è lì nascosta”. E con essa si può cercare un confronto, uno scontro, persino, a partire dall’affermazione di mitezza, di accondiscendenza verso il finito: “Scrivo che anche il tempo / diventa mite se lo lasci sfogare”. Accettare il divenire, raccontarlo nei dettagli, diventando quasi crepuscolare (“Fuori piove. Mi cedono il posto // Non sono fredde le strade del mondo”), ma soprattutto, con piglio nietzscheano, trasformare l’io devo in io voglio sono appunto i compiti, esistenziale e artistico, che la Paganardi s’impone. Propositi che, appunto perché fondati sulla consapevolezza che nulla permane in eterno, non portano con sé il lutto della perdita irreparabile. Ce lo mostra per esempio “Ritaglio V”, nella figura gioiosa del bambino quando guarda staccarsi da sé l’aquilone. Ordinariamente, tuttavia, quando il peso dell’esistenza vince sull’intelletto emancipato, vivere è un andare affannoso, nella misura in cui significa sentirsi in esilio dall’origine; lo ribadisce “Ritaglio I”: “Un giorno, tanto tempo prima, / qualcosa era felice” recita il primo verso; “e noi camminavamo più leggeri / come una fiamma che ritorna al sole”, conclude il distico finale, alludendo forse al ritorno al Padre di cristiana memoria, o dantesca, perlomeno.
La pazienza dell’inverno trova nell’endecasillabo e nel settenario la sua pronuncia preferita, lasciando con ciò intendere il legame della poetessa con tutta la tradizione lirica italiana, che attesta la fiducia nel canto e nei suoi strumenti retorici. Dello stesso parere è Marco Ercolani nella prefazione, quando scrive che “Alessandra Paganardi ha naturale familiarità con il dolore della mente, con la malinconia dell’esistenza, con le virgiliane lacrimae rerum che si addensano su ogni destino, ma sente la sua poesia come arma complessa e potente di salvezza”.
Dalla sezione “Farsi altro”
La cava
È duro il salto – come questo marmo.
Bisogna flettere il calcagno freddo
alla salita, rendere le suole
alla polvere che si fa più scura
nel passo. Appiattire il respiro
alla pietra. Poi l’ultima stanza –
quell’orecchio di Dionisio svuotato
nel venerdì di Pasqua, dadi immensi
allineati come case a schiera.
alla salita, rendere le suole
alla polvere che si fa più scura
nel passo. Appiattire il respiro
alla pietra. Poi l’ultima stanza –
quell’orecchio di Dionisio svuotato
nel venerdì di Pasqua, dadi immensi
allineati come case a schiera.
Non sarà mai acqua
il fiume – è un rumore la voce
impigliata tra fango e sassi.
il fiume – è un rumore la voce
impigliata tra fango e sassi.
Ci siamo messi in fila anche noi –
rocce cave per il tempo che attende
di tagliare i ricordi, di spostarli
via dalla mente in blocco, uno su uno.
rocce cave per il tempo che attende
di tagliare i ricordi, di spostarli
via dalla mente in blocco, uno su uno.
E tutto ricomincia a farsi altro.
VIII
Esistono parole passeggere
frasi da temporale – un esperanto
alla rovescia. Un verso mai più scritto,
dimenticato. È una menzogna il mito.
Nulla si perde se soltanto smetti
di trattenerlo. Tutto si fa vuoto -
i polmoni, il cassetto, il fiume dopo
la bracciata. Nessun magazzino
contiene mai la gioia.
frasi da temporale – un esperanto
alla rovescia. Un verso mai più scritto,
dimenticato. È una menzogna il mito.
Nulla si perde se soltanto smetti
di trattenerlo. Tutto si fa vuoto -
i polmoni, il cassetto, il fiume dopo
la bracciata. Nessun magazzino
contiene mai la gioia.
Dalla sezione “Museo e parola”
I
C’è un horror vacui fin nelle pareti –
non amano l’assenza, non si deve mai
aspettare. Prima un po’ di brutta carta
da parati, quindi l’invasione
barbarica dei quadri.
non amano l’assenza, non si deve mai
aspettare. Prima un po’ di brutta carta
da parati, quindi l’invasione
barbarica dei quadri.
Questi fiori sembrano tutti veri
- i seni all’erta, ripartiti in due
dal sentiero del cuore. Che la vita
mimi la vita, dove non sa andare
dritta e bella. I vasi alle finestre
paiono finti, covano l’abbraccio
osceno di una bambola di gomma
dicono un’intenzione di cemento
di stare sempre qui, di non morire.
- i seni all’erta, ripartiti in due
dal sentiero del cuore. Che la vita
mimi la vita, dove non sa andare
dritta e bella. I vasi alle finestre
paiono finti, covano l’abbraccio
osceno di una bambola di gomma
dicono un’intenzione di cemento
di stare sempre qui, di non morire.
IX
Ma non è chiacchierare con il foglio
fingendoselo amico. È revocare
senza voce la parola sospesa.
Tornare nella stanza ancora chiusa
andare solamente per vedere
per abitarvi mai. Una cura qualunque
non basta, serve all’ora – non al poi.
fingendoselo amico. È revocare
senza voce la parola sospesa.
Tornare nella stanza ancora chiusa
andare solamente per vedere
per abitarvi mai. Una cura qualunque
non basta, serve all’ora – non al poi.
Dalla sezione “Voci in ombra”
VII
Di quella pietra nel cemento
non è rimasta che un’impronta vuota.
non è rimasta che un’impronta vuota.
La terra ha una memoria minerale
si riempie quando passa forte il vento
o il piede indelicato del passante
a scalciare la vita
si riempie quando passa forte il vento
o il piede indelicato del passante
a scalciare la vita
allora il vuoto sente ancora il grave
un diapason che mai nessuno vede –
la cartina si tinge dietro gli occhi
se ritorna il dolore.
un diapason che mai nessuno vede –
la cartina si tinge dietro gli occhi
se ritorna il dolore.
Dalla sezione “Ritaglio”
I
Un giorno, tanto tempo prima,
qualcosa era felice.
La venatura perfetta del marmo
il rosa improvviso, il giallo gentile
come se fosse sempre mattina
o una notte di stelle senza male.
Alberi dritti in un cielo impreciso
accoglievano l'aria con le mani
la cattedrale bastava alla piazza
il feltro consolava le sue note
e noi camminavamo più leggeri
come una fiamma che ritorna al sole.
Alessandra Paganardi (Milano, 1963) ha pubblicato, oltre a varie plaquettes, le raccolte di poesie Tempo reale (Novi Ligure 2008), Ospite che verrai (2005), Poesie (Facchin Editore 2002).
Ha pubblicato la raccolta di saggi critici Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei, (Viennepierre edizioni 2005, finalista al Premio Nabokov 2008).
Dal 2003 sino alla sua chiusura è stata redattrice della rivista “La Mosca di Milano” e collabora con “puntoacapo Editrice”.
Ha pubblicato la raccolta di saggi critici Lo sguardo dello stupore: lettura di cinque poeti contemporanei, (Viennepierre edizioni 2005, finalista al Premio Nabokov 2008).
Dal 2003 sino alla sua chiusura è stata redattrice della rivista “La Mosca di Milano” e collabora con “puntoacapo Editrice”.