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Marco Bellini

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Vincitore dell’European poetry Tournament 2013, Marco Bellini è un poeta lombardo che cerca una parola nitida, un verso che, nominando il visibile, intessa i fili segreti, i non detti, e quel tempo reticolare che ci tiene in piedi, a consistere in quanto “corpo e gesti sopra le suole”, senza pretese, se non quella di mantenere dignità e passione verso la natura e gli esseri viventi. Sotto l’ultima pietra (La Vita Felice, 2013) esprime questa poetica, raccontando un viaggio lungo l’Adda, dalla sorgente predatrice (nasce infatti “dalla morte dei ghiacci”) a quando il fiume confluisce nel Po. Un viaggio, questo del libro, anche temporale, un lambire memoria e lutto, innocenza e superstizione, toccando toponimi raffigurati in una cartina liminare, a garantire concretezza allo spazio, verità dei luoghi, per quanto, nel profondo, tutto sia bagnato dalla precarietà della morte: dal ponte dei suicidi (il San Michele) al cadavere del lago, dal gioco infantile del calcio all’ombra di via Cesare Battisti, alla casa operaia di Crespi D’Adda, un tempo parte di un quartiere simbolo dell’industrializzazione e ora vuota, per la dipartita di un uomo senza nome, naufrago della storia.

Tutto il libro, invero, è un lungo peregrinare ai margini della modernità, nella fatica della navigazione a vista, laddove manca certezza lavorativa o futuro comunitario. La seconda sezione in particolare, “Sotto l’ultima pietra”, può essere letta come una serie di canti dell’estinzione, della sopravvivenza residuale: c’è un campo profughi, ci sono le “rose” di Sarajevo, che “hanno il colore di un’emorragia” perché tracce ineluttabili dei bombardamenti, e ci sono le ombre dei morti, come la macchia d’uomo a Hiroshima e la gattara, straniera tra gli umani e madre dolcissima delle creature selvatiche. Le due sezioni sono complementari, a raccontarci un presente in perdita, inautentico, da cui fuggire, per quanto possibile, tornando alla natura. Ecco allora che “il sentiero di montagna sembra il rimedio”, un’oasi temporanea, così come osservare la gente vivere, coglierne i dettagli come un entomologo pietoso, che sa leggere le vibrazioni più intime nei gesti quotidiani e ce le restituisce asciutte, nella loro rarefatta imprendibilità: “Il bambino sul cavallo a ogni giro / saluta l’incontro con i genitori / che a ogni giro rispondono, sorpresi: / conferma dello stesso poco, / di un’appartenenza […]”.

La terza sezione, “DNA”, allarga il tema ad altre figure umili (il muratore, il fruttivendolo) e a figure parentali, nelle quali l’io lirico si specchia: “A me – scrive in chiusa a una poesia sull’orto del padre – manca solo la cicatrice che lui portava”. E, a proposito del figlio “che sta ancora dentro l’imbrago”, osservandone “le scarpe da jogging sul balcone”, vede se stesso adolescente, la stessa grinta e forse gli stessi sogni.

La quarta sezione, “Geometrie liquide”, rimette al centro sia la natura (con la sua memoria conservativa, anziché distruttrice come capita nell’età della civilizzazione), e sia l’abitare intaccato dal tempo dell’abbandono: le case “di un giallo malato” sono ora prede di insetti e piante, che si riprendono lo spazio antropico. E un tremore caro a Leopardi, per come nulla resti, passa improvviso, “un fiato scuro / che non penseresti mai sul tuo davanzale”, un tremore che aleggia in molte pagine, con un pessimismo che si dava più attenuato in Attraverso la tela (La Vita Felice, 2010) dove non mancano “un portico acceso di pannocchie”, una polenta e un “contadino che legge le piume / del tordo, segno buono per attaccare l’aratro / e ricominciare il vapore”, per quanto sia già chiaro al poeta che noi comunque sfioriamo entro una cornice gelida e minacciosa, un misto di destino labirintico e civilizzazione disumana. Alla quale contrapporre relazioni umane cercate nella loro forza creaturale, in sintonia con la “calda vita” di sabiana memoria, e parole nate dall’esperienza ordinaria e rimesse in ordine con la poesia, per districarsi un poco dal rumore della chiacchiera e dal caos che la vita è per natura.


                Sezione: Seguendo l’acqua
                       (L’Adda)


Le nuove abitudini

Essere una moglie per trent’anni
era stata una buona scuola: aspettarlo sempre.
Le mattine che si aprivano sulle domeniche, portavano
il suo ritorno con il bosco sotto i piedi;
allora toccava a lei, i funghi da seccare o le castagne da incidere.

Ricordava esattamente dove si trovava
quando aveva ricevuto le telefonate; la prima,
il chiasso dell’incrocio, un piede rimasto giù dal marciapiede:
non era tornato al punto concordato. L’altra
al supermercato, la musica diffusa nelle corsie:
piegato, stava tra i cespugli, fermato
nei suoi boschi; così il ritrovamento.

I pochi giorni in cui
si era definita la situazione, come un cardine,
sarebbero stati un appoggio
per il tempo messo dopo, senza più pensare
ai cespugli, quel sentiero pericoloso, lui piegato, lui
che non la faceva più aspettare.
Gettare via i vestiti usati, il bastone curvo
(ci spostava le foglie), la rabbia
come un odore pesante nella casa,
i disguidi accettati come normalità.

Le nuove abitudini premute sopra.



Scomposto il braccio

Il lago portò un corpo, una restituzione
incerta, una confessione tra le barche
a riposo. Scomposto, il braccio piegato
a indicare le case di Pescarenico, il lavatoio
le mani di donne chinate e il sapone
a levare i sogni, le bottiglie d’acqua
appena discoste dalle porte, così
per la distanza dei gatti. La somma del tempo
in quella carne faceva ventidue anni
il nome non si leggeva.

Domani ne avrebbero parlato
se non c’era altro.

                Nota:
Pescarenico è un piccolo borgo, affacciato sul fiume vicino a Lecco, che  conserva le atmosfere e i  profili di un tempo lontano.


“Arimo”
                                               a Vittorio


“Arimo”: quando l’infanzia viene a trovarti,
dentro una parola rimasta senza voce.
E la riconosci, ti apre, torna feconda.
“Arimo”: era per tirare il fiato
mettere una pausa nella corsa dei giochi.
Davanti a questa parola anche le lucciole
posavano la lanterna. Poi si ricominciava.

E penso a Vittorio, a quando il fianco
di un prato ci nascondeva
e “arimo” era una possibilità di festa
e morirai una parola nella sua tasca.
Lui che da grande, finiti troppo presto
gli amori, alla vita disse “arimo” e alla tasca
l’ascolto. L’ultimo gioco fu in un bosco
a tagliare legna e il suo futuro.
E adesso come una figurina
si stacca dalla memoria, da quel bosco
battuto da un vento arido, adesso
che a dire “arimo” ci siamo noi.

                 Nota:
espressione convenzionalmente in uso tra i bambini durante i loro giochi; l’intento è quello di richiedere una pausa. La versione estesa è “arimortis”.


Sezione:Sotto l’ultima pietra

Le dita sulla rete
(Un campo profughi nel terzo millennio)

Alle spalle, fermate con i sassi lungo linee regolari, le tende;
sotto: la terra sbagliata, quella che nessuno chiama casa.
Stanno in piedi, lo sporco dietro le orecchie, le mosche
sulle pieghe sudate; tengono le dita sulla rete, guardano
lo spazio, una linea diversa che sia una proposta.

Chissà se provano a fare il conto: la distanza dalle colline
che ogni notte si spengono e mettono a letto le cose, una sedia,
una coperta piegata di fretta. Oggetti lasciati nell’urgenza del distacco,
o forse per appartenere ancora. Là tra i ciuffi e le rocce, si tiene
la possibilità di tutte le direzioni, un’altra luce, un ritorno.
Lo sanno, domani niente sarà più vicino e la coperta ancora perduta.

A qualcuno toccherà fermare lo sguardo, tenerlo sopra,
 misurare il perimetro, la rete che tiene fuori la paura
e dentro li fa stranieri. Si dovrà mettere qualcosa al servizio:
un passo, o l’avanzo sporcato del tempo gettato. Lo sappiamo,
qualcuno dovrà guardare sotto l’ultima pietra.




Dietro la fisarmonica

Tutti abbiamo un urlo pronto in tasca
tra le monetine rimaste di un caffè
e un biglietto con un numero:
“chiamami” disse al bar.
Dietro la barba, all’angolo tra le due strade
 parlarono delle urla che sostano
che ti prendono alle spalle.
Disse che le conosceva, lui aveva
l’Albania che non gli taceva dentro,
disse che raccontavano la fine delle cose
e che per fare bene il loro mestiere
chiedevano silenzio e le pance aperte.

Lui afferrava una fisarmonica.



                Sezione: DNA

*


Non basta accettarli all’offerta un po’ esitante
devo chiederli più spesso i pomodori
che combatti alla terra e prepari
sulla notizia del giorno incartati appena vedi
l’auto al cancello e arrivi che quasi disturbi
e dovrei dirtelo che non è vero. L’orto
come uno specchio dove ti confermi
è il tuo dire che ci sei che la pensione
e quella mattina reumatica
tutta un problema dentro il nome
non l’hanno vinta e tuo figlio grande
deve chiederli più spesso i cetrioli
che stasera alla sua tavola
crescerà ancora un dito.  




*

La pianta grassa alta ventidue centimetri
un paio di volte l’anno spingeva fuori
di mezzo le spine, un fiore viola. Nella venatura:
la linea del costato, il filo delle vertebre.
Sotto la ghiaia a sassi bianchi, il morto
un paio di volte l’anno, si specchiava.


       
*


Quell’appartenenza sospesa
tra l’uomo che mi ha dato
e lui che si è preso
ancora dentro le mie mani, ad incarnarsi
un pezzo alla volta, una spina dorsale
che si fa. Non posso fingere
il riflesso che sono stato
e tu cominci ora
anche se non riconosci
quel tuo sistemare l’orologio
quello stare sospeso sui talloni che è mio
cominci e ritorni
una luce che è già stata.


Marco Bellini risiede in Brianza dove nasce nel 1964. Oltre alla lirica “Le parole” (Edizioni Pulcinoelefante 2008), sue raccolte di poesia edite sono: “Semi di terra” (LietoColle 2007), la plaquette “E in mezzo un buio veloce” (Edizioni Seregn de la memoria 2010), “Attraverso la tela” (La vita felice 2010) e “Sotto l’ultima pietra” (la vita felice 2013). Ha ottenuto riconoscimenti  in numerosi concorsi. Sue poesie sono state inserite in diverse antologie, sono apparse sui blog “La poesia e lo spirito”, “Blanc de ta nuque”, “La presenza di Èrato” e sulle riviste “Ali”, “Le voci della luna”,  “La mosca di Milano”e“Incroci”. E’ risultato vincitore della selezione nazionale “European Poetry Tournament” 2013.



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