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Paolo Pistoletti

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Legni(Ladolfi Editore, 2014) è opera prima di Paolo Pistoletti, cinquantenne umbro, maturo in fatto di buone letture e consapevolezza di sé. Il libro presenta un’approfondita nota critica di Marco Beck, tesa a dimostrare la sua pregnanza religiosa, disseminato com’è di “segnali discreti, più o meno allusivi a un atteggiamento di fede”. Verità sacrosanta, ma alla quale può essere accostato, senza incoerenza, un’immersione nel finito, tesa a interrogarne il senso, che sembra sempre sul punto di svanire, se non fosse per i legami parentali, che lo stesso Beck mette in luce. “Stiamo per affacciarci a volte / ma qualcosa di noi si perde a terra” recita il secondo verso della poesia incipitaria, a segnare un movimento verso l’esterno (natura, cultura, Dio) che non può compiersi pienamente. Il corpo è ingombrante infatti, la materia tutta – di cui il legno (che misteriosamente “si muove / senza vera vita”) è l’emblema – diventa casa, spazio non ineludibile, che ci tiene ancorati in un orizzonte che vorremmo decodificare, una foresta di simboli che Pistoletti non si accontenta baudelairianamente di attraversare, ma di cui vorrebbe cogliere la radice trascendente, tra un cigolio di una porta e una speranza, nata “appena sopra il lampadario”. Vorrebbe farlo non da solo, ma con quel nucleo etico, kierkegaardiano, che è la famiglia, vissuta all’insegna della scelta e della responsabilità. E tuttavia le crepe sono in agguato, soprattutto nel racconto coniugale (Viaggio di nozze: “Allora adesso ti posso lasciare / indietro a setacciare il ventre della baia / fino a quella luce capovolta / sotto la barca / dove oramai già tu sembri scomparsa”; “perché il buio avanza” recita Acqua, “e la legna che siamo si è spenta”, chiosa Foto in bianco e nero II). Crepe che trovano parziale rimedio nelle figure della figlia, della madre e del padre, soprattutto di quest’ultimo, nel quale l’io lirico si riconosce, sino a immedesimarsi nel medesimo destino (Bosco), e verso il quale ha una riconoscenza infinita per averlo coccolato e trattato come un principe (Vecchio); crepe che tuttavia non aprono alla deriva, ma diventano chiodi da comprendere nella loro necessità esistenziale perché in terra si cade, si saltella, al massimo, ma non si vola. E anche quando si agisce, sembra sempre, a ben vedere, un fare e un dire “di paglia”, per quanto in cuor suo Pistoletti sia convinto che ci sia una ragione più alta per la quale noi esistiamo. E qui ha ragione Beck a ricondurre questa poesia nell’ambito cristiano. Di un cristianesimo alla Pomilio, come il prefatore ci ricorda, laddove in Scritti cristiani lo scrittore abruzzese ci parla di religiosità “che si esplica non nei proclami, ma nella giustezza delle opere, non nel parlare in nome di Dio, ma nel fare quanto si fa come se si fosse al cospetto di Dio”.



Imbronciata


Dal parcheggio alla casa dei nonni
saranno duecento passi. Mi tieni
imbronciata la mano. Sento                    
che all’abbraccio del sangue sfugge
la luce quando non è nei tuoi occhi.
Lo so che resti accesa
dietro quello sguardo da lupo
e là mi conduci ancora.                                                                   
Dicono che la retina fissi così per sempre
quelli che arrivano da scie invisibili.
Padre e figlia
                      insieme
dovrebbero gridare
strappare a quattro mani le bambole
quando le cose vanno via
non avere pace
non dare senso troppo in fretta
al vuoto perché noi                                    
si sta qui
come chi vede la brace nell’aria.
                                                  



Legno di casa


Conoscere il legno di casa
gli spacchi le età i cerchi
la traccia della resina.
Chiedersi come mai si muove
senza avere vita,
se la linfa veramente manca
dentro tutta questa povertà
che ti guarda
che ti fa ombra
quando il fuoco avvampa
sulle mura o sul tetto
al fumo della cappa
alla fuliggine delle stelle.




Bosco


Come un bosco è cresciuto mio padre
giorno dopo giorno.
Le radici ora circolano
dove non sono mai stato
nella bocca nera della terra.
Il cuore del legno viene da lontano:
lui qui c’è arrivato prima della guerra.
Ma poi gli anni dai cerchi
dai rami sono passati tutti
per la linea delle mani                                            
e foglia dopo foglia                                                       
la linfa nelle vene
ha ripreso la via
della luce che non si vede.                                                          
La sera del derby di Milano
un’onda accesa da dentro
l’ha portato via dalla poltrona
come un fiume contromano.
Solo dopo il medico ci ha detto
che c’era nato                                            
con quella voragine nel petto:
e da allora qui intorno
aspetto sempre di sentire il tonfo
la fine di questa fame senza fondo.




Legni                                                                    

                                                
Non mi ricordo più quante volte si muore,
quante stagioni di legni
ci pesano sulle mani
prima di rovesciarci il cuore.                                   
All’ospedale di Careggi c’è il bianco                                 
delle mura che in mezzo ci passa
chi non ce la fa più a stare qua.
Quelli che invece tornano
nelle vene hanno sentito
tutto il risucchio che viene dagli aghi
dal tubo della flebo
fino alla luce del neon
dove a un certo punto
uno non è più niente
tutto lì nel mentre,
tanto che a sorpresa
non avendo più materia
si smette di tremare
senza cassa senza risonanza               
la mancanza ricompone tutto
porta a zero la distanza.

Da bambini si arriva ogni volta
al momento giusto
come una bolla al centro del lago,
la memoria poi torna dopo                                
quando un giorno d’estate
il sole spacca le pietre     
e allora si esce.
In corsia si dice che un giro                 
moltiplicato per sempre sia l’eternità. 


Firenze, ospedale di Careggi, reparto di rianimazione, aprile 2001.




Pensare


Alla fine quando sono qui rivedo
la giornata trascorsa
le persone le sedie gli alberi.
Ecco è tutto qui il mio pensare,
come in auto quando dallo specchietto
alle spalle vedi che passa dietro
la strada, e allora lo senti
che a reggerti sulla schiena
è tutto quello scorrere
quel grande fiume di asfalto
e mondo che ti porta
dritto a casa
fin dentro al garage.
Lì dove c’è sempre
una serratura da girare
lì dove in punta di piedi
sottili si passa per quell’unico
punto che conta.
                  



Amico


Caro amico mio quando uno come te
si ammala in giorni come questi
di una tacca tutto si abbassa
pure i nostri corpi. E solo adesso                                             
vedo tutto il bianco della mia barba
l’alba che mi cresce fitta pallida sulla faccia.
E allora rimane poco qui quasi niente
del respiro che va sotto va più giù,
mentre fuori si riaprono nicchie lucernari
si riapre la stanza che ora riconsegna reperti
ripone unghie nei cassetti
lettere e capelli nelle scatole
come pelle lasciata indietro nei giorni i guanti spaiati.
E le stagioni tra le persiane passano
tornano ai loro maglioni alle loro scarpe
e nella foto appesa al muro poi
tutto quel ricomporsi di cose.




Bentornata


Come un fiume mia madre scorre piano
una dopo l’altra le foto sopra al tavolo
risale i ricordi fino al fondo dell’argilla.
E sembra più bella adesso che la guardo
un’impronta sulla sedia che non sa niente,
poi la voce che si incrina con tutti quei nomi
come acque che si rompono dopo il bene.
Che a dire il vero si sperava che dopo il flash
cascasse il velo dal letto di magra
che in un lampo fosse nudo il dolore.
Invece non si vede uno scatto che possa                                  
fissare qui il lenzuolo di chi ci lascia
solo sulla carta che vedessi mamma           
quello che succede mentre parli. Che guardalo laggiù 
il vecchio lido dove una volta dice che si ballava
con tutti quanti quelli che va a sapere
adesso quale buon vento se li porta.
E poi noi che chissà come faremo
che non bastano più gli argini a tenerci qua
l’erba che sale dalle sponde
per i crinali fino al monte
dove il babbo ruzzolava come un matto
a rompere i pantaloni a chilometri
e poi una valanga di risate da crepare la pelle
ci faceva uscire fuori per sempre
bentornati a noi. E bentornata pure a te.




Dentro


Sembrava tutto a posto, poi quello che ci teneva qua
s’è rotto come un coccio. La terra s’è mescolata con la terra.
Capita che si cresca nell’impasto più sottile del dolore.
In un campo non lontano da qui i rom hanno perduto
la loro battaglia accerchiati dal fuoco
un rogo di fiori in mezzo alla notte.
Tanto che alla fine sarebbe stato tutto
tiepido di cenere. Ma si dice che c’è
buio e buio e c’è il fosco più nascosto.
Eppure fino a un certo punto era stato tutto così chiaro
il freddo e il gelo che la sera s’era fatta piccola
nel carro come un fagotto. Che solo dopo
tanta tosse il fumo aveva coperto la paura
la culla di un bambino ladro dentro
una fiamma che ruba. E su tutto puzzo
da scansare oltre l’ombelico come uno zingaro
infilato in un vicolo, colpa come roba normale
un cartoccio di giornale una pagina con un pezzo
sul guadagno del male fatto così bene                                           
con una foto dei fratelli di Abele.                                                  
Mentre dopo l’ultima colonna a destra
intanto uno scafo portava un carico
con le spalle girate la sorte verso il futuro.




Paolo Pistoletti è nato nel 1964 a Città di Castello e vive e lavora ad Umbertide in provincia di Perugia. Dopo gli studi in giurisprudenza e in teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali. Dal 2010 cura e conduce un programma di letture e poesia a RadioRCC, proponendo anche testi propri. 

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