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Annamaria Ferramosca: Ciclica

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Di che cosa tratti Ciclica(La Vita Felice, 2014), l’ultimo libro di Annamaria Ferramosca, me l’ha scritto direttamente lei in una mail: “il tema si identifica con la nostra richiesta di senso lungo ogni fase della vita e occasione del quotidiano, insomma come una continua vigilanza che acuisce il dolore di fronte al degrado globale, dell’umanità e della natura.”. Due sono quindi i temi entro cui si muove quest’opera: l’inevitabile “urto” del mondo sugli esseri, che è incontro / scontro, modo in cui si sta nell’aperto dell’esistenza, sempre segnato dal contatto; l’autodistruzione della civiltà o perlomeno il suo progressivo imbarbarimento, “gli infiniti modi [che essa ha] di sprofondare”.

Il libro si apre con la necessità di scegliere dentro la confusione di facebook, entro un mondo ipertecnologico che sfalsa le relazioni. Il contatto diventa così contagio malefico; l’occidente tutto, invero, contamina il mondo con il suo tramontare “senza ritorno di alba”, lo travolge. “L’insulto alla terra” è costante e, proprio per questo, noi dobbiamo ripensare il paradigma dello sviluppo, l’irrazionale equivalenza tra benessere e felicità. Dovremmo imparare dagli alberi, ci dice la Ferramosca, “mappe di salvezza / dispiegate nei rami”, testimoni di pienezza che ci invitano a curare frutto e radice e a tramandare il messaggio: “sii migliore del tuo tempo”. Perché ciascuno di noi è appunto relazione, per quanto assediata dal buio: “Il toccarci denso abbiamo / il vederci   il pensare   il nudo fare”. Ecco che l’urto può essere gentile, come recita la terza sezione del libro; “il tocco-random di una mano / che plasma e scompiglia” aveva scritto in Fioriture, quasi in principio di Ciclica, così che il contagio non infetta, ma salva, se risultato dell’incontro tra parola e cosa: “Con la lingua vorrei solo esultare / […]  sulle cose far luce / anche feroce […] / o velarle le cose   di compassione / coprirle scoprirle interrogarle / romperle corromperle / ammalarle infettandomi   guarire”. Lei, biologa, sa quel che dice, conosce la natura uniforme della materia, l’esser fatti della medesima sostanza, in quel centinaio di elementi chimici organizzati nella tavola periodica.

L’altro collante è la memoria, l’infanzia che la memoria recupera anche attraverso la scrittura e qui messa in gioco soprattutto nella sezione “Urti gentili” dove la terra natale, il Salento, traspare con tutta la sua carica di nostalgia.

Coerentemente con i suoi libri precedenti (in particolare Curve di livello e Other Signs, Other Circles), la Ferramosca contrappone la linearità del pensiero platonico-cristiano alla circolarità della natura: Ciclica, come lei stessa mi scrive, “nel nome evocail destino cosmico che tutto accomuna”. Destino che tuttavia, pur non togliendo la paura della morte, la fa rientrare in un ordine superiore, “un oltre riconoscibile   gentile / terra calda dai suoni attutiti”: un aldilà più pagano che cristiano, un “paradossale calmissimo caos”; un passare da uno stato all’altro dell’essere, come direbbe Severino.



Dalla sezione Techne


scelgo  mi piace  condivido
soltanto se
la posa non è teatrale    se intravedo
il capo rasato sotto la pioggia
la stanza fiammeggiare
allontanarsi il punto cieco

l’urto mi chiedi l’urto ma
sei virtuale    un’ipotesi una
finestra sul vuoto    poi non so
quanto davvero vuoi
 farti plurale
dimmi se chiami per conoscermi o solo
per riconoscerti 
chiami chiami dai tetti
da eccentriche lune chiami da
nuvole    pure dal basso chiami  
voce di fango che mi macchia il petto
segna la fronte    pure
si fa lacrima    cristallo che
taglia il respiro    

stiamo come in un rogo a far segni attraverso le fiamme
malferme sagome stordite da mille nomi  
la lingua disartícola e l’audio
sarebbe comprensibile soltanto se
intorno il rumore attutisse
se fossimo
puro pensiero    silenziopietra
statue serene dal sorriso arcaico
ai piedi un cartiglio e 
                                      lampi negli occhi




trasporto in files                 

tutte quelle diapositive ormai pelle da macero
impallidite    in pile
forme disperse disperate da deportare
in fili d’aria   files

un laser ti trafigge  inesorabile
ti copia-incolla   eri
così smagrito    avevi
occhi di pianto e sorridevi
 la postura inchiodata dal clic   non sapevi
di accecarmi 
il  tuo respiro per anni conservato
in raccoglitori di plastica    
concluso
                
per quali occhi salvato il tuo calco?
per quale tempo del riepilogo? del senso?
chi svelerà il mistero di un sorriso etrusco? 
 tutto quel sole sulla pelle   
e il cuore in ombra

per chi ancora resistere    durare ancora
di dura fine 
                     fine hard   disk


dalla sezione    Angelezze

alberi

non sappiamo di avere accanto mappe di salvezza
dispiegate nei rami
gli alberi sono bestie mitiche
invase dall’istinto    fieri suggerimenti
restare accanto
non per generosità ma per pienezza
-- intorno l’aria splende in rito di purità --
la terra tenere salda
perché sia quiete ai vivi

gli alberi hanno strani sistemi di inscenare la vita
prima di descrivere la morte
s’innalzano 
con quei loro nomi di messaggeri
le vie tracciate sulle nervature
lo sgolare dei frutti
sii migliore del tuo tempo  dicono

devo
far correre quest’idea sulla tua fronte
devo    
e tu su altra fronte ancora
e ancora   prima
                           che precipiti il sole



remi per itaca                                                          
                                             
                                     E se la trovi povera, Itaca non ti ha illuso.
                                     Sei diventato così aperto e saggio,
                                     che avrai capito cosa vuol dire Itaca.

                                         K. Kavafis         


sarmenti dalle viti
in duello con l’aria                             
uno strappo deciso li stacca  -- dente bambino --
deve ac-cadere prima che il legno s’addensi
e animelle sulle biforcazioni  
deboli getti anch’essi da allontanare 
 animule respinte
con rabbia lanciano la loro delusione in terra
strato dopo strato   fino alla vigna-nadir
(all’altro orecchio del mondo
                              tutto sarà compreso)

in questo braccio di appiantica un laerte
versa linfa nei rami   si avverte
lo scroscio sottile    lontani i remi di ulisse
l’angoscia   l’esilio (qui la tortora  ancora
 sul nido a ripetere)

la casa è vicina alla cava di selce
perché sia graffito sul muro
il presagio  vignarinascita  
e sia compreso il tempo
compresi anche noi con il nostro
tozzo di paneolio e il bicchiere d’ebbrezza

la vita così simile a questa
nebbia etilica chiara di voci
il cielo rossoacceso
e in petto un’onda larga

così trascurabile
il prezzo della pace


dalla sezione  Urti gentili

sotto la nuova luna

è già notte artica sotto la nuova luna
luna che bruca    interroga
quali parole restano per quale
sovrappiù di voce?

inflessibile lampada scandaglia
il fondo della retina   nella rete s’impiglia
eco indistinta che martella voci
quale verginità di suono a spaccare il fondale?

sulla banchisa alla deriva l’orso
dondola il capo con moto autistico
nell’impaziente attesa della fine
nessuno accorre
al gridoghiaccio indurito in gola
all’ultima domanda   nessuno
dalle città febbrili dai multipiani ciechi
dagli abitacoli che schizzano sulle autostrade

solo fruscii lontani oltre le dune
dall’erba rada e bassa
lenta nel crescere per ostinatezza del resistere
mentre lupi si azzannano
che più non riconoscono la stessa specie  
nel bosco che sussulta
ingoia stelle come rimorsi
               
 al largo  
monta un fragore mediterraneo    cupo
come di gorgo
si annega ancora sotto la nuova luna
in quel mare-di-mezzo che mediava 
un tempo tra buio e luce




urti gentili

mi  manca la lingua   mi manca
quella timidezza di vocali aperte
di  zeta dolce nel grazie
un incurvarsi della voce in gola
come a piegarla fossero le pietre
salentine del ricordo o forse
una malinconia residua della nascita
ingorgo che resiste
allo sperpero del vivere

furore dei cieli di una volta
grida bianche dei dolmen che insistono
nel vedere il mattino sorgere
sulle rovine   ogni  volta
qualunque sia l’inclinazione della luce

mi manca  quella strana paura  
prima di ogni viaggio 
come un sottile rifiuto della distanza
come di albero che impone alle radici
 un limite all’espandersi e si concentra
sulla cura dei frutti      

pure amo
tutto questo calpestio di genti nella città
l’impasto lento di animelingue 
il rompersi dei meridiani   l’inarcarsi dei ponti per
            urti gentili 
questo annodarci annodando
i cesti della fiducia con antiche dita



dalla sezione   Ciclica

revisioni

errore: non essere rimasti accanto al fuoco di fila
con occhi di cane a implorare o -- muso in alto -- ad abbaiare 

urgenza del mutare
un grido-scheggia che trapassi la retina
apra varchi inattesi
un tempuscolo rovente che accenda
la permanenza stabile del coro
torre inattaccabile dove
le lingue si traducono solo sfiorandosi

così i fallimenti possono mutare
in categorie di seduzione
come la catena trasmessa dal seme al frutto
nonostante il  marciume   il trambusto dei rami


pagine ancora per voltare pagina

ancora
un sangue abbiamo  consapevole
di voler coagulare   come fosse troppo nobile
per  l’uscita selvaggia dalla vena
umori fertili abbiamo 
che premono sulla fioritura  
e profili aggraziati a chiamare
la tenerezza degli urti le gratitudini

abbiamo sulla fronte un rogo che fa paura 
ma nell’aggrottare appaiono    onde    
un oceano che trascina
il mio corrimano di legno    tentativi di ponti
capre e pastori erranti  (hanno il nostro profilo)
pani   tastiere   reti
incastrate tra rami di olivo e note di sassofono
e  -- a ondate --  pagine   
immarcescibili (la voce come di un’alba o di un vagito)
pagine ancora   
                         per voltare pagina



è l’ora

raccogli i miei lumi residui 
aprimi infine un po’del tuo segreto    non
troverai  fossette che ridono
solo indulgenza   tremore trattenuto    
inutile cercare la vertigine 
resto inchiodata a un cielo calmo
 da cui piovono miti anche feroci   
ad es-empio se oggi
la bambina
(colei che vola sui sentieri)
nella coda al supermercato si sporge
dal carrello verso di me squillando
 facciamo che io ero in macchina
 e guidavo e  volavo e tu dormivi
                       so
che sto andando verso la fine e lei 
mi stringe forte la mano mentre
a me già la stanza si oscura






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