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Modernità e lotta armata

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La modernità si strutturò attraverso tre rivoluzioni: inglese, americana e francese. Sotto questo profilo, è intrinseca alla modernità diveniente una teoria e una pratica della lotta armata quale soluzione decisiva di una crisi di sistema sotto il segno della discontinuità. Il fascismo, per esempio, risolve con la violenza istituzionalizzata la crisi della rappresentanza liberale dopo la prima guerra mondiale; la lotta partigiana, capovolgendone gli assunti valoriali, impone un modello liberale dove la democrazia garantisce, meglio che nel fascismo, il libero sviluppo del capitale, la libera circolazione delle merci e una migliore distribuzione del reddito, tali da rendere possibile una nuova società, che ha al centro la spinta verso l’uguaglianza dei diritti ma anche della possibilità di consumare beni. Non che il partigiano Johnny avesse questo progetto, ma involontariamente gli ha spianato la strada.

In controcanto, da Marx a Bordiga, da Lenin a Gramsci una teoria della lotta armata di stampo anti-capitalista non è mai venuta meno, indirizzata a un gruppo ben preciso della società; gruppo che, in Italia, ha occupato le fabbriche, è morto in trincea, è salito in montagna contro il nazifascismo, ha scioperato negli anni democristiani, ha preso posizione contro il terrorismo degli anni settanta, ha sostenuto il PIL pagando le tasse e che ora, disgustato della classe dirigente – specialmente nel nord-Italia, e in compagnia del ceto impiegatizio – elabora una lotta armata reazionaria, fatta augurando il naufragio ai migranti e sparando ai ladri di biciclette, ma anche desiderando l’olocausto dei politici tutti, un gran fuoco liberatorio, che rivela molto delle radici magiche che animano le loro coscienze. Dal progetto che vedeva la coscienza di classe quale condizione fondante della lotta, i soggetti rivoluzionari sono diventati figure spaventate, chiuse nei loro fortini identitari e di proprietà. Una ragione ce l’hanno: di fatto, in Italia la scollatura fra classe dirigente e cittadini operosi è chiara; una crisi che la maggioranza passiva del popolo italiano vorrebbe risolta risolva non più in termini di nuovo ceto dirigente, come fu nel passato (autoritario nel fascismo, democratico nella Resistenza), ma in nome degli onesti contro i disonesti: una categoria impolitica, e quindi inadeguata, che però ideologicamente funziona, come ha ben capito il presidente del consiglio Renzi, che ora la cavalca con un populismo venato di autoritarismo post-ideologico. Chiaro che l’antagonismo fra onesti e disonesti non riuscirà mai a diventare frontale, ossia a incarnare la fisiologia conflittuale del moderno, perché le due categorie non sono che semplificazioni sociologiche, oltre che modi d’essere del medesimo homo economicus, che agisce per difendere la stessa coperta corta dei nemici. In questo gioco di ruoli, spesso l’onesto è tale per paura o per mancanza d’occasione. A dividerli è un margine sottile, osmotico, inadeguato a fondare un conflitto dove il tempo del guadagno dovrebbe essere sacrificato al tempo della lotta. Rimangono allora la rabbia e la frustrazione da sfogare al bar e in famiglia. Una violenza privata, fisica e verbale, che si scarica sui più deboli: figli, donne, emarginati.

Non è tuttavia pensabile nemmeno un conflitto di classe che dia un nuovo assetto al reale, sia perché “classe” è un concetto utile ma non sufficiente a comprendere la complessità socio-economica di un tessuto sociale e sia perché, semmai un ente come il proletariato fosse storicamente quantificabile, descrivibile senza ambiguità, storicamente la classe operaia non si è mai emancipata in quanto soggetto rivoluzionario, nemmeno dopo la mondializzazione del capitalismo; anzi, nel terzo mondo sta vivendo uno sfruttamento mai prima realizzato e in occidente è in gran parte omologata al sistema valoriale dominante. Per non dire degli effetti storici delle cosiddette rivoluzioni “proletarie”: non c’è Stato comunista che non abbia piegato le singolarità a un progetto dove le uniche a potersi pensare nella pienezza dell’esistenza (ma come dei privilegiati sotto assedio) sono state le gerarchie dell’apparato; a tutti gli altri è spettato il sacrificio di sé e l’obbedienza, nel nome della rivoluzione da conservare. Una teologia del valore (la rivoluzione) tiranna rispetto alle singolarità (che qui non significa individui borghesi dominati dall’avidità di possesso, bensì esistenze co-appartenenti al tessuto relazionale, enti essenzialmente sociali e dialogici). Oltretutto, nel presente italiano non c’è una progetto rivoluzionario in corso di questo tipo. C’è piuttosto un’attesa, un agire culturale per una transizione rivoluzionaria, dialetticamente convinti che, come scrive “n+1”, la rivista della sinistra internazionalista italiana, il comunismo sia un processo già in atto, un’antitesi in formazione, che darà infine vita allo scontro decisivo per la vittoria sul capitalismo. Nel frattempo, la sua preoccupazione non è organizzare la classe operaia, ma, al contrario, evitare qualsiasi “forma organizzativa finora espressa dalle società classiste” (partito, sindacato, movimento ecc.). Una preoccupazione formale, appunto, in attesa della catastrofe rivoluzionaria, basata sulla fiducia che il capitalistismo la stia preparando e che al partito spetti la guida conclusiva del processo. Al momento, dunque, la lotta armata della sinistra rivoluzionaria non costituisce una forza reale in gioco per la realizzazione della discontinuità storica. Non è prevista.

E l’antagonismo anarchico? La pratica dell’attentato, del sabotaggio, della destabilizzazione permanente con attacchi mirati a obiettivi sensibili, attraversa gli ultimi due secoli, ma nei momenti del cambiamento decisivo (prima e seconda guerra mondiale, guerra di Spagna, fascismo, Resistenza) l’anarchico ha dovuto diventare partecipativo, collaborando con gli altri partiti a cacciare il vecchio per fondare il nuovo. Un nuovo, dal suo punto di vista, sempre inadeguato perché, nella modernità, agito entro il paradigma della legalità di Stato, del contratto sociale, e quindi dall’anarchico vissuto come costrittivo, a-libertario e ingiusto, come nemico da combattere.

L’interessante di questa posizione consiste nel fatto che è l’unica forma di lotta armata presente in Occidente; l’altra lotta, questa volta per l’autoconservazione, la combatte la classe dominante delle singole nazioni, con un ideologismo esasperato e con i ricatti contro la forza-lavoro. Questo significa che oggi in occidente – se si esclude il terrorismo integralista islamico, ma che ha i connotati premoderni di guerra di religione e di conflitto tribale – ci sono due forme di lotta politica, una armata contro i beni e i simboli del capitalismo (banche, grandi infrastrutture ecc.), l’altra, agita dal grande Capitale, giocata nel ricatto e nel controllo delle coscienze (vero, per esempio, che la teatralizzazione mass-mediatica dei fatti incendiari recenti, probabilmente facilitati dalle forze dell’ordine, ha catalizzato il dissenso verso i contestatori violenti anche di chi vive un disagio sociale pari al loro). E questo non è un fatto straordinario, bensì, appunto, appartiene alla fisiologia del moderno, che pensa al cambiamento come la risultante di un conflitto, dove chi vince decide le regole del gioco in nome della legalità. Ciò è vero anche per le posizioni riformiste, che spostano il conflitto fisico nello spazio simbolico del Parlamento (simbolico non sempre, come abbiamo visto soprattutto nella seconda republica) o con manifestazioni di piazza pacifiche, secondo il principio, moderno, del ‘contesto ma rispetto le regole comuni perché credo nella democrazia’.  

Se l’antagonismo anarchico è inefficace a rifondare il presente con un nuovo paradigma, proprio per la sua natura utopica, costantemente insoddisfatta dell’ordine costituito, il riformismo agisce su tempi lunghi, fuori dai ritmi e dai bisogni del biologico, e quindi funziona in tempo di pace (per esempio nell’età giolittiana o con De Gasperi), ma non durante la fase acuta della crisi di un sistema, dove le spinte centripete dovute ai bisogni insoddisfatti cercano un catalizzatore che le coalizzi contro il nemico tiranno (così successe quando l’ancien regime fu scardinato dalla rivoluzione del 1789 e nella Resistenza).

Entro questo scenario, di conflitto reale ma improduttivo, dove l’ideologismo spinto del Capitale sposta il nemico sui soggetti deboli (migranti, antagonisti, nomadi, emarginati) facendone dei capri espiatori da dare in pasto agli onesti (e ai disonesti, che li sfruttano in diversi modi), e il movimentismo pacifista, ecologista ecc., riconoscendo i confini entro cui gli è consentito di muoversi, non minaccia gli interessi del Capitale (al massimo lo convince a riconvertire la produzione in beni “sostenibili”), mi pare ci siano almeno due questioni da approfondire. La prima è che manca una teoria della lotta armata sganciata dai paradigmi precedenti (fascista, comunista e anarchico), una lotta che, entro le dinamiche del capitalismo avanzato, ridefinisca i soggetti in causa e i fini per i quali combattere, una teoria capace di una parola d’ordine efficace nell’immediato, in grado di chiudere temporaneamente il conflitto fra le parti, ma che riprodurrebbe le dinamiche violente e parzialmente incontrollabili delle precedenti rivoluzioni moderne.

La seconda questione, che mi interessa di più, è: se la modernità è giunta alla fine, è possibile anche pensare a una teoria del cambiamento radicale che non preveda un conflitto armato? Una teoria che ridiscuta le categorie politico-economiche e lo stesso processo storico non più in termini dialettici o di inevitabile progresso? Una teoria che adotti la complessità pluridisciplinare come elemento per ripensare il capitalismo, non più inteso come destino ineluttabile o necessario passaggio a una società senza classi? Di questo sento la mancanza oggi: di un pensiero politico e di una filosofia della storia che felicemente mi spiazzino, capaci di portarci fuori dal modello conflittuale, di portarci fuori dal moderno, insomma, dalla visione e dalla pratica della violenza progettuale quale risoluzione delle crisi politico-economiche. L’alternativa è il perdurare di un capitalismo che si erge a principio ontologico a cui si contrappone una lotta violenta ormai esangue o una resistenza pacifista, di massa ed eterogenea, lodevole nelle intenzioni e unita contro il nemico, ma in disaccordo rispetto alla progettualità politica, per l’eterogeneità socio-economica della base (vedi le divisioni interne a “Podemos”, il secondo partito spagnolo, nato dalle ceneri degli indignados). E intanto, fuori dal malato recinto occidentale, il terzo mondo preme per adottare la modernità quale riscatto dalla miseria (con il grandissimo problema delle limitate risorse disponibili) o, peggio, in area integralista, per sconfiggerla attraverso la guerra santa, che ci vorrebbe in uno stato di sudditanza totale e senza memoria, in obbedienza a un ordine metafisico custodito da sacerdoti talebani, medioevali nella concezione politica e disumani rispetto ai saperi che la contemporaneità ci ha messo a disposizione.



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