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Francesco Dalessandro

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foto di Dino Ignani


L’osservatorio (Moretti & Vitali, 2011) di Francesco Dalessandro è un unico, lunghissimo poema diviso in capitoli, che hanno al centro due fuochi: la città di Roma e l’esercizio del guardarla vivere, fluire come sangue o fiume. Non c’è quasi anima viva che l’attraversa. Scorrono invece, a cascata, particolari stagionali e fatti di natura, segnati tutti da un dolore, sentimentale più che eroico, che partecipa allo sguardo dolente dell’osservatore.

La poesia proemiale, condensata nell’invocazione alla musa, sintetizza lo spirito del libro, sia nella scelta stilistica (“ho bisogno di un verso / liquido che fluisca naturale / con forma e suono acconci che narri districando / il groviglio dei sensi, di un senso / semplicemente chiaro nemmeno verità / ma ipotesi del vero che sia / ricco di effusione e scarno senza / povertà”) e sia nell’atmosfera crepuscolare in cui si avvolge, fra languori, foschie e sudari, con rari guizzi nel colore. Capita, per esempio, quando la città si popola con la coda automobilistica del rientro serale, “bava / brillante di lumaca più che corso di luminarie / nella notte” (si noti il lavoro sugli accenti che danno forza all’allitterazione in a, e la paretimologia di lumaca-luminaria).

L’inattualità dell’ispirazione deriva dalla cronistoria del libro, composto fra il 1985 e il 1993 e le successive revisioni, ma anche, mi sembra, dalla sua contiguità con il poeti di “Prato pagano”, in particolare con Gabriella Sica. Ne recupera la meraviglia verso il creato, il senso pagano di appartenenza alle forze ctonie (declinato da Dalessandro in senso sentimentale), il valore sacro dell’amicizia, la ricerca di un verso disteso, musicale e tendenzialmente endecasillabo.

La sua originalità, rispetto a quell’esperienza, che risale ai primi anni ottanta, risiede nell’impeto sequenziale della strofa, monolitica eppure fluida, tesa a seguire il succedersi delle variazioni di luce, come nelle ninfee monetiane, ad assecondare la visione, che si posa dolcemente su ogni evento, condensato da nome e aggettivo, concrezioni tuttavia non imperiture, ma destinate a svanire, come presenze di passaggio sulla superficie del Tevere. Dentro questo apparente en plein air, si nascondono tuttavia, e si amalgamano, una miriade di citazioni, esplicite (e rintracciabili in nota) e implicite, come l’incipit scopertamente dantesco de L’azzurro cielo: “Sandro, vorrei  che tu Bordini e io”, che inaugura un viaggio amicale bagnato dalla pioggia, dentro una “pasqua [che] passerà senza resurrezione”, in compagnia degli echi non detti di altri poeti, primi fra tutti D’Annunzio e  Leopardi. (Sandro è Alessandro Ricci, un poeta d’origine piemontese ma vissuto a lungo a Roma, di cui le Edizioni d’Arte hanno appena pubblicato un’antologia postuma con un saggio di Stefano Agosti dal titolo I colloqui di Elpinti. Carlo Bordini è poeta assai diverso da Francesco Dalessandro, nella misura in cui contamina i registri, usa con più frequenza il pedale della metafora, si fa attraversare dall’urgenza autobiografica messa in scena con tragica ironia com’è ben evidente ne I costruttori di vulcani. Tutte le poesie 1975-2010, Sossella, 2010).

L’osservatoriocontiene due “amichevoli testimonianze”, l’una di Attilio Bertolucci, l’altra, più interessante, del compianto Gianfranco Palmery, che nel 1989 rileva, in quel flusso strofico di cui accennavo sopra, la vena barocca di Dalessandro, esorbitanti come sono l’andatura ritmica e verbale, che non lasciano “spazio a una pausa. Questa colata metrica – continua Palmery – […] dice l’orrore del vuoto [che] è orrore della morte”. In contrappunto e per compensazione, Palmery ci legge “la precisione descrittiva e nomenclatoria” dello spirito classico, con vocazione al paesaggio italiano. Condivido pienamente, a conferma di una linea sensuale ma non estetizzante della poesia italiana, di una carnalità della visione che si organizza per immagini sequenziali, nel cui accumulo si può riconoscere un pensiero, non concettuale bensì emotivo. Il riferimento alla tecnica cinematografica di Alfred Hitchcock, che troviamo in esergo al primo capitolo, sintetizza la questione. Scrive infatti il regista inglese, a proposito del suo La finestra sul cortile: “Questo rappresenta la più pura forma di cinema, ciò che si chiama montaggio: pezzi di film messi insieme per disegnare un’idea”. Lo stesso fa Dalessandro, montando il suo poema con frammenti che appartengono alla sfera del sensibile, a comporre non un giudizio sul mondo, ma l’effetto di questo sulla coscienza, nella consapevolezza di essere giunto alla fine dell’Occidente, con la possibilità che non ci sia più niente da dire per salvarlo.



L’OSSERVATORIO, Moretti & Vitali, 2011

da I - L’OSSERVATORIO

1


Torna, Musa, coi mattini brumosi e torbidi d’autunno
coi vapori dai fossi dalle forre
fumiganti gli odori aspri i colori
densi del parco la luce come il cuore
intermittente; torna con lo scialo
dei platani sui viali coi voli di passo sull’oro
delle foglie; torna con la foschia –
tenue sudario disteso pigramente
sopra i tuoi colli, mia mortale
città, sull’acqua fosca dei tuoi fiumi
letali – col sole temperato di settembre
che la scioglie; torna, ritorna col passo
frettoloso che guida ai sottovia
della metro all’aria aperta col primo
nubifragio di fine estate – code
e ingorghi inestricabili di traffico
impazzito –, con l’ansia la pazienza
ai versi necessaria col loro lineiforme
stratificarsi, frecce scagliate dritte
al bersaglio 
                     «ora non posso, se mai
fu possibile prima, esaurirmi in un fuoco
di lirica passione sfolgorare
in un brillio di breve e fatale
intensità (sebbene è vero l’esatta
misura sia di dieci dodici versi
o tutt’al più un sonetto come O dolce
selva solitariaperfetto di Giovanni
Della Casa), ho bisogno di un verso
liquido che fluisca naturale
con forma e suono acconci che narri districando
il groviglio dei sensi, di un senso
semplicemente chiaro nemmeno verità
ma ipotesi del vero che sia
ricco senza effusione e scarno senza
povertà: questo m’è necessario»;
                                                       che ne sia
capace o lo creda tu torna, mia Musa, col fresco
della sera col rosa della rosa ottobrina e solitaria
tornata a rifiorire nell’aiuola feconda del cortile
(dove si godono il calore della terra le mattine
umide due gattacci, l’indolente invecchiato fulvo maschio
e la femmina furba giovanilmente inquieta che mi guarda
diffidando e sfidandomi); col rosa fuoco torna
dell’occaso la sagoma oscura del parco le luci
del Forte, le prime a vedersi, e le finestre accese
su Pineta Sacchetti – avamposto borghese popolare
di Primavalle proletaria – dal fondo della curva
nascoste dai filari verdecupi dei pini dalle spente
acacie macchiaiole lungo i bordi del fosso e della 
strada, immerse nell’indaco notturno che spaesa
il reale

– infine, Musa, vieni con l’affanno del nuovo
o la quiete serena che dà la tua franca
parola.



6

Invecchiando, però, la stanchezza comincia a farsi sentire,
specie nel momento in cui è appena passata l’ora di cena,
e per te non è cambiato niente…

Pier Paolo Pasolini


L’ora di cena è passata – non ha
cambiato niente niente ci ha cambiati –
lo scroscio dell’acqua della tempesta
nel vento spietato che sbaraglia anche l’ardito
mattutino pensiero – ma per poco ma solo
nell’ansia che la resa al cuore umana
genera angoscia e la rinnova e la riaccende
dolorosa, che l’acqua dalla valle
venendo e dai suoi boschi non potrà
lavare – e lo sguardo smarrito che non trova
pace, lo stocco muto e repentino della
folgore sul parco e subito il rintrono
del tuono rotolando lontano fino al fondo
cavo del cuore tutto tutto che più
non sai che più non vedi, il risparso
suono ancora della pioggia contro i vetri
e le persiane, il trepestio delle ruote sull’asfalto
viscido e nel giardino angolo vivo
di verde imo terreno, sotto l’edera
alla base del pino le due tartarughe (le tue
tartarughe) vicine dormienti – nonostante
la pioggia battente – di tutto
ignare e di se stesse di noi soli a diverse
sponde guardinghi, mentre cuore torpido
e uggia la città che non ha pace
paludata ora spartiscono stigia dove si muore,
e la stanza in cui astro non spande
luce, ossidiana.


9


un fuoco di rifiuti di cascami che non
può dare calore ma solo una bluastra smorta
fiamma che brucia bassa e nero fumo contro
il cielo coperto (una nube ci minaccia) leva
acre di quanto mal
si degrada e consuma nel fuoco, rossa spiga
cresciuta tra vapori e tronfie tenebre; gonfie
nuvole presto, aria e terra adiuvanti, s’apriranno:

acqua finché altro nuovo giorno si levi acqua
benefica o letale cada stanotte sul parco
vuoto, al cui fuoco nessuno si riscalda;

la correntìa di luci lentamente esaurita s’allontana,
solo ogni tanto un rombo cupo rantola ancora
giù nella strada piana piano muore.



da II – STAGIONI DEL BASSO MONDO

[...] 

livida acqua trascorrente vita                                   ottobre
nel limpido mattino
e nell’ora al mio sguardo assonnato
destina
la duplice visione: a pelo d’acqua
un armo a due, voganti
cuore e ragione, e sulla lenta
corrente a galla un grosso topo
morto scivola verso la sinistra
riva
dove un vecchio barcone all’ormeggio
dondolandosi culla chi ancora
in queste prime ore
di luce dorme e non sa che desolati
segni con la sua cupa
acqua il fiume rechi al giorno: fatica
e pena nuove, sirene senza canto
risorte al tardivo appena tiepido sole
d’inizio autunno sulla piazza dove
Tritone si erge a sfidarne lo sguardo 
mentre assistono al volo degli storni
(forse solo avanguardia del grande
stormo che al primo freddo i nostri cieli
oscurerà), dei pochi che sui platani
del Centro hanno dormito: verso l’assolata
campagna romana li spinge l’istinto,
ma ancora
indugianti sui viali e le ormai spoglie
vette intrecciano voli striduli richiami –

«non guardarli, non sperare
che anche per te s’aprano le gelide ma terse
vie del cielo!»

per altra via dovrò salire ad altri
approdi conviene che mi porti, san Nicola
da Tolentino, più terreni e riparati muti
di luce in cui passare il giorno e assenti
gli affanni non sentire non sapere mi sia
grande ventura, ma prima permettimi
una sosta da Pietro che sulla sua pietra
tintinni il prezzo della prima tazzina
di caffè, nel tepore del bar nel suo brusio
bevendo e parlando lasciami preparare
all’ascesa del giorno…



da III – L’AZZURRO DEL CIELO

Dorme, lei – lei che non dorme
mai quando i suoi cattivi
pensieri l’opprimono e inquieta
si gira e rigira nel letto, rancori
profondi ne turbano il sonno, ora dorme
forse paga del pianto che la notte piange
dietro la persiana abbassata la finestra
ben chiusa forse invece sopraffatta
da una stanchezza che perdona e addolcisce
anche l’ansia, perduta in un suo sopramondano
sogno; chi insonne soffre il proprio
dèmone attende l’alba il lucore
di un’aurora lontana che fra nembi
vuoti trovi una via rischiari le borgate
più remote le vie di popolari
periferie, che a lei doni il risveglio
presago di una domenica di pace
e di lavori domestici, a me il sonno
torbido e breve del mattino l’ozio
fra tavolo e giardino la solerte
necessità

                – sgocciola ancora acqua
dai balconi più bassi e sul fogliame lucido
dei lauri il sole ostenta la sua luce, nuovo
calore sulla morta siepe dove il sangue
della vite risplende rappreso («nemmeno
la pioggia furente di stanotte è riuscita
a lavarlo, ma goditeli il sole
e l’aria frizzante sulle vele della tua
domenicale indolenza») la calda luce svela
i suoi maneggi nell’ombra della casa,
domenica mattina di grazia e luce
nuove trascorre nel domestico nostro
labirinto di minute occupazioni, pulizie settimanali
restauro di un ordine che l’incuria dei giorni
feriali ha compromesso: imbustare
vecchi giornali raccogliere gli aghi
di pino strappati dal vento
notturno – tra l’erba battuta le due
tartarughe, godendosi l’ultimo sole
dell’anno il calore dell’estate
di san Martino, s’impegnano in sofferti
giochi d’amore prima di un letargo
che ne rigeneri gli istinti l’energia d’una vitale
volontà – il sole scalda anche i miei
sensi li accende il desiderio: non avrà
compimento fino all’ora della siesta
dei pensieri leggeri nella quieta penombra
della camera da letto, velata euforia
dopo pranzo ci prende ci perde al meridiano
fuoco dei nostri corpi nel calore
del letto («la minima appagante
felicità facilità dei nostri gesti – la sua
mano stringe e carezza – le mie dita
intente nell’umido del nido sui bottoni
bruni del seno...») e dopo il fuoco
la brace di una paga
dissipazione.



da IV – MARE DELLE PASSIONI


8 (Il mattino)


Strane voci nell’aria del mattino
festivo destano all’ansia alla pietosa
luce che scalda l’erba e i verdi lauri
del giardino dirada le notturne
brume scioglie la brina uccide i sogni
avviando cuore e mente dal torpore
della bassa pressione uscenti come
il sole dai nembi a fatica l’albanella
dal fitto dei rami – è il tempo incerto
dell’autunno romano quando nei viali
maculati di ruggine strepiti d’ali
e richiami chiassosi di storni dalle chiome
ramate dei platani levandosi a chi sosta
o transita oscurano la vista l’azzurro
mattutino mitissima procella sopra Monte
Mario vaniente oltre le antenne e l’ocra
sporco e vecchio dei Prati – mentre prende
vita la strada e a poco a poco cresce
il frastuono del traffico si anima la casa
si scaldano voci e finestre, ma il rumore  
ferisce e risveglia il dolore sopito
di una passata età che si credeva 
sepolto nel costato insieme a morte
passioni acerbi inganni giovanili 
e quel dolore l’angoscia magra smania   
di perdersi nutre come i tiepidi raggi  
novembrini l’opulenta magnolia le sue
grasse foglie ondeggianti alla fredda  
tramontana, così me tra desiderio   
e abbandono oppresso dall’inquieta   
sedizione del cuore nella nemica aria
fragrante nell’amorosa luce di un sereno
sguardo poi che ignaro di quanta
tenebra offuschi il mio e i miei pensieri
incapaci d’amore e vita ormai
fuori da ogni partita che ancora
gioventù nei lunghi giorni gioca
mentre a me gli anni sono corti
e difficili, incerti come questo mattino
maturato con passaggi di nuvole
e paure nel cuore nel cielo turchino.


12 (L’osservatorio)


L’osservatorio, il punto
d’osservazione è quello ma le cose
sono cambiate (peggiorate) «forse osservi
da una diversa prospettiva con avverse
condizioni» anche l’età non è la stessa
«(l’età o l’epoca?) aggiungi l’accentuata
imperfezione della rima» quanta
quanta acqua è passata sotto i ponti
di questa nostra Roma appena sveglia
«sempre uguale a se stessa» da quassù
da un’altezza che la redime nella prona
misericordia del sole ancora assorta
sonnolenta e distante dalla trama
defoliata dei rami da vertigine di curve
e discariche appare (l’uomo curvo
sulla rampa a restringere foglie ad ammassarle
per il fuoco non vede non si accorge
di quest’ora e questa brama, consueta
visione dei giorni) come i sempre-
verdi ancora a corona dell’oro gli alti
pini (oh svettanti) nel mattino di gennaio –

chi ritorna sulla soglia dei quaranta-
cinque anni a discendere dolente, con la mente
formulante congetture di un estremo
nuovo inizio d’amore
                                   «oh ridicole speranze
buone a illudere non necessarie oh vergognose
lagne, l’anima offesa nei suoi muti
giorni piange sventura ah miserella
sognante un corpo e una vita di beata
felicità – quale inizio che sia servo
e padrone di se stesso? quale insonne
verso scritto in corpore vili? una celeste
mattutina salvezza o il lagno muto
sull’aria dell’Ermione: non sperare
sorte amara (ti rivedo, ah ti parlo!) non farti
illusioni»
               quei pini assiepati quei frementi
pini appena svegliati dal calore a un distretto
fortilizio rassomiglia nell’azzurra
castità del mattino che lo vede
allontanarsi sospinto da una smania
dolce da un’ansia divenuta impaziente –

e il giorno cresce si fa più caldo
il sole il traffico più intenso l’ora
e l’aria maturano addolcite mentre spira
tra le siepi e i rami spogli della vite
americana dalle curve sulle foglie
tintinnanti e sui volti un leggero
vento, limpido il cielo ma sul cuore
pesa una nube l’ansia dolce diventa
sottile angoscia «mio dèmone domani mi dicevi
sarà il giorno finita la clausura di cercar
ventura, io consumo l’attesa passando
il ponte e tu sei pronto a uccidere l’illusa
speranza un’altra volta senza averne
pietà», negli occhi stupefatti è pura
luce il fiume la città corpo segnato
per secoli paziente si dispone al nuovo
giorno.



Francesco Dalessandroè nato nel 1948, vive a Roma. Ha pubblicato i libri di poesia: I giorni dei santi di ghiaccio (Barbablù, Siena 1983); L’osservatorio (Caramanica, Marina di Minturno 1998 e in seconda edizione Moretti & Vitali, Bergamo 2012); Lezioni di respiro (Il Labirinto, Roma, 2003); La salvezza (Il Labirinto, Roma, 2006); Ore dorate (Il Labirinto, Roma, 2008), Aprile degli anni (Puntoacapo, Novi Ligure, 2010); Gli anni di cenere, (Associazione culturale ‛La Luna’, Sant’Elpidio a Mare, 2010, con un’incisione di Michela Sperindio), e Primo maggio nel Pineto (Stamperia d’arte Il Bulino, 2012, con disegni di Silvia Stucky). Ha tradotto dal latino, dall’inglese e dallo spagnolo. Dall’inglese ha tradotto e pubblicato alcuni importanti classici della poesia otto-nocecentesca (tra cui George Byron, John Keats, Elizabeth Barrett Browning, Gerard Manley Hopkins, Wallace Stevens); ha pubblicato di recente 42 sonetti di William Shakespeare scelti da Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Ladro gentile (Il Labirinto, Roma, 2014). Cura il blog  http://poesiesenzapari.blogspot.com/

Alcuni siti consultabili per maggiori notizie o letture di testi:



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