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Cristina Annino, Inediti

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Dipinto dell'Autrice

Il discorso poetico di Cristina Anninoha un suo ritmo inconfondibile sin dalle sue prime prove. Costruito sulla misura della frase, spesso metaforica e discretamente autonoma, esso disloca il lettore sia sul piano semantico e sia su quello emotivo, spiazzandolo qualora egli tenti di riordinare i segmenti frastici in una narrazione discorsiva e lineare. C’è infatti sempre un non-detto, uno iato, nel verso anniniano, un’assenza che le frasi di volta in volta sembrano colmare ed invece mantengono, proprio in grazia della forza spiazzante della metafora, scolpita nella materia e con forte carica antiermetica. Ciò è ben evidente in questi inediti, dove non c’è sfondo mistico o altrove salvifico, e ogni stringa di senso riporta una scena vivente, nata dalla quotidiana alienazione in cui siamo immersi, ma ripensata per sequenze statiche, per fotogrammi serviti freddi o come un collage.

Detto altrimenti: Cristina Annino, qui e altrove, ci consegna l’accadere, l’esperienza ordinaria dopo averla tagliata con il coltello dell’intelligenza e averne conservato alcuni snodi per sé, che tiene in riserva di poesia in poesia, di raccolta in raccolta. Sono i nuclei energetici del reale, che legano parzialmente le frasi tra di loro, frasi che talvolta lei spezza, con a-capo potenti come fionde, che trasmettono al testo un non so che di fecondamente barbarico. A ciò si aggiunge una percezione atemporale, schiacciata, degli eventi, giacché il tempo “è ciò che / si vede”; un sentire che amplifica l’evidenza sensoriale della sua poesia, il voluto distacco emotivo.

Questa poetica sottende nel complesso anche a una intenzione etica, a un giudizio disincantato sul poco che siamo diventati, insalvabili eppure necessari gli uni agli altri. Annino infatti lascia intendere quanto importante sia la relazione autentica, non nevrotica, nell’alveo di un tempo senza inganni. In fondo, queste poesie ne cantano la possibile rifondazione, a partire dalle macerie domestiche e sociali, private e pubbliche. La pietà del Mondo (e verso il mondo) è tenuta fra quegli snodi energetici di cui parlavo più sopra, e forse ne è il catalizzatore più potente, funzionando da possibilità non ancora combusta dall’incendio della civilizzazione, la cifra che fa la differenza tra il sopravvivere e il vivere. La poesia dell’Annino parla del primo triste termine, ma invoca il secondo, ci chiede gli affetti di cui è ancora capace una pietas sincera. E lo fa con intonazione virile, senza ricatti sentimentali o facili moralismi. 



La pietà del Mondo




L’amico della volpe




Trecento triste, gli amici!
Spalancano porte nelle ore
che hanno un orario. Cattivi né
buoni col fermo del sorriso a metà
e frasi di pallottole per la
caccia; convinti
che parlare sia umano, il silenzio
meno. Fugge ogni senso. Poi
frullando il bicchiere della staffa,
a piombo le scale fino al
mento, ridanno al monaco l’abito
che lo fa. Mai
puntare il mondo su un cavallo solo.

**
Non li ricordo più fino
in fondo, i nomi scorrono dal rubinetto.
Uno solo guizzò tra le sedie colpito
dal fulmine; baloccava le frasi. Era un gioco
col tele comando, magari finzione; però
zitto fissava il piancito come fa
l’ universo cavo. Quasi uno sparo
gli salisse le scale interne sopra il
menisco. Svaniva piano
la sua faccia a velo nel sibilo delle mani
su un corno. Avvisò
la volpe dei cani, forse, scacciando
morte da quelle frasi, perché
si torse così, di fronte:è troppa
carne per il mio spirito!




L’Araldo che sa, se la spassa




Da subito non mi piacque; solo
il corpo, forse,  claudicante.
Era
un sasso scagliato dal cielo coi muscoli
delle mani. Un fulmine sceso a piedi
nell’universo. Noi sul terrazzo fermi
come gerani. Pareva un Araldo.

**


Poi si pensò a un scoppio
di clima, al cavallo di Troia, stupiti,
che, che,si parlava coi congiuntivi,
in quelle mattonelle come la stanza di un cine.
Ci si contava le maniè qui sotto?Dov’è
andato? Si rise anche, appena cerniere
sulla corrente lampo che subito chiuse
la visuale. Mai la sera coprì così, totale,
preraffaellita; sbucciava i bulbi. C’è ancora,
lo vedi? per dio, con quei piedi non si va
mica in Cina! Eh sì; il Tempo lo comandò:
che dovesse caderci la vita
sopra, la Grande Vi, quasi una pietra avesse
colpito il generatore dei sensi.

**


Ci tolse
il piatto prima della seconda portata
di carne. Fu un’invasione di fiori, di
lacci, di zampe, un tamtam di leoni
e vapore, fiato immenso d’ombre;
anche i pesci del mare fuori in alto
guizzando. Ruotò tutto; si capovolse.
Fine. Nessuno di noi vide l’Araldo.




AGIP




Pareva un gallo, becco aperto,
sventolando intorno la giacca. Poi così,
con l’ala del proprio tormento, chiese
alla Sfinge un segreto che svelasse
Lei prego (raccomandata senza
ritorno al sasso di gravità), un che di
ceramico, di cervello spento. A volte si sa,
si perde un senso o due, i capelli van via,
ridiamo male, perché? E sulla
luce molecolare emerge il cranio. (Lo
filmavano tutti come un divo).

**

Non si fa, pensai,
non così. Eppure un mondo
ci passa accanto parallelo sul
muro, in città, cinema, treno. Sciolto,
elegante -chi lo disegnò?-  e dritto tanto
che non frena. Anche al buio sento
camminarmi da quelle zampe. Con bassa
moralità  penso ci somigliamo, eccome,
siamo
l’essere umano che è sempre meno.

**

Ogni stranezza
distrae dall’intero, certo; ma non
questa era l’ala di tormento del suo
spirito santo. Era
pensiero, tamburo, reclame; era mentre
quel segno moltiplica  sabbia. Ci piaccia
o no, arriveremo a un deserto e ci
filmeranno. Il Tempo
non succede più, è ciò che
si vede, schiacciata in latta tutta
la nostra carne.

**

Sul serio: dopo questo pochissimo
poco chiamato manna o fuoco di
filo per Teseo; dopo chi ci
salvò mille volte- a dire il vero- noi, pavoni
di Storia sui tomi volando come
tappeti. Dopo
i massacri d’essere uguali con le
offese atroci e daccapo (dove stanno
le colonne e i leoni!). Cosa resterà
dell’Atomo digerente? gran Tubo
idraulico: la mente sulle anche mentre
spazza via una clessidra le piante
annose. Certo non noi, non così: Fine
senza Zero, l’Agip restando nella Storia.
Dilloo!(Il caldo faceva chicchirichì).




L’erba voglio del Re nudo




Beve una tazza di tè, siede, pensa
a quando non amò mai, non ne era
capace; nessuna qualità da rendere
un uomo infelice, così sullo spiedo. Ora
va nell’universo senza figli, remando
senza vele, oppure conta le capre: c’è
la lepre e il cinghiale, i maiali anche; l’amore,
l’animale più fedele. Il sole si
scompiscia reggendosi alle persiane; eppure
lui lavuole. Gran verbo
regale, ghigliottinato, giardino
del re nudo: gli esplode tra le gote, e la testa
fa pluf.

***

Scende così col suo spiedo, l’asfalto
colpisce un rene, uno no. Poi sente
gracidare le rane; allora
salta il fosso, il bene, poi il male, poi
avanti sarà solo carne. Lei gli
ricala in corpo come il fiato
d’un cane, conta gli ossi e la carne, lo
stira al vapore, l’ingoia, poi risale
infedele all’aperto dalla cruna
dei polsi. Si lava le mani. Neanche un
saluto, non sa che farne. Lo rimanda a Pilato.




Giaculatoria




In ospedali senza elicottero né
ali; tutti spariti, tutti senza corrente,
remissivi, folli, che ognuno
porta acqua alla propria fonte.
Ti levano
dal letto, lo rifanno e rificcano lì.
Aspettando io in piedi nelle
fredde stature di me, senza più
fogli di sigarette, canne al vento
né cellulare, un siluro di gas invade
l’impiantito del mio cane dentro.
Dove
dormirò, stanotte a manciate con
i fagotti, crollando nella tromba
del muro di scale, e la metratura
enorme di Dog, il suo pelo indice
di patimento per me!




La pietà del Mondo




Una gran voglia di disubbidire; in
sogno ce l’ha nella carne, massa di spirito
voglio dire. Battendo
quel fracasso, quel ben di dio, quel marrone
cuoio. Folgorazione
d’ un quadro (sempre
libri di mezzo; mezzo scaffale
pesa quanto
un morto medio, un’età, l’esperienza
morale d’un uomo).

**

Senza fine si uccide. Anche
dormendo avverte le gambe
metà di qualcuno, la vita già via
di garrese e pensieri, immagini
sacre. In due parti
si taglia un uomo; metà, solo
bocca di versi. Frasario vero quel
viso che ancora parla semivivo
per terra. Poi
cede. Si fa così coi cavalli! Grida. Ma
nessuno sente. E se anche
lo sa, raccatta una
cicca si fuma le dita. Ballando o
morendo che male ti fo?canta forse
alle miniere d’Irlanda.

**

In fondo al suo
sogno lui più patisce, quanto meno
sono le foreste del Globo; davvero
questo non offende per primo. Si
toccano
appena le mani e lo sente: sdegnato,
triste, sfiammare un poco i crateri, alto
purgatorio nostro, poi conico
in volo coi piedi di nuovo sparisce.




La persiana




Dico, addormentarmi come
tanti, in tranquillità! Girare
sulle spalle di tonno. Ho sempre
addosso chiasso di discoteche, oppure
sono io che suono. Ragiono, braccia
fuori e gomito al buio; il vento
mi disegna il pigiama. Vedo
una fila di gente sparita, riapparsa.
Soffio sui bastardi
che non mi vogliono bene, occhi
d’oboe spostandosi intorno
per metri. “I marrani
rimangano fuori!” grida al buio
con me la persiana. “Viaa!” Però niente
accade; piove leggero sui vetri.




Parametri umani




Passa i muri con i plami; si porta,
occhi chiusi, nei corridoi. Sente
normali quei gabinetti
in salita che non finiscono mai,
scritte funebri; l’aria intanto gonfia
la visuale. Ha in petto un patrimonio
letale di convivenza. Anche l’esercito
della Salvezza lo cantò con
baccano, mani e piedi finito e alto
quanto bastava; ondeggia ora senza
dignità. Più destro che sinistro, è
giallo avana. Eppure perché
vale di più e quanto più pesa
al mondo, la differenza dico, tra
la sua
disperazione vera e la nona sinfonica
eterna? Allora
si ascolti anche questa, di gloria!


Che la terra smetta di girare, per
esempio; che ancora
si scriva, si legga
il giornale o crepando uno
tra le coperte.
Non siamo niente, gonfia
la roba di noi, così
di lato volando mentre si prende .
Quanti
siamo ? non ne possiamo più: se la
terra taglia
cenere. Che in fondo
tutti insieme cadremo sugli stinchi, mica
in piedi! Lo sanno bene
i cavalli senza fede, i crani lisci;anche
i vermi. Che sparisce
l’universo senza eredi. Sembra. Poi
invece è d’accapo. E in questa
solitudine s’addormenta.




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