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Nino Iacovella

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Il titolo dell’ultimo libro di Nino Iacovella, Latitudini delle braccia (deComporre edizioni, 2013), mi evoca l’immagine dell’uomo vitruviano leonardesco, quella sua apertura degli arti a toccare i confini dello spazio vivibile. Solamente che Iacovella, uomo del moderno, quelle braccia le sprofonda nel tempo, “per ritrovarlo”, ci dice, attraverso segni antropici, testimonianze, letture. Non si tratta di mero esercizio documentario o archivistico, ma di trovare il modo di ricomporre una ferita originaria, un’occasione perduta per sempre, intuibile durante la lettura e che l’autore mi comunica in privato, nel bigliettino che accompagna il libro. Mio padre, mi scrive, a me e a mio fratello diceva sempre “di registrare la sua voce, i suoi racconti […] e noi non l’abbiamo fatto”.

Metà delle poesie del libro vogliono saldare questa lacuna, recuperando la memoria della terra d’origine, l’Abruzzo, in particolare quando di lì passava la “linea Gustav”. Di quel tempo, nel cuore della seconda guerra mondiale, Iacovella organizza un album di polaroid (in questa chiave è organizzato l’indice), ciascuna a fissare un evento tragico (bombardamento, fucilazione, impiccagione, sopravissuti) attorno al quale, tuttavia, respira la vita, quel pane e quel vino, quelle passeggiate con le ragazze, che salvano gli uomini dall’inchiostro delle macerie.

L’album si apre con la stage di Bologna, dell’agosto 1980, una poesia che dà il tono interlocutorio dell’intera raccolta. Il poeta si rivolge infatti sempre a qualcuno, una vittima spesso, “di un cielo / irraggiungibile”. Qualcuno che forse fa le veci del padre e con il quale tenere aperta una comunicazione autentica, senza mascheramenti. Ne va del senso stesso del prendere la parola, pur sapendo che “la poesia non può cambiare l’ordine / del dolore”, quale atto di responsabilità verso i defunti, di chi è precipitato nel silenzio.

L’uomo vitruviano proposto da Iacovella, nell’età della frammentazione del senso qual è il novecento, si ricomporrebbe solamente se tutto il tempo della perdita svanisse, se la distanza tra l’accaduto e l’accadere non esistesse. L’impossibilità di tale ricomposizione, condanna il poeta alla scrittura per interposta memoria, in un sincero colloquio con i morti, ossia con i testimoni, con l’inevitabile rischio di infondere al verso una coralità epica vagamente prevedibile proprio perché già scritta in migliaia di racconti partigiani e di canti popolari. Iacovella è bravo a evitare questa trappola, organizzando un discorso sintatticamente sempre interrotto, ellittico, così da evitare messaggi convenzionali, già organizzati dalla tradizione. Questi lacerti di senso comunque riconoscibile, egli li lega addensando parole appartenenti alla medesima famiglia semantica, così da organizzare uno sfondo contestuale riconoscibile, ma anche metaforicamente originale. Un primo esempio: “Nel momento della ritirata tra le lenzuola / con i corpi arrotolati che si sciolgono l’un l’latro / tra le pareti lisce, alte come barricate, / la finestra è un’incursione della notte / che mostra la prospettiva d’assalto”: una scena d’amore ricomposta nella metafora efficace della guerra (“nel momento della ritirata”, “corpi arrotolati”, “barricate”, “incursione nella notte”, “prospettiva d’assalto”); un secondo esempio: “Siamo ancora qui a rovistarci i corpi / con la calma apparente che spoglia / dalle coperte un sangue pulsato a scatti”, dove rovistare i corpi e spogliare un sangue (azioni che ci collocano in uno spazio drammatico), sono tenuti insieme dalla “calma apparente”, altra situazione bellica, di attesa prima di una battaglia, per quanto d’amore.

L’oscurità che attraverso tutto libro deriva da questa esigenza di non cadere nello stereotipo, che potrebbe presentarsi anche quando si vuole raccontare il presente, con i suoi riti di sopravvivenza in tempo di pace, che tutti conosciamo – la spesa all’Ipermercato, le gite fuoriporta, la cura dei fiori in appartamento – specie se vivi in una metropoli come Milano, che assorbe in sé tutti i pregi e i difetti del moderno (di quest’ultimo aspetto ci racconta Iacovella nella seconda parte del libro). Tutti segni nevrotici che l’autore coglie ora con timbro drammatico ora con quello grottesco, con esiti convincenti, come lo stesso Giampiero Neri conferma, in una breve “lettera di famiglia” pubblicata alla fine del libro. Molto bella anche la prefazione di Alessandra Paganardi, che rivela doti di approfondimento critico davvero notevoli.




POLAROID

(Scatto di prova)
Hai forse dimenticato le braccia
da qualche parte, in questa città,
dove puoi vedere ancora il fumo
denso dell’esplosione. Vedi, tutto
si compie all’altezza di un cielo
irraggiungibile. Eppure volevi
afferrarlo quel momento di cielo,
così, con la tua mano distaccata
da tutto il resto, un corpo ricaduto
a pezzi, il mosaico che pavimenta
i resti della stazione. È vero,
siamo qui, in tanti tra le macerie,
assieme alla testa di un cane
c’è come terra di carne sbranata

Nell’attimo prima che si compisse
lo scempio, eri lì ad interrogarti
sulla faccenda della vita, senza
aspettarti nulla, nessun fragore.
Ed eri solo a due passi dall’innesco,
vicino a chi avrebbe deciso le sorti
del vuoto d’aria che ti avrebbe preso
per alleviarti dall’insostenibile
peso delle braccia

Nemmeno la tua solitudine poggia
più sulle proprie gambe. Adesso è lì
mescolata a terra indistinta tra
lamiere storte, viscere e sangue

Sabato 2 agosto 1980 – Ore 10,25
Stazione di Bologna


***


Per non dimenticare i nomi
ogni dito che conta è fuori posto, non tiene il computo,
la somma che invece si fa con la voce è rotta
e per questo c’è sempre l’assenza di un volto
a discolpare il pianto 


La linea Gustav

Vorrei cambiare nome agli inverni
tenendo più stretto il ricordo del freddo
il gelo nelle dita dei soldati

Veder sparare ancora i tedeschi
a denti serrati dall’alto del muraglione
con occhi che spezzano a vivo
la coda inerme degli sfollati

E cercarvi lì, tra i vecchi a coprire le madri,
le madri come rifugi per sagome minute
(tra il seno e la spalla, insenature
come porti per piccole teste
spaurite nella burrasca)

Sul paese come un’ombra la linea Gustav,
tracciato d’inchiostro sulle rovine,
il confine tra chi si butta a terra
prima o dopo lo sparo


*


Gli anni nascosti dietro la collina
ritrovati all’apice di un giorno:
adesso siamo il recinto di un giardino
dove nitido si scorge il filo spinato

A stringere questi nodi di memoria
è come mostrare il petto al nemico,
volersi ferire, rovesciando colori a terra,
far finta che non siano solo sangue

Con mani legate siamo in attesa
che si assesti di nuovo, colpo su colpo,
il battito sulla raffica

Del cuore rimane un proiettile irrisolto,
una traccia murale sfarinata.

Mentre la bocca è contro il muro
con la lingua si scioglie un sapore
di sabbia e calce viva che sa ancora
dell’attesa breve dei fucilati


*


Con l’alito delle bestie e il tepore
della paura, la guerra respira ancora
in quel ricovero, non si è spostata
di un giorno da quelle catene,
le mani chiuse dal freddo,
i muri ceduti delle case

Per questo tornerò a leccare la parte
vuota del bicchiere, unico superstite
di un tempo rovesciato sul tavolo,
che saprà di quel vino che macchia a fondo
e mostra il rosso dall’interno della giacca

Riconosco ancora i ganci del soffitto:
erano sempre stati lì per seccare la carne
o le altre cose buone da mangiare

Ma tu chiami
come se non ci fosse voce ad avvicinarsi,
fai poggiare un passo in più nel vuoto
sino a toccarmi

Rimango solo ad ascoltarti
e si chiude il cerchio attorno al buio:

la parte ruvida della corda che ti veste
mi sfiora, e ti sento quasi cadere dal soffitto
prima del silenzio definitivo
monocorde del cappio


*
                             
Ci dissero di andare avanti
          e noi svanimmo nella neve


Lettera
(Battaglia di Nikolajewka)

Abbracciami, come vedi il mondo
mi ha tranciato l’osso
che sostiene la carne,
per questo chiama da sotto i piedi
e mostra il vuoto
inesorabile dello squarcio

Attraverso le vene, prendimi,
prendi tutto quello che rimane

Se la mia faccia resta senza cielo
e gli ultimi sogni ad occhi aperti
soffocati nel fango
chiudili con la delicatezza della neve

e rivolgi il mio corpo
all’altezza del pianto


*


Martiri del 6 Ottobre

Sai che non riesco a vedere il silenzio,
la testa china di una città che ci fa strada,
che ci vede insieme io e te
Enzo, mio figlio che torna per sempre
tra le braccia della madre

Così ti ho tenuto stretto lungo il percorso
sino alla porta di casa

senza dire una parola
senza alcun pianto

Avevo quasi perso l’uso delle braccia


*


da CORTOCIRCUITI

Fossile

Ci si spinge a un punto morto,
dove la pietra è scavata
in attesa di un freddo fossile

Potremmo ferirci se non fosse una carezza
questo raschiare superfici
tra gli strati più duri del vuoto

Restiamo appoggiati al muro ruvido delle cose:
il letto, la sedia, la lampada a portata di mano
ma ora tutto è indistinguibile

Ancora una volta tremanti, al buio

Sappiamo che in casa non può esserci una voragine,
ma dentro siamo sempre in bilico
come uccelli primordiali
che da poco hanno smesso di precipitare

Nino Iacovellaè nato a Guardiagrele nel '68. Ha riesordito in poesia nel 2013 con Latitudini delle braccia(deComporre, Gaeta). Del 2015 è la plaquette con i primi testi de La parte arida della pianura (Edizioni culturaglobale, Cormons) È tra i fondatori e redattori del blog di poesia e resistenza umana Perigeion. Vive e lavora a Milano.




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