Caro R., la questione "creare forme che arrivino più lontano possibile, che riescano condivisibili non solo a 'quelli come me'” è una delle colonne della poesia novecentesca, ossia da quando l'alfabetizzazione e la società di massa sono reali e diffuse sul territorio.Credo tuttavia che la natura del discorso poetico (nella quale suono, senso, ritmo, tradizione, cultura eccetera, si intrecciano) non consenta di raggiungere tutti. Bisogna perciò rassegnarsi a trovare un destinatario quanto più possibile largo.Questo obiettivo (chi scelgo come lettore?) va a braccetto con la questione: quando scrivo, quali parole, quali frasi, quali sentimenti censuro? A chi rinuncio nel momento in cui scarto le frasi con i luoghi comuni, i sentimenti troppo scoperti eccetera? Di sicuro le canzoni di Sanremo raggiungono un'utenza superiore; dovresti chiederti: perché, pur sapendolo, scelgo una scrittura più complessa?Da parte mia rispondo: perché penso alla scrittura come un sistema in cui bellezza e conoscenza s'incontrano (e "bellezza" non è stereotipata; e "conoscenza" non è già data). Focalizza dunque meglio il tuo lettore ideale, ma soprattutto quello reale, posto che "tutti" non sia un target avvicinabile.Vorrei approfondire la questione poesia e cultura di massa perché non è innocente, almeno da quando la Scuola di Francoforte (Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm) ha posto l’accento sulla portata ideologica del linguaggio. Il linguaggio che parliamo ordinariamente, nella sua apparente funzione comunicativa, porta in grembo una valenza persuasiva rispetto ai valori della classe dominante. Nelle parole c’è la dottrina dei capi. Non posso insomma usare quelle parole come se fossero innocenti. Se il linguaggio mette in gioco i valori dei parlanti, in particolar modo della classe dirigente, bisogna che il lettore di poesia sappia riconoscerne la problematicità, allo stesso modo del poeta, che è sempre voce fuori dal coro. Non sono tanti i lettori capaci di questo. Gli altri amano la canzone di Sanremo perché dice che amore è un sentimento puro che rima con cuore. Lo sanno che amore è un sentimento più complesso, ma dall’arte vogliono l’illusione ( dunque il falso), vogliono insomma l’arte come consolazione.Prova a leggere che cosa scrive Vittorini nel primo numero del “Politecnico”: basta arte che consoli, ma arte che colga la complessità del reale. Altrimenti l’arte è inutile. Anzi, dico io: altrimenti l’arte (la poesia) si fa serva del potere.
Come capirai, la questione è ben più complessa. Quando hai tempo, approfondisci la “Scuola di Francoforte”, ma anche, per quanto riguarda il dibattito italiano, leggi attentamente l’introduzione che scrisse Alfredo Giuliani all’antologia “I Novissimi”. Uscì nel 1961 e poi nel 1965 (per ogni edizione scrisse una introduzione che è da leggere assolutamente). Le edizioni successive le contengono entrambe: lì è chiaro che, se viviamo in un mondo in cui la contraddizione è fondante, l’unità del senso è perduta e ricrearla sarebbe una finzione.Tutto questo, come può diventare “popolare”? Io dico che lo può essere nella misura in cui mantieni aperto un margine di senso in cui l’inconciliabile si sente, in cui il lettore non può mai dire: ho capito tutto. Se ha capito tutto, significa che hai parlato la lingua dell'omologazione.Inoltre, la poesia è un pensiero emotivo che riordina l’esistente, spiazzando inevitabilmente l’altro (il lettore): solo così quest’ultimo potrà incontrare il mondo con la consapevolezza oggi necessaria per essere un po' più liberi. E imparerà a chiedere: perché? Un popolo non è passivo proprio se pone domande, se s’interroga sul senso. La poesia deve fare questo, anche questo, a mio avviso. Quando scrivi che il tuo lettore “potrebbe essere qualcuno a cui passare qualcosa di ciò che, nel piccolo della mia storia, vado accumulando e che egli possa trasformarlo in conoscenza; una persona che è alla ricerca di stimoli, e che riesce a restituirne, perché è disposto a cambiare sé e, di conseguenza, il reale.”, quando scrivi questo, mi pare tu sia d’accordo con me.
Quanto aggiungi in seguito è altrettanto sacrosanto: in verità, non scriviamo soltanto a un pubblico, ma siamo scritti dal linguaggio, che ha una radice forte nell’inconscio. È un processo circolare, nel quale non siamo mai al centro. Al centro c’è il linguaggio: la retorica del potere e del poetare, ma anche il desiderio che abita l’inconscio che ti dice: esci di qua.E tuttavia: siamo sicuri che l’inconscio sia l’autentico di contro alla superficie? Riprendendo Jasper: sul serio ciò che dura è più autentico del temporaneo? A sentire la fisica quantistica non si direbbe. La filosofia stessa, a partire da Schopenhauer, parla di volontà cieca, di assenza di fondamento (in Heidegger questo è decisivo); sotto questo aspetto, l’autenticità non fonda nulla di più dell’inautenticità: sono entrambi luoghi su cui qualcosa poggia, luoghi che poggiano sul nulla. Ti dico questo perché mi scrivi che cerchi l’autenticità. Giusto, ma attento a non farne un altare per il quale tutti gli altri hanno torto. Attento a non farne una religione.
La filosofia e la scienza contemporanee insegnano a vivere in un mondo che ha perduto gli dei, e ci suggerisce di vivere questo lutto senza nostalgia per il tempo in cui, in nome di Dio, si condannava la gente al rogo o ai campi di sterminio. Dio è morto ci dice che niente è più capace di essere universale e necessario. Ma tutto questo già lo sai perché mi parli di postmoderno: un pensiero dove il ragionevole vince sul razionale, il dialogico sulla verità oggettiva.La poesia deve tenere conto di tutto ciò.