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Lettere dal fronte 3

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Caro R, a proposito dello scrivere di getto (che si collega con il discorso precedente): se inteso con il sacro fuoco dell’ispirazione (dici bene, il Romanticismo lo pratica, ma anche il Surrealismo e la Beat generation), presuppone l’idea che noi, nel profondo, siamo autentici. Adorno, in “Minima moralia”, e tutto Faucault ci fanno invece capire quanto anche il profondo sia contaminato dal potere. L’inconscio è il regno dell’aggressività (vedi Fromm: “Anatomia della distruttività umana”) che noi pieghiamo all’ordine civile già nel momento in cui lo trasformiamo in discorso (la grammatica è infatti la rappresentazione simbolica delle gerarchie del potere, con il Soggetto al centro e tutto l’apparato logico che gli fa da sostegno, per l’affermazione dei suoi bisogni).

Seguire i suoni prima che il senso è una libertà apparente: anche la gerarchia dei suoni, l’idea di eufonia e cacofonia sono un risultato sociali, acquisito con l’educazione. Bisogna fare i conti con questo. Pensa alla società romantica e all’eroismo della sua musica; e pensa ai grappoli sonori di Debussy e quanto hanno a che fare con la crisi dei valori nel tardo ottocento. E pensa ancora quanto la musica colta contemporanea, con i suoi rumori insopportabili riesca, meglio di qualsiasi chitarra distorta, a rappresentare la violenza in cui siamo immersi. Voglio dire: i suoni si devono scegliere (anche se, come già detto, in parte ci scelgono) tenendo conto che anch’essi veicolano valori.

Per quanto mi riguarda: sto sperimentando con un musicista di liscio (musica popolare, dunque) la mia poesia, che non è affatto popolare. Ultimamente, leggo in pubblico con lui. Lui deforma quella tradizione, ma anche la conferma perché il nostro orecchio è allenato, la conosce. Così come conosce (ma sente deformato) il messaggio che respira nei miei versi.

Vorrei ora affrontare la questione opposta, ossia scrivere secondo uno stile preordinato, indifferente alle difficoltà che il pubblico potrà incontrare, come rilevo nel testo che mi hai inviato. Quello che io sento, leggendolo, è un procedere spigoloso che disegna una paesaggio mentale in cui fatico a entrare. Tutto mi sembra astratto, anche se usi parole concrete. Forse è la scelta sintattica, mossa dal processo analogico – quindi dominato da ragioni inconsce che, sempre per ragioni inconsce, non hanno il coraggio di togliere il velo, di mostrarsi nella loro nudità (per contrasto – ma solo per intenderci perché il tuo stile e la tua visione del mondo sono differenti –  vedi l'operazione di Donaera, in Blanc, che usa una lingua senza qualità e però ti entra subito. Mi pare che tu stesso lo confermi nel commento che hai lasciato).

Se penso a un racconto (e questo tuo libro potrebbe esserlo, data la divisione in 20 capitoli) cerco sfondo e primo piano, personaggi, ambienti interni e esterni, dialoghi. Invece sento una voce tendenzialmente monolitica, difficile non perché comunichi concetti difficili, ma per le proprie scelte stilistiche; ti chiedo perché precludere la comunicazione con il lettore soltanto per coerenza formale? Anche a me capita talvolta di sentirmi legato a una scelta stilistica: quando succede, la forza espressiva e conoscitiva si piegano a esigenze esteriori, con la conseguenza di avere una poesia formalmente valida ma senza quell'aria in mezzo che consente al lettore di attraversarla.
Questo è un punto importante: un testo deve essere poroso, deve consentire al lettore di attraversarlo, di farne esperienza. Se è troppo compresso, ci scivola sopra e lo perde.

Per dagli maggiore porosità potresti usare differenti registri (l'inserimento del nome degli asteroidi è un esempio di cambio registro, ma è criptico, ha bisogno di note esplicative improponibili in un contesto già di per sé ostico). Ti consiglio di leggere La ragazza Carladi Pagliarani e il poemetto Un posto di vacanza di Sereni (è in Stella variabile).

Mi è difficile dirti ora che dovresti riscrivere il tutto facendo tesoro delle soluzioni adottate da Pagliarani e Sereni. Capisco benissimo l'inanità della proposta. Inoltre potrebbero esserci altre soluzioni, che trovi tu, con la tua creatività. In ogni caso, prima di prendere qualsiasi decisione (anche di lasciare il poema così come l'hai scritto), prova a leggere i due autori che ti indico (li leggi in meno di un'ora ciascuno). Poi ne riparliamo.

In sintesi, ti consiglio più mobilità nella struttura (uso di differenti registri ecc), una voce più libera di dire, meno preoccupata di far poesia (sempre però stando attento che ogni riga-verso sia necessaria, ma non per forza tirata allo stremo:  anche il banale può trovare posto (cfr Pagliarani che copia passi dal manuale di dattilografia)

Approfondisco quanto detto finora, riprendendo un mio passaggio che tu stesso hai sottolineato: Tutto questo, come può diventare “popolare”? Io dico che lo può essere nella misura in cui mantieni aperto un margine di senso in cui l’inconciliabile si senta, in cui il lettore non possa mai dire: ho capito tutto. Se ha capito tutto, significa che hai parlato la lingua 
dell'omologazione.

Un conto tuttavia è tenere aperto "un margine di senso in cui l’inconciliabile si senta", un altro fare dell'inconciliabile gran parte del versante del cammino. La "porosità" di cui parlo sopra è appunto quanto permette al lettore di incontrare l'inconciliabile senza sentirsi un escluso. Per fare questo, occorre che il lettore percepisca la relazione fra testo e contesto e ciò lo ottieni anche cambiando registro e inserendo una profondità che, appunto, eviti il tutto frontale che, mi pare, caratterizza il tuo testo. Ora insomma si tratta di trasformare la teoria nella pratica. È la cosa più difficile, perché coinvolge anche il tuo rapporto emotivo con la parola, con la frase, con il suono e il ritmo oltre che con il lettore. Credo anzi che a quest'ultimo livello dovresti lavorare. Non tanto nell'individuare un destinatario (lo hai già fatto) quanto nel riuscire ad essere più libero di dire, più aperto e fiducioso verso il lettore.

La neoavanguardia inscena il frammento, l'anatomia del corpo sociale malato. Credo che, oggi, sia giunta l'ora di ricomporre le fratture, ma senza fingere, là dove ci sono.

Al di là della diatriba se la canzone sia poesia (io direi che è poesia popolare, dunque più carica di emotività che di conoscenza), la questione prima, ora, è capire perché non riesci ad arrivare al tuo pubblico. O meglio, lavorare sul come arrivarci: limando l'ostico dal verso, togliendogli il rumore senza banalizzarlo, affinché diventi viatico di conoscenza e bellezza (di una bellezza in cui, come direbbe Baudelaire, l’orrore si specchia senza ritrarsi. In parte un passo l'abbiamo fatto a leggere quanto dici riguardo "Un posto di vacanza".

La strofa di Sereni che citi è concettuosa, eppure ti piace; non lirica (e questo potrebbe essere un pregio, per la tua sensibilità). E soprattutto ti ha fatto capire che la poesia si legge con un tempo differente dalla prosa. Ma questo non è detto che il lettore lo sappia. Però il poeta deve saperlo. Deve sapere che leggere (a mente) poesia significa costruire un andamento circolare, ondeggiante, dove l'occhio e il pensiero avanzano e indietreggiano, ma anche salgono e scendono di riga. Scrivere con questa idea può portarti a una nuova consapevolezza. Anziché andare avanti come un bisonte, ti puoi muovere come una farfalla che indossa però scarpe da montagna: non bisogna nemmeno svolazzare troppo. Il ritmo giusto, dicevano i poeti beat, è dato dal respiro. Questo vale rispetto alla poetica. Riguardo al movimento reale che Un posto di vacanza produce, dici bene qui: "dalla dinamica dello sguardo, ora attratto in senso longitudinale, di fronte alla riva, ora dal muovere trasversale, del fiume che va; dallo stare con la mente sul fiume per poi andare al mare, la foce-limite".

Nei poemetti, in generale, è meglio essere inclusivi perché il dettaglio, apparentemente fuori fuoco, può creare tensione o distensione sia nel canto che nell'interesse del lettore. E può essere evocativo oppure emergere per contrasto con la linea dominante. Che tuttavia deve esserci: usando solo il movimento di camera e il primo piano, il testo diventa monotono; si deve sentire che hai un tema per le mani (la città depredata, nel tuo caso), ma la terza dimensione la crei uscendo dall'urgenza, e costruendo uno spazio abitabile, imponendo tu il ritmo della lettura, con gli a-capo e i differenti registri, con parole dolci o aspre, lunghe o corte. Buon lavoro!




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