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Fabrizio Bregoli legge Elena Cattaneo

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Il progetto poetico di Elena Cattaneo ne Il dolore un verso dopo (Puntoacapo Editrice – Collezione Letteraria, 2016) è ambizioso fin dal titolo dell’opera, perché è ben noto che in poesia scomodare gli assoluti come nel caso di “dolore” può risultare pericoloso, può portare ad un’asettica astrazione, eppure è proprio quel riferimento a “un verso dopo” che credo dia una maggiore chiave interpretativa, quasi a voler testimoniare la volontà di un superamento, di una via di fuga dal dolore che trova senz’altro nella scrittura un appiglio, per quanto precario. Quel dolore che è tuttavia pervasivo, latente in ogni gesto o azione, che sa operare a “tempo indeterminato”, come il perfetto impiegato di una fabbrica della follia, della consunzione,e assume di volta in volta nel lavoro poetico sembianze o simbologie diverse come quella del “diavolo” o della “melagrana sfatta” o di“brutti muri d’intonaco” portando sempre alla inevitabile conclusione, perentoria: “Più capisco e più ho paura”. È quasi superfluo dire che una poesia di questa natura non può se non prendere le mosse da forti, incisive esperienze di vissuto – e crediamo di non sbagliare nell’assumerlo come un dato di fatto - ma l’autrice riesce con accortezza (o forse per necessario pudore) a non esplicitarle e quindi evita di cadere in un autobiografismo che rischierebbe di trasformare la sua poesia in atto auto-consolatorio o solipsistico. Anzi è grazie al dono del transfert, alla virata percettiva quasi fino al simbolismo onirico che questa esperienza esistenziale – vera e dura al contempo – e con lei il cammino personale dell’autrice diventano – credibilmente – viatico dalla valenza universale ed hanno quindi quella necessità espressiva e contenutistica che la poesia pretende (come fa ben notare Ivan Fedeli nella illuminante postfazione).

La prima sezione dell’opera emblematicamente intitolata “Canti dell’insonnia” ci pare pervasa da un intreccio sotterraneo, da una costruzione quasi di tipo drammatico, senza che la trama sia mai dichiarata, sembra anzi procedere per frammenti di un poema non scritto: in un testo si dice infatti “e nessun attore sa, veramente, / cosa deve fare”. I vari testi hanno continui rimandi fra di loro, a tratti una sentenziosità che sembra al contempo interrogativa ed interlocutoria, lascia aperta la strada della soggettivazione per il lettore. Si vedano versi emblematici come “Nel tempo percepiamo un fuscello di noi. // Basta quello.”, “Domani lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.” efficacemente ripetuto nel testo quasi a voler sottolineare la categoricità del pensiero, ma di converso anche una meccanicità che non dà via di scampo, e ancora “La circolarità perfetta non ha / bisogno di noi”. Un’umanità quindi che assiste come comparsa ad un dramma al di fuori della sua portata o nel ruolo di esclusa, che cerca di contrastare con armi spuntate l’accadere del mondo, alla ricerca di una possibile linea di galleggiamento, “il puntino stella” (e si noti la pregnanza di questo diminutivo che dice tutto) o un “dio” (non a caso scritto in minuscolo, con sapiente allusività) che altrove “Diventa subito un ghigno. // Mi è consono”. Ghigno come ineluttabile storpiatura di un ipotetico sorriso, di una felicità possibile. La verità è altra: “Nella morte la vita si nutre.” o ancora“si passa dai santi ai morti” – e si badi bene, non viceversa. Tutto procede per annichilimenti progressivi dell’essere, cancellazioni e liquefazioni dei tratti distintivi della persona (“la bocca cancellata”, “gli occhi bassi”), esperienze di dissoluzione (evidenti i riferimenti alla lezione di Eliot, alla morte per acqua o per fuoco, come in “Come un bambino che annega in silenzio, sott’acqua”: chiusa splendida e terribile). Un agone arduo in cui l’uomo si deve confrontare a denti stretti con la propria “imperfezione”, senza moneta di scambio durevole che la risolva, nella prospettiva unica e certa “Che la salita è lunga.”

La sezione "Sintesi I" amplifica questa poesia come drammatizzazione dell’essere: si vedano ad esempio “Jesi e le marionette”con i “corpi di legno farsi vivi” e ancora altrove“giullare scomposto”, “testa di pezza”, “Dalla volta / oscura / del teatro”. Le poesie “Il nemico”, “L’orafo” e “Stabat Mater dolorosa” – quasi una sacra rappresentazione in miniatura - sembrano procedere per dramaticae personae, sempre nel solco della lezione eliotiana arricchita dalla cifra personale dell’autrice. Anche la parola, strumento della poesia, può in questo mondo stravolto divenire inganno: si veda la splendida “Le parole” dove ogni verso è realmente necessario, il linguaggio scarnificato ed amplificato di senso. Memorabile la chiusa: “Le parole sono trappole / e ci si lascia / ammansire /per non uccidere / troppi predatori.”, con questo verbo impersonale che unisce all’altro, esclude di nuovo la poesia come consolazione, io che dunque si fa altro da sé. E tuttavia, nonostante la icasticità della chiusura della sezione, il titolo Sintesi I lascia intendere che sia prevista una seconda parte, ma non presente in questo libro, un deliberato omissis: questo elemento conferma ulteriormente la volontà di una poesia in fieri, genera quel senso di attesa funzionale a una poesia per frammenti, che come si diceva sopra è a nostro giudizio elemento caratterizzante di questa autrice.

La sezione "Piccolo Quaderno" comprende testi abbastanza eterogenei, molti dei quali probabilmente anteriori rispetto alla parte iniziale del testo. A poesie che traggono spunto da occasioni di viaggio in cui l’autrice dimostra anche la capacità del lampo impressionistico e dell’interiorizzazione del paesaggio, si aggiungono altri testi in cui si sviluppa ulteriormente l’altro leit-motiv dell’opera, ossia il tema della maternità. Soggetto che compare fin dall’avvio (“La mamma piange la notte”è il primo verso del libro) quello della maternità, come anello di giunzione fra non-essere ed essere, womb-tomb di dylaniana memoria, dono di vita che racchiude in sé il grumo della morte, maternità come strumento non-salvifico di conoscenza (si veda “grembo / lacerato” con caustico enjambement). Nascita anche come nominazione dell’essere, che si dà dunque nome ma pur sempre conscio della sua ambiguità, dell’incapacità di svelare il senso delle cose (si vedano “Genesi” e la efficace chiusa di “Io” dove il nome diventa quasi retaggio mitico, laccio inesplicabile: “Elena degli enigmi, / Elena dei sussurri, / Ileni persa in un vento di sogno.”). Tema questo che meriterebbe un’analisi a sé, più ampia che non è qui possibile condurre – data la complessità delle raffinate citazioni eliotiane. Merita rimandare il lettore all’approfondimento di testi come “Spingo forte” in cui la maternità sembra poter vincere il giogo di dolore, farne “pane nuovo” da un “cranietto di bimbina prematura” (dettaglio espressionistico che s’imprime nel lettore), o “Il Gioco” con il riuscito effetto dialogico a sorpresa, solo ingannevolmente condotto con un linguaggio per così dire ingenuo o quasi infantile, o “E adesso” dove ricompare il tema del nome come sbaglio / equivoco e merita ricordare la bella similitudine che dà colore al testo (“come una brutta mongolfiera / piena di vanità infiammabili.”). Magistrale l’incipit di “1998”, il verso “Agosto chimico.” inquietamente puro nella sua asintatticità.

Il libro si chiude con la riuscita poesia “Attraversamenti” (coincidente con il titolo della sezione) concentrato di potenza espressiva e linguaggio erosivo, detonante. A conferma della dedica iniziale (A Penelope, Molly e tutte le altre– e in questo “tutte le altre” sta il vero ganglio del messaggio) l’io poetico si astrae ad emblema del femminino come grumo di dolore e nucleo irrisolto, “Vecchia nave / allo sfasciacarrozze”, ripetizione incessante di un perpetrarsi d’errore ed inganno, di un’umanità relegata aun “altrove utile al collezionista”. L’esistenza – crediamo di poter dire - si sostanzia dunque nell’attesa, nell’ambire ad un ritorno che sia scoperta di sé, “ritrovata unità” e consenta il valico a quel “verso dopo”, l’attraversamento appunto. Sembra quasi volerci dire Elena Cattaneo, alla maniera del suo amato Eliot, che solo da un cumulo di macerie si può cercare di puntellare una ragione di vita, appunto da una “serenità trasfigurata. / E intanto una molly aspetta.” 


Da Elena Cattaneo, Il dolore un verso dopo, Puntoacapo Editrice – Collezione Letteraria, 2016


*
La mamma piange la notte,
stanca vaga tra
la strada sporca
che non rimanda
un sogno
ma solo la vita cruda.
Vede, così le pare,
una melagrana sfatta
di biglie rosse che fuggono tra i tombini
o si lasciano schiacciare
dalla velocità.
La mamma prega la notte,
oppressa da un amore ammalato,
così alto e rarefatto
da togliere all’amore pensieri che possano
zavorrare la mente.
La mamma piange la notte,
a orbite roteanti.
Cerca un puntino luminoso
nel suo cielo, il puntino-stella.
Come canta la mamma che piange la notte,
vuole conforto,
vuole che la dolce vita che le dorme accanto non finisca mai
Rispondile dio, falle sentire delle voci
e illudila che sia il tuo sibilo quel suono
che la tormenta.


*
Ogni sera parlo con il diavolo, quando stacca dal lavoro.
È stanco e sfatto, non ha un giorno di tregua.
Con me si rilassa, non deve recitare la parte.
Rotea gli occhi, si schiarisce la voce, ritira gli artigli
 e si liscia le corna.
A notte inoltrata, a volte, trovo mi assomigli.
Gli chiedo di stare un po’ al mio posto, gli porgo la chiave
 ma lui si rifiuta.
È furbo e scaltro.
Sa che rimestare il dolore e servirlo per cena è meno faticoso
 che farsi sfondare il cuore
dall’amore che sarà.
Col male ci campa a tempo indeterminato.
Aspetta che una lacrima scenda, mi accarezza soddisfatto
e in un soffio mi lascia chiusa in paradiso.
Ma prima o poi io scappo…


*
In fila la macchina
si avvicina, si schiaccia, bramosa
di arrivare.
Si arruffa e annusa chi la precede
con fretta, ha fame.
Un pezzo di asfalto, lo pneumatico caldo,
un metro, un metro, uno soltanto.
Defilata la macchina,
ha trovato un sentiero,
furba lo percorre,
certa dell’arrivo.
Illusa, baldanzosa e rapida,
scende e risale, ha fame, ha fame,
ha fame.
Si aggrotta il cofano, si avvilisce il faro,
la fila l’aspetta, calda e compatta.
Mesta s’infila, lasciandosi portare,
la meta è lontana, la fame dovrà aspettare.
Domani lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.

Domani lo stesso, e ancora, e poi di nuovo.

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