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Maurizio Casagrande su Rosa Salvia

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Sarebbe difficile aggiungere qualcosa alle acute osservazioni formulate da Pasquale Di Palmo nella prefazione alla recente raccolta poetica di Rosa Salvia, Il giardino dell’attesa (Samuele Editore, 2017).
Trovo, qua e là (e soprattutto nella penultima sezione), una tensione volta all’allungamento del verso anche all’interno della forma sonetto, ma non per arrivare alla prosa. Poi la predilizione per un discorso condotto alla terza persona col risultato di isolare l’oggetto così da precisarlo meglio.
E alcuni testi che magari mi colpiscono più di altri, come la quartina di pag, 38, la lirica sul muro d’osso di pag. 14 (che a me richiama alla mente Montale, ma anche qualche surrealista francese), la lirica di pag.23 che mi fa pensare a certo Carducci (quello meno roboante e più raccolto), Era d’autunno, la lirica a pag. 61 che ha immagini potenti e una forza che sembra venire dalla terra stessa, come in certe novelle di Verga, ma con qualcosa – nel titolo – di Verlaine, Eluard e di chansonnier d’oltralpe alla Brassens. E ancora l’apertura ai luoghi senza storia di un epos quotidiano (il paese, le montagne, i corsi d’acqua), ma remoto nel tempo come nello spazio e quindi sempre attuale, la conseguente attenzione alle persone più semplici, agli animali (l’asino, la civetta, la cagnolina Tai, il chihuahua, le rondini), o agli invertebrati (le meduse) e agli insetti (le formiche), quasi a confezionare un piccolo bestiario dal forte valore simbolico, sulla scorta anche di Leopardi, che in un giardino sapeva condensare l’intero universo. E in tali scelte io credo che abbia avuto il suo peso la lezione di Saba e forse, ma questo non posso dirlo con certezza, dell’ultimo Cappello con la sua poetica degli umili e delle parole povere (nel testo di pag.43, ad esempio). Infine il testo a pag. 78 mi fa pensare a una certa consonanza con rare poesie conosciute in Italia di Halina Poswiatowska.   


da Rosa SalviaIl giardino dell’attesa (Samuele Editore, 2017).


Accanto al muro d’osso
Devi startene
fermo come un asceta
               in preghiera  
accanto al muro d’osso
                ascoltando
come il Cristo Bambino
                 il lamento
dei fratelli martoriati

con la fronte oscurata dal buio
che imprigiona il giorno

fino a che la rugiada
goccia a goccia carezzi
la ferita del giardino
e un nuovo polline v’imprima a fuoco
il suo nome

e il muro
senza la lùbrica violenza
vibri nudo nel vento
per la materia del dire oltre l’inganno
entro l’obliquo raggio della stella.


*

Vi era un respiro nelle chiome del melo
sì che le foglie si piegavano, vibravano,
al vento d’autunno che comprimeva i rami
e – più leggera – fluttuava la balaustra
del giardino –

tu eri vissuto bambino vicino a questo cadere,
singhiozzare, cadere,
mentre dal monte Lifoi scendevano i lupi
in cima al paese e abbandonati se ne stavano
i luoghi –
sentivi mungere il latte nelle stalle
e tonfi di legna come un battere d’onde
sul traghetto notturno.

Così se ne andavano i giorni:
lento bisbiglio d’alba e soffrire.


*

S’affonda in silenzio
il colore dei fiori
mentre guardi
oziosamente passare
il fumo di una ciminiera.


*


Era d’autunno
Sudava il cielo
come la fronte dell’uomo ferito
da venti coltellate
in quella disperata campagna
corrosa dalle faide
su cui solo il vento passava
e un asino.
Un asino che saliva per la via petrosa
del monte Lifoi
e d’improvviso
cominciò a ragliare, ragliare,
con una voce umana –

Pareva che le case gli alberi
                                  le formiche
tutti insieme si sfogassero
in quel pianto straziato.

Allora cominciò a piovere piano
sui tuoi boccoli neri di bambina.


*

Li vedesti tutti.
Sedevano con i loro abiti scuri
sulle sedie a raggiera
attorno al feretro.

C’era Bianca, Tarulli, Tituccio il ferroviere,
Fifì, Salvatore il farmacista, Vitantonio.
C’erano altri vicini di casa…
I nomi li ha con sé il vento.
Parlottavano fra loro in sordina
o tacevano con l’aria compunta –

Pareva che dormisse satollo
come non lo era da anni
tuo padre.

Tituccio s’alzò di scatto;
incerto ti fissò a lungo.
Gli tremava, debole, la bocca
un poco, poi tentennò il capo.
“Con quale treno sei venuta da Roma, Rosa?”


*


Sempre quando desideri vivere
canti

se la vita si allontana da te
ti aggrappi a lei
come una rondinella inzaccherata

le dici: “vita
non te ne andare ancora”

mormori
vita
come se la vita fosse un amante
che se ne vuole andare –

ti aggrappi al suo collo
canti
De Andrè Gaber Battiato Conte
Nico Lennon Dylan Joan Baez
Dalla De Gregori Fossati Guccini
                              Daniele
Queen Stones Doors PinK Floyd
                               Piaf

canti
           canti
                      canti

e al nero contrapponi
il verde respiro del giardino
che fa salire libere le rondini

prendi fra le mani il sole
lo guardi da vicino
non te ne separi
nemmeno di notte
nemmeno nel sonno

finché la vita torna.



Nata a Picerno (PZ) Rosa Salvia vive a Roma dal 1986. Ha esordito con il romanzo breve La parabola di Elsa (Osanna Edizioni 1991). Tra le sue successive pubblicazioni in versi: Intermittenze(Aletti Editore 2003), Luce e polvere(Aletti Editore 2005), Le parole del mare(LietoColle 2007, Premio Internazionale di Poesia e Narrativa “Cinque terre – Siro Guerrieri” 2008; Premio Nazionale di Arti letterarie, Torino 2008), Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria(La Vita Felice 2012, finalista Premio di Poesia Internazionale Alda Merini – Brunate 2017), Dolore dei Sassi(puntoacapo 2015) che ha meritato diversi riconoscimenti letterari fra cui la menzione speciale al Premio Letterario Lorenzo Montano 2016. Testi editi o inediti sono stati pubblicati in diverse antologie.
Per la critica letteraria, il saggio narrativo Frammenti di un discorso poeticoè stato segnalato, per la sezione prosa inedita, al Premio Lorenzo Montano 2015. La presente raccolta, quand’era ancora inedita, è stata premiata con menzione di merito al Premio di Poesia Scriveredonna 2013 e, sempre con menzione di merito, al Premio Lorenzo Montano 2015.



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