La scrittura di Augusto Blotto procede per sequenze impietose di materiale linguistico in cui il mondo viene scomposto e riconsegnato al suo disordine. Con la convinzione che la scrittura non partecipi della fluidità dei corpi nell'aria, ma semmai viva in una conserva semisolida, dove anche l'occhio fatica a procedere. Verso dove? Nella dimensione dell'interstizio, linguistico e ontico, e comunque in circolo spiralidoso. Più che il principio del piacere, in questi picchi e rimasugli, domina il complesso dell'artificiere, la convinzione che nessuno meriti d'attraversare il ponte che collega il segno al referente. Blotto fa saltare la convenzione, secondo la quale il mondo sia rappresentabile. Lui ci mostra il rovescio, la cucitura, indicandocela come più vera. L'irrapresentabile, ci dice, è la costola del corpo in cui inabitiamo, lo scabroso che ci procura l'inquieto sostare, l'andare spaesato. Certo non del buon selvaggio né del travet: Blotto parla la lingua dei libri, dei folli per troppa lucidità, di chi usa il cannocchiale rovesciato per principio. con spirito colto, ovviamente. Che poi non si dica che la poesia non è dirompente: poesia come anarchia e pratica lessicografica ad uso dei sabotatori, alla faccia dei poeti col cravattino, piagnucolosi e/o servi della lingua del potere. La critica militante lo sostiene, il mondo lo ignora, come dev'essere quando il poeta riscrive non le trame dell'esperienza filtrare dal principio di non contraddizione, bensì i modi in cui il simbolico si muove sottotraccia, e non ha altro essere a porgergli l'orecchio, se non il rumore miasmatico dei fonemi e gli scricchiolii del senso quando questo diventa rizomatico.
Giunture inerti della collinosa
terra, vertebrata in deserti, o toraci
quadri, con punzoni all’insù, sistono
ad aspettare, in formicolo d’aria, accadere
fermo nella consapevolezza del mondo:
anche allegro, perché l’abbondante ricchezza
di atti mangerecci o peggio tra poco
(e gioisco, dietro scatto d’elastico)
(che manifesti intenzioni di catapulta)
sveglierà, infallibile freccia del noto,
le maglie dei postini (l’acido), le compere
svasate delle mogli o il campanile
presso tabaccheria, addetti a sogno della
- purulentetto in corruttela –
cultura; brioches azzurre nei casamenti
- stessa tinta dei grembiali e intonaci –
vaporanti come oblò turgidi (Sakhalin
veda gente che si appresta ad alcunché?
il mistero curioso accerterebbe,
in tentativo, nerumi, così intimi);
ferrovieri arretrar Tempo a fornelli
di locomotive, con strascico di militarizzato;
clangore porta (in cielo!) le teorie luminose
nell’avvivarsi incarnato, tra i costoni
d’autostrade udibili in confortato
continuo, cioè già da sempre o molto,
e ci confidano giusto aeroporto
ormai con le gialle chiazze di chiaro;
il fluido lungo i grattacieli asiatici
corona di principe le figure scorrenti
in faccende ignote, melogranate vistose
di risorse, anche per noi, forse, pensive:
la seria camera della contemporaneità
cala bianca su piane e trasversali
le catene, girandoci, tipo a scimmietta,
il capo nell’assicurarci che c’è
del nuovo, a cespo di smeraldo bagnato,
ben disposto, al di là degli artigli navali
sotto la cui forma si afferma, duri e franchi,
la stellina del proponimento a viaggio, seta
ancorata a lidi popolari, angoso
pasciuto frastagliare [promontori]
Gli stretti, le calcidiche
minuettan lancette di manometri
mentre l’olio se ne va calmo, premio
rimandato scivolar fra rotelle la rosa;
torti a quello che sta preparandosi
la vetrata, ghiera alma, da cui contenuti
guardiamo, non dà per sua scelta
confusa, nudinamente regale
di inadatto accertato e poco spinto
in là (tanto, basta il bel riposo, zeppa
che linearmente ci satolla di “avanti!”
Il presente che non ci sconfessa è gonfio di Saŏne
(sperando che terrazze botticellin poc’umido);
la traiettoria del prossimo corpo ne dedurrà
inconcludenza bennata, quel compagnìo
che con sponde universe guida il toccare
or sì or no dei bracci su pedana
fluminosa; il vetrettino del riporsi
tranquillo cèlla una sua cunetta, da dove
rivoluzion vera un po’ è scattata,
lo ammetto, per intervento non so,
ma certo perchè i pori siccome configurati
se ne son stati, in fermo gruppo, a influire
dicembre 2009
= = = = =
Da un viadotto si scopre un orticello
Prima
di sera arriveremo, dopo migri
d’acquitrini, a un blu d’occluso
fortificato, una magra, sclerotica
camera quasi zeppa d’avventura
I nascondigli che il tragitto ha via via
nel rivelare scorto, poggiano su acqua
del volerci dormire vicino: almeno
per una volta, confortare la corsa
in un futuro tutto ridentii
d’industrie, da cui scappellino gilé
(non disgiunti da erba in filo all’angolo
della bocca, siepi in notturnare danze-
-reccio con luminosità che non finisce)
e tèntino di non lasciarci andar via
La voglia di raccontare straripi-epopee
sui casi degli abitanti intravisti
mulina in giravolte carta d’aria
mentre non dobbiamo difenderci da nessuno:
il piede rapido è infatti trasportato
sì come un’elegia longanime non
lo lasci farci festa con alcuno
dei posti in cui, canuto, pur potrebbe
stendere o tessere il drappetto del risiedervi
Tale tipo di protezione notturna
effervesce per tutta la giornata
inveduta da propositi pignoli
e febbrili: recanti, se non oggi,
in un sicuro non trattenere il presente
dalla sua stasi, beatamente quasi
cieca, fibrata di dote energia
gennaio 2010
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Nell’alto mondo, e le cose non finiscono.
Nulla è da piangere e un commento al ricco
che si trova nella felice casa o campi mi butta di là,
dove s’apre la radura dello star bene e i suoi piedi
sono robusti, essa è bella e intelligente,
comportamenti non sono sminuzzati più del dovere,
io stesso sopravviverò, comunque non pretendevo
L’aria da mongolfiera di sapersi disposti
a un malleato tacere come il bruno rivierasca
un origano in giri, di notte, l’affronto
solennotto a uno stiracchiarsi di morte: un ritorno
le cose di me pasce d’un aver segni
del diniego quasi finti tanto zitti,
simili a un cartaceo di lingua il farsi spostare
è dolce della mezza brunatura, e non saper proprio
come tocchi, di lato, un qualcosa d’uno
fra gli attorni, a partire da domani
oppure questa sera medesima fa ingresso
Quasi un appello a amici di niente o vento
o dita che si pìcchino, far capire; e non so
se era l’ora,
un nutrito assai caro e bello,
elencante poderosità, è l’altra persona
georgicamente disponente, e viva di studiar luce:
grandi cose sono toccate a chi fu normale
nel rigeneratore, base di famiglia giovane,
e bisogno accompiuto fu questo nei grandi animi:
fra tale senato io sarò, potrei meritarlo,
meritare è un presente che pensa su di sé lo scopo,
l’accingersi a un giovane intellettuale e accettabile
di illuminata vigorosità non tralascia il suo caro
ricco e uno si fidanza con fisitura?
Quando gli anni lasciano che le cose vadano
il modo che avrò di parlare dà un consueto molto serio;
quando si pensa a un avvenire prossimo e quasi ricevente
la formatura di me riordina calmo come morire,
e non è troppo, un solido vento di commiati a sbuffo sorpasso moro.
Cravanzana
marzo 1967
= = = = =
La terrosità, la luce che intercide
- tamerici e dossi cedui - abbassa
i pensari al fimo sui marciapiedi,
leggero in pagliuzze, quando le città
glàucano e nèurano la frettolosità,
quando cioè ogni via appare invasa
da aspetto solo da donne delle pulizie
e autobus barrirebbero (aeroporto
è il finale, scarpate erose, di questa strada
slargantes’anatra al celestino?);
eccomi (gnòmico),
son gli stessi ritaglini su polvere
di ghiaie che sforbician le feste
finienti con campane rosa
a cinerare bandiere, bambini
- e le precoci mamme paion frastagliate
di mordicchio, tanto disavvivate -
usanti il commiato: la presenza
d’ugne (un po’ molli, dunque) di terriccio
quasi la povertà estendesse, plaghe,
pallor di ritardato su voi – grappa
formicolante particellata o crespo
argenteo da specchio – montoni
- di altimetria maculo, costola -
glabri di vetrate acceca, corno
duro di ciò che si clama altopiano o necessi-
-tate tedia in sferruzzi mini chi detta
L’incapacità di volere di aver voglia
sbocca e rompe i tubicini bombé
che vegetano in un liquido da ciglia
piegandosi a ditone: è circostante
negare d’aver mai vissuto, pinza
su martingala esponendoci putti,
conigli ritti in fila, maninati,
a uno sciabordo più che sporchetto indeciso,
l’aria al cui ignoto siamo indaffarati
Si tratta d’insipido e Spagna, città
di cui l’alba tardante arrondisce
bordi acquei e l’odor di cavallo
supino a gronde di marciapiedi occlude
sapor di non tirarci via di qui
nemmeno depositando oncia, bisaccia;
è anche di prosciutto, il bigio del clima
pesante, le inesplicabili in mestieri
o sorti dimore cui si accede
con porte da non-approvo e latro di androni
(l’evanescenza delle marche in cibarie
e vesti, più che l’orror-ributto è, grince,
il fischio puleggia tesa della poca disponibilità
di mezzi – risipolate in nero
perfin più nari e visi che ascelle -)
Brùmano di difficoltà economiche
i grandi quadrangoli della calura
- quasi la noia mortale di visite a Regge -
cassonanti le mesetas (bastioni
di terra erta da accompagnar a abbevero
belve di giallo-nero, o retiforme
l’acqua fra arena giganteschi alberi
fatti a gonnella di dama assèta
di staglio da pericoloso sforarle (uscirne), cerchio)
Se esci in blocco di vie che non capirne
i cespiti e gli ambiti è un azzurro
stiacciato di mulo (con le farfalline
che vi àlitan gialle), il fetidume lieve
è sempre che si fa giorno, sarti
o altre occupazioni calpestano
le cartine sul sollucido, sbrecciate
quasi semi sian stati sputati
di lato (e il comptoir nero bottiglia
torchia lubrifico)
L’asciutto esalo
di pneumatici tondi o formaggi
rotolati, avviso di città
spenta in sesso (di tregua disarmata
ma pronta) naviga flesso col fiuto,
che è la dote frequentata e utile
per non soggiacere troppo
I parchi pubblici
limitano la speranza, tagliandola;
più quando son percorribili di vasto,
accidentati di non tanti metri,
muniti di asfalto su cui con sollievo
si esce dalla crusca di sterrati
magari anche elicoidali, o con isole,
stretti, lagune: il non meglio
respirato della sottile lamina
(calcare, lingua bianca)
Tacchi, slaccio
delle mediocri marsuine che legiònano
chissà perché autoritarie d’affanno
a pulir sedi o condomini o madri
di famiglia a badarsi segretarie
- smodato e madornale, pettorale, occhiale,
penso al sudicio che non ha età,
cuticagna fornente renseignements -,
oh, buttate, in non accorgentesi innocua
dispensa, qui da noi quel solito piccolo
risparmio (così rastrella margine
il cordino dell’onda flutto): una tela
di bianca gonna né troppo sporca né corta,
un rampicar desistente ad ascelle,
un corvino irritato muglio; il poco,
e strano, comunque non sentenza
pretendendo da noi al balzo della risposta
Basta non porsi mete; il tòsco del sonno,
lana massaggio pregna di giornata,
sussulta uno per uno, ma nel bell’
insieme, i tappi delle reti che,
schietti e fidi, non sapevamo d’aver gettate
Madrid
agosto 2010
Augusto Blottoè nato a Torino il 12 marzo 1933. Ha scritto 58 libri, non tutti editi. Quasi 20.000 pagine.