La poesia di Francesco Terzagoè attraversata da un'inquietudine che ha nel sentimento del naufragio imminente la sua cifra esistenziale. Tutto è destinato a scomparire: questa verità originaria tormenta l'anima bella del giovane poeta che vorrebbe resistere, scansare il destino che accomuna i mortali, pur consapevole dell'impossibilità di tale impresa. La sua poesia mette in forma questa angoscia, risolvendola in frasi dal forte impatto comunicativo, a bassa tensione espressionista, frasi dal ritmo scandito dagli enjambement e altrimenti piane, per meglio raggiungere il destinatario. Al quale si chiede di partecipare emotivamente, di riconoscere una biografia esemplare, in verità senza particolare accadimenti: una biografia piccolo-borghese, moderna perché in essa, noi del primo mondo, possiamo riconoscerci; una biografia la cui originalità – niente affatto trascurabile – consiste nel recente soggiorno cinese. L'0ccasione, tuttavia, non dà a Terzago la stura per digressioni storico-civili, mettendo a confronto due modelli culturali (come fa Luciano Troisio, per esempio), ma soltanto amplifica il sentimento di caducità e solitudine dell'autore. E la storia, pascolianamente, diventa forza arcana, misteriosa, che muove i destini, alla quale contrapporre i legami parentali e affettivi.
Che cosa tutto ciò abbia a che fare con la "Nuova poesia civile" il cui manifesto lo firmò lo stesso Terzago assieme a Matteo Fantuzzi, Lorenzo Mari e Guido Mattia Gallerani (cfr. Nazione Indiana 5/02/11), sinceramente non lo capisco. A meno di non intendere "civile" come un generico riferimento alla civis, a un pubblico urbano che partecipa all'emotività dell'aedo, la cui epica coincide appunto con la propria cifra biografica. Così facendo, tuttavia, egli capovolge il concetto di epica, laddove l'aedo, fra gli achei, cantava il loro destino comune, metteva in scena e giustificava non se stesso, bensì il presente del popolo vincitore. Terzago fa il contrario: canta il proprio destino e vorrebbe che il popolo-pubblico ne riconoscesse l'esemplarità, il suo valore paradigmatico. Come scrive T.W. Adorno nel Discorso su lirica e società, "La creazione lirica spera di conseguire l'universale attraverso un'individuazione senza riserve". Direi che Terzago scrive nei paraggi di questa definizione, tentando, quale cifra originale, di coniugare la narrazione con la drammaticità, la distensione del genere racconto (nella sua declinazione allegorica) con la concentrazione della cellula-frase, descrittiva anziché metaforica, al fine appunto di non disperdere l'attenzione e la comprensione dello spettatore. Che – in sintonia con il manifesto della "Nuova poesia civile" – vorrebbe non professionista, ingenuo, uso più alla prassi che alla teoria, con la scusa che la poesia italiana contemporanea, proprio perché invece ha cercato un pubblico specializzato, infine l'ha perso del tutto. Su questo argomento sarà tuttavia il caso di tornare ancora.
DaIlrumoredifondo,in'CriticaImpura'(testirivedutiecorretti).
8.
Mi dici che c'è nebbia e che fa molto freddo.
Qui è lo stesso, anche se quasi diecimila chilometri
mi separano dalle tue mani. Non vedo i condomini,
bianchi, al di là della strada. Quelli che, solitamente,
quando al mattino scrollo via il sonno dalle finestre,
mi attendono serrati nelle loro schiere. Rossi tatzebao,
dorati caratteri, porta celeste, sono cose al di là
del sipario. Così io mi convinco che su tutto
il nostro pianeta sia sceso questo manto. Che là, dove
non vediamo, stiano agendo forze indicibili.
Il mondo che, domani, ci si parerà dinnanzi, sbattuto
nel vento di cristallo, non sarà lo stesso dei giorni
che hanno preceduto questa circostanza. Sarà
un altro mondo, un mondo dove latenti saranno
le forze dell'incanto. Ogni persona recherà con sé
questa terribile verità e, per questo stesso motivo,
taceremo l'un l'altro il nostro male (il male è il tacere,
il tacere è il male). Imboccheremo una strada dopo l'altra
sino a quando, soccorsi dall'opportunità, al di là della svolta,
improvviso, sarà il mare. Aguzzo, verde, esausto,
rosso, terribile. Cammineremo sulla diga foranea
sino a raggiungere il nostro posto in prima fila.
Repentini squarci tra le nubi e luci mulineranno.
La statua della Madonna e del Cristo riemergeranno,
mute e immacolate, dal fondale dove furono deposte
da un gruppo di subacquei più di quarant'anni fa,
le onde disporranno queste due cose sulla pietra
come pezzi di sughero sbiancati. A distanza di
qualche anno da questi eventi ci saremo del tutto convinti
che uno strano sogno sia stato messo sullo schermo.
Sarà stato uno scherzo del sangue, nostro nonno (o bisnonno)
non era stato forse schizofrenico? Chiameremo questo
disturbo, nei nostri dialoghi interiori, fervida immaginazione
post- adolescenziale. Torneranno i dubbi, le incertezze,
quando, lungo una mulattiera dalle parti di Pian Nava,
incroceremo uno sconosciuto, sarà come rivedere
un vecchio cane con il quale, negli anni, ci si è guadagnati
una certa confidenza. Ci si saluterà con un reciproco
cenno della testa, dopo un istante d'esitazione.
11.
Mi sto ammalando, sto seppellendo
la mia giovinezza nella pioggia. Trascorro
giornate intere ad aspettare lettere
che non arriveranno. Mi propongo
per improponibili lavori. Ogni mattina
raccolgo dal cuscino ciocche di capelli.
Le nostre brevi conversazioni
non mi rincuorano più.
Mi dici torna, torna in Italia. Non posso
tornare perché qui c'è ancora tanto,
tanto lavoro da fare. Ti chiedo aiuto,
dici; probabilmente hai ragione,
te lo chiedo sempre, aiuto, aiuto,
aiuto –, lo fanno spesso, quelli
della mia schiatta, nell'amore
della solitudine, del rifiuto,
lo chiedono spesso ma mai
mai volendolo. Sarebbe solo il pretesto
per una sciarada, per una sarabanda di un giorno,
di una notte o due. Mi manca la tua lunarità,
il fazzoletto di zinco che ti leghi attorno al collo,
le labbra, il dolore. Questo che si è seduto al mio fianco
è uno schietto distacco, non già sofferenza,
è questo il mio male, ciò di cui soffro,
essere abbandonato da me.
12. (già su Glamour)
Siamo entrati nel nuovo
appartamento, diciannovesimo piano,
vista sui grattacieli che stanno rimpiazzando
uno degli ultimi villaggi. Pulendolo
ho avuto modo di comprendere che la polvere
ci è sgradevole sono in modo transitorio,
poiché con l'umidità di Canton presto
si raggruma, si fa terra, si fa muschio bianco,
erba nera; chissà – con la dovuta pazienza
sarà la radice, che scenderà giù, nel profondo,
tra le scapole. Non sono mai stato un buon cristiano
ma mi dico tra me e me, polvere sei, polvere
ritornerai – tu, amore, dall'altra stanza,
mi chiedi se ti stia chiamando, ti rispondo
che vita siamo, vita – siamo.
14.Epilogo
Hanno trovato una massa nella mia
gamba destra. Sono andato all'ospedale con
Leonardo, un amico biologo che conosce
bene il cinese. Dopo pochi minuti mi hanno
messo sotto alla macchina per le radiografie.
Quando ho avuto tra le mani le lastre
ho ammirato lo spettro eburneo
del mio scheletro emergere da una verde
oscurità. Era immacolato, sacro, inviolato.
Questa è la memoria delle ossa, dove vengono
impressi i marchi dei dolori barbari.
Le scalfitture della baionetta, le fenditure
dell'ascia, le esplosioni della mazza-ferrata,
la frammentazione date da una scarica di proiettili.
Devo constatare con rammarico che per quello
che potrebbe essere il mio male della mia guerra,
così silenzioso, così moderno, così piccolo-borghese,
non vi sia spazio in questo libro. Lui resta là,
dentro di me, a suo agio nel calore della
mia carne. Chiedo al medico cinese di
che cosa si tratti – non sappiamo, mi risponde,
non lo capiamo, ci vorrà tempo. Mi suggeriscono
di stare tranquillo, di tornare a casa,
di vedermi un bel film con la mia ragazza
e magari, di fare l'amore. Se nei prossimi tempi,
quella duna giallastra alla destra della mia tibia
dovesse crescere, iniziare a prudere, a dolere,
a bruciare, conoscerò la TAC e la biopsia.
C'è una pudicizia che non mi ero aspettato,
usiamo solo pronomi per rivolgerci
a lui, alla cosa. Potrebbe essere un brutto male,
la mia fanciullesca curiosità per l'Antico Egitto
si risveglia in quello che, qualche giorno a seguire,
scopro potrebbe esserne il nome. Allora
non resta che rincuorarmi, trovare conforto.
Di certo, il mio destino non potrebbe essere
lo stesso del Grande Rimbaud. Non c'è spazio
nella storia della Letteratura per due poeti colpiti,
irrimediabilmente, dallo stesso male. E,
d'altra parte, seguendo il medesimo ragionamento,
potrei essere ancora più confortato nello scoprire
di non essere affatto un poeta, al più
un mesto scribacchino che sente, sordo,
il rumore della lontananza. Che trova
rifugio, poveretto, nella Patria della sua lingua.
Ma certo è che esiste una memoria delle Lettere o,
per meglio dire, una memoria della carne. Dove
era l'oblio ora sta la parola. Dove stava l'erosione,
l'inondazione, la paura, l'estinzione, l'umiliazione,
il dolore e il sopruso, ora sta la consolazione, la parola.
Inediti
2.
Quando eri bambina volevi guidare le ruspe o altri
mezzi da demolizione ancora più ingombranti, oppure
fare la benzinaia, per conoscere persone, storie,
e strade che, solo accidentalmente, si percorrono.
Quando vieni a trovarmi guidi con lentezza, come ti
ha insegnato tua madre, nello stringere il volante
c'è la franchezza di tuo padre. È sempre il martedì
mattina che vieni qui, vorrei ripetertelo che
non mi offendo se quelli che ti accompagnano
non sono tulipani o calicanti, basta che non siano
fiori di pezza, perché se mai ti dovessi vedere
con quelli, emergere appena da una busta
di plastica, tutto per me sarà finito. Il luogo
dove ci incontriamo, manco a dirlo, è sempre
lo stesso, l'indirizzo non dovrebbe cambiare per
almeno una quarantina d'anni. Di rado incontri
altre macchine e, se questo avviene, trattasi
dei ragazzini che, marinata la scuola, vengono
da queste parti a fare pratica: fanno degli otto
come mosche impazzite, provano le partenze
in salita, altri sgommano scagliando nel cielo
la ghiaia del parcheggio. Alzano la polvere
e questa poi ricade su tutto quanto, e tutto,
così, si dipinge di giallo. Mi dici della schiera
degli alberi che è stata cimata;
dei negozi che hanno tirato giù la serrande
per l'ultima volta, delle tendine rosa di quello di tua zia,
inaugurato il mese scorso con i risparmi di una vita.
Tua madre è mancata il Natale scorso,addormentandosi
sul divano; ragguardevole, anche in quell'occasione,
è stato il suo pudore piemontese, perché nessuno
degli ospiti ha saputo del trapasso prima
di essersene andato. Dici che non hai ancora avuto
qualche giorno da dedicare al dolore perché al lavoro
non hai voluto dire niente. Mi racconti di nuovo una
delle mie storie preferite, e tu sai che è una
delle mie storie preferite: attraversavamo il parco
per andare a pescare girini. Ora ti senti gonfia
come una ranetta. Non nascondi la tua sorpresa,
quando mi dici che la panchina se ne sta ancora là,
piantata nel cemento dell'argine come una siepe di ferro,
che fischia, che mettete scintille, oggi come allora. È
l'effetto dei temporali estivi. Ci andavamo assieme
per provare il rumore della guerra, a vedere i fulmini
abbattersi sulla ghisa e rimbalzare tra le code di volpe.
Vuoi portarci il bambino – a giugno, quando sarà
finita la scuola, attenderai il cielo più nero e la pioggia
più fitta. Andrete là perché la veda scagliare fuoco azzurro
in ogni direzione, sfrigolare nel vento e sotto la pioggia;
vorresti far sentire a questo figlio l'odore di ozono,
la nausea dell'elettricità perché, almeno, si abitui
a quella di vivere. Perché conosca timore,
soprattutto amore, per tutto il creato.
3.
Fra cento metri è la discesa – la strada scompare
e noi scompariremo con lei. Scomparirà
nella pioggia che scintilla, nei coppi
che scintillano, in un mare di zinco. Guardiamo
inabissarsi il furgone che ci precede, la cerata verde
gettata sul carico schiocca e pulsa, è il tappeto volante
sul quale viaggiano i nostri sogni andati.
Dedica
Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo
all'inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio
Calvino, Le città invisibili
Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo, – l'universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io ti aspetterò in una sala
come questa o migliore. E ci sarà un momento in cui
questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un'altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l'ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.
***
***
La tapparella abbassata sta vibrando e il chiarore
che la attraversa mette un abaco sul grande tappeto
che ha portato dal magazzino di sua madre. Lei ora non c'è,
così posso fare i conti con i miei novemila giorni di vita.
Mi sembra una cosa ridicola. Un numero tanto grande
per qualcosa di tanto piccolo.
La plafoniera sospesa sul nostro letto
è un mondo di freddo sporco, una molle sfera di polvere
inchiodata al soffitto. Su quella calotta una bufera silenziosa
si flette su un gruppo di nomadi vestiti d'azzurro,
li vedo lì tutti i giorni, che non avanzano di un passo.
FrancescoMariaTerzagoènatoaVerbanianel1986,haunalaureatriennaleinLettereconseguitaaPadovaconunatesiinEsteticadelmondoorientaleconilProf.GiangiorgioPasqualotto,èLaureandoinLinguisticaGeneralepressolostessoateneo.Collaboracon:AbsolutePoetry,Poesia2.0,UltraNovecentoeScrittoriPrecari.Hapubblicatopoesiesu:ItalianPoetryReviewdellaColumbiaUniversity,LeVocidellaLunaeALI,èpresentenell’antologiaGenerazioneEntrantediLadolfieditore.Alcunisuoitestisonopresentisuisitiweb:Smemoranda,PoetarumSilva,LaGinestra,NazioneIndiana,CriticaImpura,Samgha,Glamour;ilBo,dell'UniversitàdegliStudidiPadovaeIbrid@menti,blogcollettivodell'universitàCa'Foscari.HatrascorsogliultimidueanniinCinabeneficiandodiunprogettodiscambioculturaleericercadell’UniversitàdegliStudidiPadova,inquelpaesestatuttoracurandodelleiniziativevolteallapromozionedellaLinguaedellaCulturaItaliana.Hainsegnatoitalianopressol’AccademiadiBelleArtidiGuangzhouedèstatocollaboratoreesternodelGuangdongMuseumofArt.