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Annamaria Ferramosca legge "Le volpi gridano in giardino"

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in "Poesia", n.285 (settembre 2013), pp.56-57


Emergere è forse il verbo che meglio esprime la mia uscita da un magma vitalissimo, vale a dire da questa 'anomala' e ricomposta rac­colta di canti, in parte già editi. L'anomalia risiede nella volontà evi­dente di costruireun unicum accostando esperienze di pen­siero e linguaggio che abbiano l'impronta dell'accoglienza indiscriminata e per que­sto fertilissima. Questo crossover di gene­ri e registri, come rileva con acutezza an­che Paolo Donini nella prefazione, è il su­peramento del cliché della compattezza di una raccolta poetica, significa la necessità di guardare oggi verso un più largo oriz­zonte cognitivo-visionario, in un costante e dilatato incontro-scambio di poetiche. Così questa scrittura si fa materia can­giante, poliedrica, ribelle, civile. Capace di trasmettere, per esempio, da un ver­sante, lo stupore di fronte all'imprendibilità del femminile, dall'altro la presa d'at­to - amara - delle infinite macerie etiche del nostro mondo, con tutta la ribellione e il carico di un cambiamento necessario, a partire da sé. Nei Canti dell'amore co­niugale Guglielmin ha saputo trasporre in poesia una percezione nuova del femmi­nile di oggi: un'essenza di donna quieta e sapiente e insieme una specie di folle na­turalezza, quella misteriosa mobilità che assimila il femminile a una creaturalità incontaminata, pur nello scambio di carna­lità e pensiero ("animale che stagiona e ri­parte e ancora plana / riposa e di nuovo s'invola, mai solo"). L'autore capta, nel­l'essenza di donna, note mai prima evi­denziate nella poesia al maschile, note che esprimono quella capacità del genere di saper scomparire facendo spazio al "volo largo della specie", di attraversare con naturalezza la dimensione dell'uno per fondersi in quella corale - oggi più che mai necessaria -, quel suo offrirsi guardingo e insieme generosamente aper­to al destino. Tutto questo si trasmette lungo i tredici primi Canti e si concentra mirabilmente nei versi in cui si dice del gesto della compagna nel suo voler com­piacere il consorte chiamandolo poeta. Riconoscendo così di vivere, lui, la Gran­de Illusione della poesia con quella mas­sima autoironia che lo eleva e dunque lo elegge poeta. Nei Canti partigiani, la len­te visionaria-razionale si sposta sul male di vivere, quella incomprensibile nostra contraddizione dell'essere sociali e insie­me irreparabilmente a-sociali, la dimen­sione grassa dell'Occidente (per quanto ancora?),  la  sozzura  della politica  dei compromessi e della corruzione, l'incapa­cità del balzo etico globale, quello di ve­dere oltre e lontano, per il bene di tutti. E, nell'ultimo brano della sezione C'è bu­fera dentro la madre, Guglielmin trova un finale di grande impatto, nel rivolgersi con ironia anche a colui che lo sta leggen­do, nel rimprovero rivoltogli di essere su­perficiale, dunque non dissimile da colui che mette alla berlina. Sebbene, subito dopo, in "Voglio dire", l'onestà di pensie­ro fa includere anche se stesso nella folla di coloro che confondono "patto con inciucio" e parlano per luoghi comuni. Leg­gendo si è attraversati da una lingua che mescola note gergali vivide a un lessico pieno, naturalmente raffinato, da un rit­mo chiaro, a volte incalzante - personalissima cifra - che risuona in profondità, rendendo memorabile la scrittura. E, come l'autore spiega nelle note, lungi dal creare simboli-stereotipi, egli lavora nell'addensare metafore, che a noi appaiono incisive come colpi di scalpello sulla sta­tua-testo. La poesia ne emerge in un pro­filo nitido, vero, sulla scena di frammenti sparsi che non sono altro che il nostro quotidiano di pena e di vuoto. E su que­sta frammentazione della realtà e dell'u­mano appare fulminante, nel testo "In­canto", l'incipit: "Vendo monade con vi­sta", che sarebbe stato anch'esso un tito­lo significativo del libro, comprensivo del sarcasmo e - diciamo pure - del diverti­mento del poeta, che lo salva, e insieme salva anche noi, dall'annegare nel disin­canto. "Eppure la luce tiene in quella melma", dice Guglielmin, ritornando alla donna, figura che continuamente spiazza, dunque ricuce speranza, senza retorica, mentre il poeta la insegue spiazzando an­che lui chi legge, nell'offrirgli quella sua - di lei - parola che distrae, fruga, capovol­ge, addita. E, ancora e sempre, crea. Una scrittura che è specchio spietato, totale, della nostra inquietudine del vivere-pensare-comunicare, che appare come un manifesto del possibile canto dell'oggi.


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