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Risultati dell'European Poetry Tournament

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La casa editrice Dot.com Press Le Voci Della Luna, in collaborazione con la casa editrice Pivec di Maribor (Slovenia), per il secondo anno consecutivo ha organizzato le selezioni italiane per lo European Poetry Tournament, il cui bando era stato pubblicato anche presso questo sito. I vincitori delle selezioni nazionali dei paesi coinvolti (Austria, Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Ungheria, Slovacchia, Italia) saranno invitati a partecipare, oltre alla serata finale di Maribor il 17 novembre, anche agli eventi promozionali che si terranno a Zalaegerszeg, in Ungheria, il 15 novembre, ed a Sarajevo, in Bosnia-Erzegovina, il 13 dicembre.

Al segretario del premio Francesco Tomada sono pervenuti 86 elaborati, che i giurati (Gabriella Musetti, Stefano Guglielmin, Giovanni Tuzet, già vincitore lo scorso anno) hanno esaminato in forma rigorosamente anonima, essendo ciascuna poesia contraddistinta solo da uno pseudonimo. La giuria ha constatato che tutti i lavori proposti rispettavano le condizioni previste dal bando, e che i componimenti di elevato valore erano numerosi, per cui il lavoro di selezione non si è rivelato facile.

Il vincitore della selezione 2012, che parteciperà quindi alla fase internazionale dello European Poetry Tournament, è 
Daniela Raimondi, con la poesia “Ritratto”.


RITRATTO (DANIELA RAIMONDI, VINCITORE)


Aveva lavato i più piccoli dentro il catino.
Sfregato col sapone le ginocchia, il collo,
la piega dietro le orecchie. 
Il fuoco era acceso.  I corpi fumavano.

Aveva lustrato le scarpe, spazzolato le giacche,
messo un nastro nei ricci della bambina.
Poi era uscita: il piccolo in braccio,
un altro per mano. 
I più grandi seguivano. 
Camminavano svelti, gli occhi abbassati,
i corpi stretti dentro i cappotti.

Quel giorno mia nonna andava a fare un ritratto.
Voleva una foto dei figli da mandare al marito. 
In Abissinia – dicevano,
a Natale il sole brucia ancora le pietre,
le donne hanno sguardi che fanno tremare le tigri. 
Lì, invece, l’inverno splendeva sui loro capelli,
il ghiaccio copriva i rami dei pioppi.

Il fotografo li compose come un mazzo di fiori: 
tre davanti e tre dietro. 
Aveva aggiustato le frange, poi i fiocchi, i colletti. 
Tutti fermi.  Sul viso hanno lo stesso stupore.

Li osservo.  Nella foto ogni cosa ha il suo posto:
la tenda di damasco, le schiene diritte,
la mano del primogenito sulla spalla del fratello più giovane.
Fissano l’uomo nascosto sotto il nero del panno. 
Nessuno sorride. 
Uno ha il cappello calato di sbieco,
l’altro indossa un maglione infeltrito.
Nella fila di dietro, mia madre: tredici anni, il viso sottile,
un vestito severo, nemmeno un accenno di seno.

Mia nonna manderà quella foto al marito. 
Scriverà che tutti crescono bene,
che il più piccolo ha messo due denti,
che deve comprare scarpe nuove, e le maglie, e i quaderni.
Tacerà del freddo che ghiaccia i canali,
del gelo che s’attacca sui vetri, dell’olio finito. 
Tacerà del settimo figlio che già calcia nel ventre.

È successo l’ultima volta.
Era tornato con addosso l’odore dell’Africa.
Ogni notte saliva sopra il suo corpo
e spingeva nel buio.
 attento a non fare rumore, attento
che i bambini poi sentono... –

Poi restava in silenzio:
gli occhi fissi sulla finestra,
e la paura che lui le piantasse nel ventre
un altro bambino.

Adesso gli spedisce la foto.
Non gli dice del figlio che le ingrossa le vene.
Non vuole parlargli del peso che già preme contro le ossa
e reclama il suo pezzo di letto, un lembo di fame, una voce,
la saliva che brilla
e già scava il suo nome nel buio.



ROSA DELL’ANIMALE (MARIA GRAZIA CALANDRONE)


questo suono d’incendio della carne dunque è il cielo.
carne che arde come legna e infiamma
i tralci e le colonne: dal capitello delle tue gambe ora
sale un bianco d’inferno.

quando un uomo ringrazia per il corpo ha detto sì: sì
al dono e alla prigione
e la sua gratitudine leva un rumore
di metallo battuto e tamburelli
nel più alto dei cieli, innalza
l’essere erbaceo del mondo
nella gioia di questo
che è. la gioia degli uomini è la sola lode
che piace a Dio. quest’uomo
non avrà smesso di cercare, solo
è felice, incamminato nella direzione delle cose:
nel carminio del cuore, nella ferita che diventa fiore e nel veleno
al quale è preparato dalla nascita. ora è potente come l’animale che non sapendo
sa. non lo turba l’insonnia. Dio è questo
animale, l’uomodonna, la frusta
dei nervi tesi dall’eresia, la nostra ombra gemella
di cerva e tigre, di cane
e serpente femmina che si acciambella
nel rovo dei tuoi denti, la mia spirale nobile e infernale
sui tuoi polpacci e il morso
di tutti gli animali, del cinghiale e del lupo
la zampata dell’orso e la sua fiamma
terminale nel rosso del mio cuore.

amami dunque.
tienimi nell’aperto del tuo petto
con odore di scimmia
e d’erba secca e menta e ibis scarlatti, tienimi nell’odore
di albero bruciato del tuo cuore, tra le fiere dirotte
del tuo cuore: sotto la dentatura delle scimmie
che masticano bambù
e sono a somiglianza degli umani
nude e rapaci come un’infezione
profonda. scimmie
sotto le foglie a cuore delle catalpe, scimmie come dettagli
di inferni bruegeliani
mi guardano dal fondo del tuo petto con l’occhio umido degli animali
sottomarini (l’occhio perlaceo e fisso
delle murene), si sfregano come diavoli
fino alla trasparenza della pelle
hanno una garza sull’osso
portante della schiena, sono innocenti.

io ti accolgo, ragazzo, come il morso di bestia




LA CASA OBLIQUA (ANTONIO BUX)


Era una porta in principio la testa, bussando il polso,
il pensiero della casa. Niente si è esposto, dopo
nel moto inverso, invisibile dell’abbraccio celeste,
la funzione del perimetro, l’insorgere alle finestre;

e così gli spifferi impronunciabili, e l’uscio obliquo
negli arredi al buio, il miracolo dei muri. (Che inizia
dal basso, la geometria della visione, dalla calce
comprimersi in un filtro -vincolarsi- nell’effrazione).

E allora tutto implode, dalla botola dell’esistenza:
si arriva nel sangue delle tubature, si taglia il cuore
s’accampano le ossa. E quindi, più del dolore disegna

la casa, la rivolta; degli oggetti si conosce la polvere
il nome, la scatola d’ombra. E il condono dunque
è svuotare gli stipiti, appendere il futuro agli angoli.

Ma doveroso è il censimento: il ritratto fuori, nell’insieme
sotterraneo cede, aderisce all’inferno, all’insubordinazione
anatomica del passo, che non sa retrocedere nell’origine
e scompare, misurato dal lungo metro dell’attesa

dove si precisa il tetto, la funzione urbana, la strada spaccata.




BALBUZIE (CRISTINA ANNINO)


Quella colla  lo riporta indietro. BU
l’allarga, non vuole, braccia in su, lui ha
fretta, ma anche allentandola, di più
stringe.  E’ carica al peggio di sé, la sua
liquefatta altezza. Macché
sale della terra, noi!  Distante
100 milioni d’anni dalla prima formica,
 eppure  siamo le sue larve, ché ancora  
si scrive sulle Papaie, non ermetici  né anarchia!
Esibiva, per prova misera libri farneticando, come
l’ultimo sogno del gran Disumano.


   ******
Nella stanza di palme zitte, sdraia
sotto la schiena le gambe; pareva 
un tallo. Pensa al sistema
abitativo di loro, rotoli di tabacco
puro nell’ozono dei rami. Poi libri,
sale, le guerre; conta: “più-meno-
memoria”  Con balbuzie pulsante accese
e spense film: Fukuschima, pesante
troppo sulle persone (altro calcolo
gratis), sarà sempre sulle
nostre spalle, come questa colla! sulla corte
dei conti, persino
sui gonfi tacchini e il volgare
pollaio di qualche scienza. Peserà. Così
gli parve. Poi basta, poi
via, poi destra sinistra dello stesso
collo, la sua balbuzie diventò carne.





CONFINI (MARCO BELLINI)


           Davvero non si pensava che anche un fosso,
           lì, appena discosto dallo sterrato,
           potesse essere un nido, quasi un letto;
           che fossero uno stelo d’erba e una ciglia
           legate alle stesse ore. La paura
           una coperta per l’età di questi uomini
           che si contano le unghie scure nella terra
           e sul vicino il sudore animale. Oggi è così
           i rumori sparati, i rumori lanciati si diradano,
           tornano nel fosso i movimenti, le articolazioni allungate.
           Tra loro non si guardano, non fanno domande
           nessuno si riconosce, nessuno
           racconterà quelle ore. E il giorno dopo:

un tronco cavo, una corda,
agivano sulle cose attorno per tenersi saldi.
Misuravano il rischio da prendere, la forza
della corrente. Di là un argine fiorito
la cadenza di un nome diverso, di una bandiera,
i suoi colori mai incontrati. Cercavano
un’altra opportunità; da lì sarebbero passati.

Lo studio del terreno, le curve,
la spinta della bracciata; per avere un riscontro
non bastavano, come credevano.


***


                                                        San Felice sul Panaro
                                                        20 maggio 2012
                                                        (FEDERICO FEDERICI)

senti? polvere che adorna la rovina della terra
si solleva a scatti, a sciami afferra le caviglie,
alle radici stringe la sua frusta e tira, strappa
i vetri e vortica tra i buchi, si divarica in fessure,
sale sradicando arbusti e vene nella roccia,
artigliando travature in bilico sul vuoto
nei cantieri, scortica grovigli elettrici
di cavi, scaraventa recidiva nugoli
di pietre e fumo, toglie il peso ai vivi

dopo la vertigine la veglia, le vigilie
mute d'altri tuoni senza lampi, notte
e giorno stesi nei rigurgiti, nei gorghi,
le gengive nere per la terra, gonfie
di poltiglia densa e getti d'acqua
ininterrotti – l'emorragia continua

cancellate, crepe e cumuli di pietre
circondano a settori il vuoto:
qui un altare senza ceri o croci,
lì un giardino sconsacrato senza fiori

i fischi, i pianti, i gridi e le sirene
ricadono più inerti di macerie,
è solo un alveare di arnie vuote
la città, in cui non c'è più casa,
o cosa intatta, o verbo a ricucire
il labbro alla ferita e metterli tacere

semi secchi senza odori, rotti, ossi,
tonfi sordi, rotolati nei rigagnoli dei fiumi,
rimangono sospesi in acqua che non scorre
e trema con la terra e col sudore sulla fronte

nello spasmo che contrae le viscere vacilla
ancora la città sui resti, l'acqua erompe
densa dagli scantinati, spinge i suoi rifiuti
morti fuori, i gusci e le immondizie, i mezzi
vivi ad occhi chiusi in agonia da parto

sino a che c'è forza da sfogare, il ventre
inciso, smarginato, prosciuga le sue piaghe,
non si cuce addosso la voragine che sputa,
ingoia e sputa coi detriti il sangue

la polvere s'affina nella luce alle fessure,
la pioggia ferma cenere che soffia il fuoco
spento e fa cadere a peso il fumo; scure
spire di fuliggine tempestano i gironi
terrestri, neve nera di altri giorni porta il buio




NELL’ANNO CHE SORTIVO DALL’OSSARIO (FRANCESCA MATTEONI)

Buio – io credo sia stato
ma come un lampo nel campo rovesciato
nell’anno che sortivo dall’ossario
e m’invischiavo al cretto
svenavo l’amnio della camiciola
nel foro sgangherato della terra.

Te la ricordi, la voce quando è un filo senza bocca
un fumo risalito come certe arie dell’alba
poi è limpido lo stelo,
la prima cavolaia, la farfalla?

Scendono per tre giorni le trivelle
inghiottono la pelle e il tremolio.
Sono il bambino-ghiaccio, il bimbo immobile
roccioso, il singhiozzo.

Non è che tutto ha sempre una ragione.
Dal fascio acceso della televisione, sei come me
mi senti, puoi salvarti. Puoi esistere
anche tu dimenticato, orbato
del tuo pezzo di paura. Non vedo più
troppo bene il sole.

Altri bambini, altrove, si proteggono.
Si calano l’un l’altro nel mio cuore.
Dev’essere così, mamma, che accadono
le cose morte, velocemente inutili nel mondo
– la screziatura delle pratoline
le ciocche troppo lunghe, aggrovigliate,
i graffi quando si corre forte
le braccia raggiate nel sudore
l’odore, le teste immerse, sporche.


* Per Alfredo Rampi, Alfredino, Roma, 11 aprile1975Vermicino, 13 giugno1981




IL RETICOLATO (FABIO FRANZIN)

Lo ha estratto il mio figlioletto dalla terra
ammorbidita da una pioggerellina
benedetta dopo un mese di siccità
e caldo infernale, questo pezzo storto
di reticolato arrugginito che ora
mia moglie ha infilato, lì, ritto,
in uno dei suoi bei vasi di vetro,
come se fosse un fiore. Raccolto
sabato scorso durante un picnic
sul Montello lungo un vigneto
di prosecco, a due passi dal Piave,
dai resti dell’abbazia di Nervesa[1].

Venti centimetri di ferro attorcigliato,
in centro le tre stelle dalle punte acuminate.
Gli dico che lo tendevano, tre file lunghe
ogni asta, davanti alle trincee, come ostacolo
all’attacco, come ultimo baluardo prima
dello scontro all’arma bianca. Lo guardo,
questo spezzone troncato chi sa se
da una bomba o da una tenaglia, chi sa se
storto da un corpo crollatogli sopra, morto.

Lo guardo, questo pezzo della corona di Cristo,
questo rovo rimasto piantato dentro la terra
per quasi un secolo senza mai produrre more,
questa reliquia del male, dell’odio. Lo guardo
come si osserva un fossile, una menzogna.

Ora che le spine dell’Europa sono composte
dai numeri rossi e negativi di spread e debiti,
dagli eserciti inermi dei disoccupati, e non
è bastato il giovane sangue versato fra l’erba
e i sassi per far spuntare il fiore della pace.    



***

                                 O i vostri nati torcano il viso da voi
                                                                                P. Levi
                                            (AZZURRA D’AGOSTINO)



Si apre un cielo di stelle incantabili:
credevamo, venendo qui, di numerare
sul quaderno altri modi: passare in rassegna i visi,
o i chiodi che reggono i muri,
i duri sassi sotto montagne di scarpe.
Ma per noi, i residuali, è poco più di una sterpaia
questa slargata campagna orientale, e ci fa male
un qualche punto del cuore che non è proprio il nostro cuore,
ma una cosa da poco, involtolata in fretta
per essere portata via.
Potremmo dire che in qualche modo
tutto comincia da qui: è in questi
secchi occhi di postumi che si specchia ora il mondo.
Dovremmo forse essere tante cose migliori di questa,
di questo vialetto interrotto, di questo vento astratto, tardivo,
che ci sganglia come fanno le parole:
un breve animarsi di foglie secche,
un'ombra nel cielo deserto,
l'amare soltanto quello che è perso.


11 marzo 2012, Auschwitz-Birkenau, Polonia




NUOVO DISCORSO DA UNA MONTAGNA ANTICA (GUIDO CUPANI)


Beati coloro che imparano
sull’autobus che scala il purgatorio mattinale
l’inutile di litigare per un posto – siamo tutti accatastati
nel sacchetto come articoli a basso costo
e non è meno scomodo occupare il corridoio
per chi scende o attendere davanti al predellino
per chi sale o ripiegarsi nello scatto delle porte –
beati coloro che lo imparano
senza alzare la voce
prima della sera del tempo prima delle macchie sulle mani
perché il regno dei cieli comincia un lunedì di traffico
e segni inconfondibili proclamano
che il capolinea è vicino

Beati coloro che si aggrappano




MINISERIE (INGAGGI)  (LUISA PIANZOLA)


*
sei un uomo amato da molti
lo hai capito fin da piccolo e ti sei messo sul mercato.
ne hai tratto profitto dai tredici anni in su.
le donne ti cercano, ti richiedono.
tu spesso ti dài un voto: otto.

sei una donna benvoluta e ammirata.
nel mercato rionale della tua città,
ma anche in quelli di milano, al tuo passaggio
non è che ti pestino, ti fanno largo come
a una qualunque signora con prole e altri requisiti.
tra l’altro hai una struttura fisica
più che decente: il tuo punto forte sono
culo e gambe. lo sai dalla seconda media,
ma non hai mai smesso di confezionare ricerche
scolastiche mettendoci il massimo dell’impegno.
per un certo periodo, durato parecchio in verità,
hai piombato le tue doti fisiche in una foiba esistenziale
che pareva senza rimedio.
ma il rimedio è stato trovato.
le cartucce residue sono nell’ultimo cassetto
del mobile in soggiorno.


*
ti dice: sei ancora bella, ma forse non puoi più
darmi un figlio, e io ne ho all’improvviso
un bisogno pungente.
gli dici: andiamo e facciamo, comperiamo.
il calendario ha tutti i mercoledì rossi,
soprattutto quelli vicini alla fine dei mesi.
tra poco salteranno giù dalla pagina e partiranno
per un viaggio di sola andata. non te ne devi dimenticare,
soprattutto di quelli vicini alla fine dei mesi.

ti dice: andiamo e facciamo. acquistiamo.
i figli, se non li puoi fare, si acquistano.
si prendono una vagina amorevole, un utero
ancora più amorevole e si compila il bonus.


*
i bimbi sono nati. c’è una scheda nuova di pacca
per le loro individualità. fratellini e sorelline
in girotondo nel cortile dell’opera. bianchi e marrone
chiaro, il coro degli insegnanti ragazzi li elettrizza.

abbiamo messo le culle vicino alla finestra
perché possano vedere e sentire già da ora.
nel loro silenzio di occhi piccini, nel loro vagare
con lo sguardo già da ora.
mandiamo avanti loro perché ci sia qualcuno
che si nutra con avidità e sviluppi in santa pace
ossa muscoli e organi vitali.


*
i bimbi sono cresciuti. uno sfavillio
di domande, di vita di tutti i giorni, quella
un poco snervante. ripercorriamo i loro
spostamenti giù dal letto su per le scale
dentro i cortili della fitteria. tra qualche anno
ne faremo una squadra, di quelle che vincono
o comunque puntano alla vetta della classifica.
ma per ora ci accontentiamo di salvarli
un poco alla volta, scuoterli con minacce alla mano
e stimoli alla riconoscenza.



TRASMIGRANO (MARIA PIA QUINTAVALLA)


I)

Trasmigrano i corpi, così l’amore
che mi sposta e muove
ali che si toccano sfilano appena
il collo, gli occhi più leggeri
nel sorriso. Sogno:
anse di nomi spinti da sonno cieco e
cani che riaprono l’alba

lui, lei che si ricambiano
il cerchio del piacere -
dopo i cimiteri delle macchine là fuori,
e trattengono il cuore, lo smarrito

                 se balbetta il  tuo nome,
                 o tenerezza.




Terra scoscesa e bretone,
nel verde
che disegna menhir in magnitudine,
parole come calvari in pietra -

Tra i nostri amori è l’acqua dove
una promessa sarà certissima
nel cuore,
colmo e con incerta mano
dai baci incoronata

la  t u a  voce.


II)

Ha fede e ostinazione il mio diletto,
sparge il suo dire a coprifuoco
cerca mappe alle stelle -
per arrivare fino a me, la sera

una promessa, un rilevante sogno
in balbettii leggeri
esse-emme-esse che si sollevano
(deve essere già integro, discreto

lui, se lo capisce).


III)

Il mercato è la regola
della circolazione delle merci,
e non dei sensi
che amplificano il regno -
Volessi io tornare al segno dove
l’anima e il corpo si fronteggiano,
si palpano da ciechi

un tesoro ai tuoi piedi io governo,
tu lo porgi



dal libro dell’amore inviti,
voli alto in dolzore
sopra le braccia poiché
il ragno della vita, la mia la tua
rinascano
in nuova  c a s a.

Ti amo intanto, piccola
figlia nel bozzolo, mentre ti prende
il gioco della crescita;
ritorno un poco indietro, attenta
scelgo sedermi calma, cerco

la  c e n a  dell’amore vivo.





[1]L’abbazia è quella di Nervesa della Battaglia, famosa perché Monsignor Della Casa, intorno al 1551, ivi vi scrisse il famoso “Galateo”. Nella prima guerra mondiale fu quasi totalmente distrutta durante i bombardamenti sulla linea del Piave, e così, mozza e sventrata, accoglie ancor oggi i suoi visitatori fra le colline del Prosecco.



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