La prima sorpresa, per chi non conoscesse Ritorno da Planaval (2001), nel leggere Prove di libertà (Mondadori, 2012) di Stefano Dal Bianco, è la vicinanza al parlato, la prosaicità del dire, in contrasto con la raffinatezza del suo filologare sul metro zanzottiano e ariostesco. Distanza reale e apparente, nel contempo. Reale e voluta perché, in effetti, non c'è niente di più insopportabilmente difficile, per un poeta esperto in retorica e stilistica, di sottrarsi alla trappola del mestiere, di mettere in atto strategie immunitarie dalle soluzioni formali assimilate studiando gli autori del grande canone. Operazione inevitabile, tuttavia, se si vuol essere poeti, e che Dal Bianco vaccina, per quanto possibile, lasciandosi parlare da dentro, da quelle voci che vengono prima di ogni rigorizzazione, provandosi nella libertà dallaparola che conta, nella leggerezza del discorso monologante tradotto nella sua fase emersiva. Tuttavia si nasce naif, non si diventa e Dal Bianco lo sa bene: per questa ragione lascia entrare sottotraccia la sua maestria formale, la mette in gioco in modo quasi invisibile oppure, per contrappasso, la esalta sino farsene dominare, forse con una piccola dose di masochismo, in linea con l'inettitudine di chi dice io nel testo.
L'invisibilità, per esempio, la si trova in Diverse guerre: la parola in enjambement che apre il secondo verso, "risoluto", pur riferibile semanticamente al primo, completa metricamente il settenario del terzo, dando così ai tre versi incipitari la misura dell'endecasillabo: "Dal finestrino si vede un gabbiano / risoluto contro fronti di nuvole veloci. / Ma queste facce umane"; verso settenario, quest'ultimo, che, chiedendo concettualmente la prima parola del quinto, "lottano", diventa un novenario sdrucciolo, in falsa rima interna con "gabbiano" del primo verso.
L'evidenza si dà sin dalla lirica incipitaria della sezione "Lontano dagli occhi" (titolo che ricorda la saggezza popolare ma anche – ecco un altro esempio di cultura alta sottotraccia – un notissimo sonetto del poeta cortese Jacopo da Lentini Amor è un desio che ven da core): "Ho toccato la felicità stasera" del primo verso rima baciando "intera" e, poco dopo, va in consonanza con "pensieri" e "lavoro", non prima tuttavia di aver allitterato in "t" nel secondo emistichio del terzo lunghissimo verso: "senza pensare, lo confesso, più di tanto a voi per tutto il tempo" (altro calco del parlar fino della tradizione alta). Per non dire delle citazioni più o meno perfette, dal dantesco "Donne che avete intelletto d'amore" alla zanzottiana "perfezione della neve".
Questo punto va perciò ribadito: Prove di libertà, malgrado l'apparenza, non adotta una scrittura sciatta; se è povera lo è quasi sempre per scelta; ma, visto quanto appena affermato, non si tratta nemmeno soltanto di questo; è semmai povera per via sperimentale, coltamente povera sia per le evidenze già sottolineate e sia – ideologicamente – per contrapporsi a una tradizione che è stata elitariamente ricca, snobatamente difficile e, soprattutto, scritta. E' nota la forbice tra oralità e scrittura nella trazione italiana, con grave danno, sotto il profilo culturale, per l'unità tra intellettuali e popolo. E questo tema, per quanto assente in quest'ultimo libro, era ben presente in Ritorno a Planaval: penso a Poesia che ha bisogno di un gesto, al suo mettere al centro la relazione tra poeta e pubblico. "Vorrei essere sicuro di non essere frainteso" scrive Dal Bianco in Plavanal; e questa preoccupazione la troviamo fortissima anche in Prove di libertà. E ciò perché la posta è altissima, riguardando la problematicità essenzialmente pubblica, civile nelle conseguenze, del viaggio verso se stessi, che la controfigura poetica di Dal Bianco mette in atto a partire dall'accidia che la pervade interamente, similmente al Francesco del Secretum: come Petrarca essa s'interroga sulle ragioni del vivere e del morire, dell'operare, dello stare in mezzo alla gente, sulla sua lontananza dalla verità, che qui si chiama "luce del creatore". Non si tratta dunque, per Dal Bianco, soltanto di scrivere un libro di poesie, ma di misurarsi con la lingua e il senso delle cose usando proprio quella lingua così inadeguata a indagarle. Essere nel vortice della "nullità paurosa" e da lì chiedersi ragione del proprio esistere, prima di qualsiasi sovrastruttura, "prima che torni ad essere dal bianco" come recita la chiusa ironica di Come ti chiami. Evidente la radice sapienziale del libro, con l'interrogare che fonda la scrittura, che la fa essere domanda su quell'ente capace di APERTURA, AUTOCOSCIENZA e VERITÀ, scritti stampatello maiuscolo così come maiuscolo è irrimediabilmente, avverbio che dice l'impossibilità del ritorno: non c'è rimedio, afferma Dal Bianco, alla vita e al dolore. Nemmeno la poesia salva, essendo "schifosa scappatoia". Semmai "sola medicazione alle offese del mondo"è il tremore di una "piuma di tortora", un dolce naufragare dallo stormir di fronde leopardiano, un frullo leggero come il sonno del figlio Arturo, nella sezione "Lontano dagli occhi", a cui Dal Bianco dedica alcune liriche dal sentire sabiano. Qui la controfigura si ritrae, l'autobiografia si mostra, chiedendo un metro, una misura che faccia da rete di salvataggio, che tenga il dolore entro le scansioni della forma. Ancora Petrarca, ancora la poesia che risorge, malgrado il poeta.
Lungo questa disanima ho lasciato anch'io qualcosa sotto traccia o non bene in vista: la possibilità che qualche volta la materia sia fuggita di mano, quasi che l'ispirazione si sia piegata alla necessità di buttar fuori scorie autobiografiche o pensieri ancora in bozzolo, e l'urgenza delle domande e lo stato emotivo "di debolezza estrema", ma anche l'intenzione gnomica, avessero appesantito il dettato, soltanto un poco, sia chiaro, ma sufficiente a rendere talvolta grigia la lettura, senza quei guizzi che invece tenevano aperta la comunicazione in Ritorno a Planaval. E' per altro difficile citare i versi incriminati perché il loro effetto in minore si produce spesso per accumulazione di piccole stringhe piane, modulate sulla funzione comunicativa e su strategie retoriche non sufficienti a mantenere accesa l'empatia. Il poeta stesso, invero, sembra consapevole di questo; in Alchimia dei poteri, infatti, ci suggerisce la possibilità che alcune poesie risaltino, per difetto, sulle altre: "mi son trovato / a vomitare una poesia, non certo la presente, / che racconta solamente, / ma un'altra molto più importante, / che parla di vita e di morte e che mi piace / disperdere in un libro di facezie / per lusingare i cercatori d'oro". Sembra un gioco, ma svela molto della posizione del poeta nei confronti della propria scrittura e dice anche la sua distanza ironica dal dibattito sulla poesia italiana contemporanea, che sembra vivo soltanto in rete, pur risultando spesso fanfarone e inconcludente, più legato alla spartizione del potere piuttosto che all'onestà intellettuale.
Qui alcune sue poesie.