Ecco altri 3 finalisti dell'European poetry Tournament 2013. Mi sembra evidente la qualità delle opere in concorso. Verso la fine di dicembre gli ultimi 4 finalisti.
Maria Grazia Calandronefa leva sull’efficacia verbale per raccontare quanto sia complessa eppure naturale l’azione massima: amare. E in © – fossile costruisce la “costellazione” dei gesti che fanno felice chi li riceve. Amore, qui, è una “necessità di natura” concepita come sovrabbondanza, “saggezza inumana” che ci tiene nel suo circolo virtuoso. L’occasione che scatena l’evento è l’incontro casuale con una pietra – fossile, appunto – che ha il copiright, che trattiene in esclusiva tra le sue pieghe un sorriso conosciuto da sempre, un sorriso mai perduto perché inciso nella memoria, al quale chiedere di colmare la ferita, così che il “vuoto anteriore” non lasci tracce. Proprio per questo © – fossile ha una struttura circolare, uterina come la spirale che lo caratterizza e come l’abbraccio della natura, un circolo fuori dal tempo lineare capace di trasformare l’ora in “oro”, e afferma il desiderio dell’io narrante di mantenersi nello stato neonatale, dell’allattamento ideale, di modo che il lutto originario (come Melanie Klein chiama il doloroso distacco dal seno da parte dell’infante) sia tolto e la vita sia sentita come un “favo di luce” prodotto dalla nutrice.
© – fossile
metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele
– sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura–
mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria
dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:
avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora
Questa poesia di Rita Pacilio affida all’implacabilità della memoria le tracce indelebili di uno stupro. Lo fa senza decori o rancori: ci consegna un fatto crudo, visto da differenti angolazioni, consegnandoci una sequenza cinematografica in cui l’occhio dell’osservatore incontra i corpi e i vapori, i dettagli di una scena che diventa archetipica. Il gesto dominante è il rubare, che diventa atletismo e guerra, condizione disumana del vivere la sottomissione, come quella di tutti gli esseri che patiscono “fame, sete e digiuno”. La specifica violenza raccontata non è tuttavia soltanto un episodio di lotta fra due esistenze, dove l’una soccombe e l’altra gode: rappresenta piuttosto la condizione di ogni relazione in disequilibrio estremo, senza dialettica, dove in gioco è il potere e, per converso, la libertà dal vincolo. Che sia di un singolo o di un popolo poco cambia. È il carnefice che decide i tempi e i luoghi del sacrificio, compiuto a proprio esclusivo interesse; è la vittima che patirà per sempre il ricordo di quella morte simbolica. Che poi, qui, simbolo non significa astrazione, bensì violenza tatuata, memoria indelebile anche olfattiva, uditiva, che tornerà ogni volta che la vita vorrà, per l’alchimia imprevedibile che la caratterizza. Brava la Pacilio a portarci emozioni e ambiente in due quartine senza tempo, grazie ai verbi coniugati all’infinito e all’imperfetto, per poi, nell’ultima quartina, rendere lapidario il commento, raccontandolo al presente. Il “ricorderà” incipitario è la cicatrice indelebile, il tatuaggio, appunto, che nessun futuro potrà cancellare.
Ricorderà il suo peso affaticarsi
Ricorderà il suo peso affaticarsi
il raffreddore uscire dalla casa
quello spigolo di gomito avere
fame, sete e digiuno.
Respirava il sapore della stalla
una tinta più forte della libertà
vorrebbe fare un fischio alla sua cagna
farsi leccare semplicemente.
Quando si ruba la carne di un'altra
si procede in modo veloce
conserva il fiato, tace, aspetta
il momento buono per smettere il gioco.
(Prima le ginocchia erano strette e la schiena al suo petto era ferma all’indietro. Una mano sulla bocca a tacere l’urlo, l’altra lì a setacciare il nome dall’impalcatura. Pensava fosse così la morte: con le dita d’acciaio, inanimata, senza voce. Le galline nel pollaio lamentavano l’uovo e fremevano al godere disfatto del lattaio delle ore otto. Dai suoi pantaloni sudici di mucca munta lei scendeva taciturna e aperta, come da una tempesta o una vetta).
Davide Racca introduce la sua poesia con due versi di Paul Celan dove lo spezzare il pane da parte del Signore diventa un gesto di separazione, una ferita tra uomo e Dio. Auschwitz attesta per Celan tale abbandono del divino, così come lo è, per il giovane poeta napoletano, la distruzione vesuviana di Pompei: nell’uomo lasciato solo, il pane smette di essere segno di un patto salvifico, per darsi nella sua matericità deforme, senza teleologia, in cui il senso “resta muto”. Tuttavia, ci ricorda Racca, quel pane mummificato parla ancora, attraverso i suoi solchi, che tengono massimamente vicini eppure inconciliabili, le sue parti: “la parabola del solco unisce / memoria e oblio” recita verso la fine questo asciutto poemetto, che mima ciò che resta del pane sacrificale, dopo che gli dei se ne sono andati e si è perduta anche la ginestra leopardiana. Restano l’immobilità, “lo squarcio della fame”, il forno-vulcano, il forno crematorio, il respiro “di tutti i forni / edificati intorno / a figure umane”. E il dolore per non trovare la via d’uscita da queste macerie. Anche qui la memoria è chiamata in causa, ma non per ricucire una distanza familiare, come nella Calandrone, e nemmeno come condanna imperitura che spetta a chi subisce violenza; nel solco-memoria di Racca ci sta la condizione d’esilio cui siamo consegnati, la storia dell’umanità quale racconto tragico della condizione orfana dei popoli e dei singoli.
PANE
der Herr brach das Brot,
das Brot brach den Herrn.
Paul Celan
fermo
il corpo del pane
si deforma
emerge una nuca,
nuda trapela dal fondo
senza fondo
della pietra
e il bolo dell’idea
resta muto
…
vero pane poi
il nero
lievitato
immobile
al centro
lo squarcio della fame
lavorato ad arte
…
questo nutrire
il prima e il dopo
del fenomeno, questo
non mio e non tuo
che cresce informe
(anche per lui pesa
il tempo, la farina sottostante
che crepa il primo gesto)
poi il resto accorda aria al buio e
al proprio fuoco ciò che è abraso
ed arso continuamente
ritorna
ora il principio pare finire:
la parabola del solco unisce
memoria e oblio. ora
la ferita inferta
è nel respiro del forno,
di tutti i forni
edificati intorno
a figure umane
…
vero pane poi
il nero e il bianco
indivisi
al centro
nel punto di sutura
domandano per noi
l’odore della fame
la fame del dolore
e non rispondono
Il pane cui si fa riferimento in questa poesia è uno dei tanti reperti di “pane carbonizzato” risalenti all’epoca dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. e ritrovati a Pompei, Ercolano e nelle aree archeologiche limitrofe.