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Erika Reginato intervista Franco Loi

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 Franco Loi (foto di E. Reginato, 2012)


 Da La traccia Infinita del universo,“El trazo infinito infinito del universo” (28 poeti italiani, Monte Ávila editores latinoamericana, Venezuela, 2013)

“la mia vita è certamente nelle poesie”...


  • Erika: Come nasce l'uso della parola nella propria poesia di Franco Loi?        

Franco Loi: Nasce in tanti modi. Ma non parlare di “uso della parola”, ma del sorgere della parola. Può essere un impulso della memoria, può provenire direttamente del rapporto con le cose e le persone, può provenire direttamente dall'ascolto della parola altrui.
Ma se si riferisce a quanto avviene in me durante la dizione, allora potrei rispondere al modo di tanti altri poeti del passato. Pascoli accenna al “fanciullino dentro di noi”, Dante nel Purgatorio, a chi domanda chi egli sia, risponde: “I' mi son che quando /  dentro di me Amore mi spira, noto, e a quel modo / ch' ei ditta dentro i' vo significando”..., e Marina Cvetaeva scrive: “...quando scrivo poesie è come qualcosa o Qualcuno dentro di me che volesse essere”; e l'irlandese Yeats precisa che in poesia “i suoni sono molto più importanti dei contenuti apparenti”... Posso aggiungere che la mia impressione è proprio quella di “Qualcuno” che - dentro di me, mentre Io recito la mia vita - suggerisca i versi. Tanto è vero che la mia esperienza non esce da me come a me sembrava, ma in modo molto diverso. Essenzialmente la parola della poesia scaturisce dell'essere intero, conscio e inconscio, pur operando attraverso il nostro Ego.
Devo anche premettere che sono arrivato alla parola molto tardi, avevo 35 anni e che per lungo tempo ho scritto narrativa, saggi e teatro.

  • Erika: Perché il poeta preferisce scrivere in dialetto piuttosto che nella lingua italiana più diffusa in Italia?

Franco Loi: Non che abbia preferito “scrivere in dialetto” - sarebbe meglio dire in “lingua popolare”- ma, come ha scritto Franco Brevini, non sono io che ho scelto il milanese o genovese o parmiggiano o le altre lingue della mia esperienza, ma io sono stato scelto dalle lingue. Il che si può anche tradurre con il fatto che, avendo vissuto tanta parte delle mie esperienze in mezzo al popolo che parlava quelle lingue, esse sono entrate in me con le vicende della vita senza che io ne fossi consapevole.
Intendo anche precisare che, nel momento in cui mi sono messo a scrivere versi, avendo avuto un padre sardo, e semmai genovese di crescita, e una madre parmigiana, e avendo imparato l'italiano a scuola, sono sempre stato convinto che la mia lingua fosse l'italiano. Ma in quel lontano 1965, volendo parlare della guerra e della condizione sociale della mia gente, mi parve subito assurdo dover usare l'italiano. Tanto più che allora tutti a Milano parlavano il milanese ed io avevo vissuto le vicende più forti e terribili della mia vita – la guerra, le fucilazioni, il lavoro, le amicizie della prima adolescenza – in lingua popolare. Certo, ci sono stati anche motivi letterari: la consunzione neoclassica dell'italiano e l'impulso ricevuto dalla lettura del romanesco Belli, la coscienza che anche Dante aveva scritto in volgare toscano in epoca colta latina, e che persino Pascoli era stato accusato di scrivere in romagnolo molte delle sue poesie.
Se la sua domanda, poi, si riferisce anche alla sua diffusione, sappiano che essa è più sottoposta a regole politico-giornalistiche che al veicolo linguistico. Non credo che la diffusione di un'opera sia un buon criterio per giudicare il valore dell'opera stessa.
Nell'Italia degli anni '30 erano certi più diffusi Guido da Verona o Pitigrilli che non Ungaretti o Montale o Saba.
D'Altra parte, non è forse vero che, se si vuol capire come viveva la gente del Cinquecento, occorra far ricorso a Teofilo Folengo o piuttosto che all'Ariosto e al Tasso? E se vuoi capire il passaggio culturale dal Sette all' Ottocento e comprendere il Romanticismo italiano siano necessario Carlo Porta e tutti i milanesi a cominciare dal Maggi e il romano Giochino Belli insieme a Giacomo Leopardi.
Non dobbiamo dimenticare che l'italiano è scaturito dall'alta aristocrazia e dalla tradizione petrarchesca ed è stato sancito dagli studiosi Asolani nel Cinquecento, e che ancora nel primo   Novecento soltanto il 2,3% degli italiani parlava quell'italiano, e che è occorso un genocidio scolastico e la congiunzione con la televisione di stato per imporre agli italiani quell'italiano.
Ne vediamo le conseguenze oggi, quando le persone non usano più parlare le loro lingue e però anche “l'italiano” sta scomparendo, non avendo più il serbatoio popolare a cui attingere, mentre già si parla d'imporre l'inglese imperiale.
E se poi parliamo di diffusione nel mondo, non sono forse lo spagnolo e il cinese le lingue più diffuse?


  • Erika: Nella sua poesia emergono l'amore per l'umanità ma anche una fede senza misura. Quali sono i temi di maggior ricorrenza nel suo lavoro poetico?

Franco Loi: Come rispondere? Penso che non ci siano “temi”, che, del resto, presuppongo un approccio intellettuale alla versificazione. C'è la mia vita, e la vita di tanti altri che ho conosciuto nelle mie esperienze in tanti luoghi d'Italia. Inoltre un uomo è attraversato da una infinità di cose: emozioni, sensazioni, pensieri, momenti di coscienza e momenti di sonno, vibrazioni naturali, influssi di astri. Ogni momento della vita vissuto intensamente può essere ragione di una poesia. L'impulso a scrivere, non viene da un “tema” , ma dal bisogno di dire e di dirsi. Così si può parlare dei genitori, del lavoro, di una passeggiata a piedi, di una corsa in auto, del bisogno o esperienza di Dio, di un paesaggio, di paura, di dolore, di gioia, degli amici, dell'amore per una donna, della ricerca di Dio, di un bel tramonto, o della guerra, della morte, dell'ingiustizia sociale o della cattiva politica del governati, del tradimento delle chiese o dei sogni degli uomini. Non c'è limite alla poesia, in nessun senso. Sa cosa risponde Dostoevskij a chi gli chiedeva da che idea partisse nello scrivere 'L'idiota? “io non parto mai da un'idea, ma dalle mie esperienze,dalla gente che ho conosciuto... e, del resto, si tratta sempre del mio unico romanzo e dei miei soliti personaggi”.
Quando, recentemente, è uscita da Garzanti una lunga intervista sulla mia vita e sul mio pensiero, con un DVD con lettura di mie poesia, ho anche detto che “la mia vita è certamente nelle poesie”.
E devo far notare che le mie poesie non hanno titolo appunto perché, come scriveva Eluard, “la poesia è ininterrotta”, appunto come il respiro.

  • Erika: Ci sono suoni, rumori, ripetizioni che ci fanno sentire un certo brivido quando leggiamo la sua poesia. Come avverte la giusta musicalità un poeta? E come fa il poeta a sentire questi suoni, il loro inizio e il termine? Come riesce a fermare i suoni e le voci che si nascondono tra questi suoni, luci e ombra?

Franco Loi: Questa è una domanda la cui risposta necessiterebbe di un libro. Ma è la parola stessa che è fatta di suoni, tanto più in milanese che è lingua consonantica, mentre l'italiano è vocalico.
Penso che la musicalità sia una specie di sintesi tra il sentieri del poeta e l'emozione del rapporto con le cose e le persone o col proprio essere più profondo, o anche con i limiti del nostro abituale Io. Dobbiamo anche tener conto del fatto che tutto nel cosmo vibra e giunge a noi col suo impulso di luce e suono. La poesia è il tentativo di far sentire nel vibrare delle parole quel che suscita in noi ogni nostro rapporto con la vita. Non si tratta di “giustezza” pensata e commisurata, ma di un naturale aderire al vibrare che noi avvertiamo della luce e del suono esperiti. L'inizio è, come ho anticipato con Dante, nel movimento d'amore che suscita in noi il vivere. Quando l'Amore – maiuscolo perché è movimento totale – non è confondibile con altri impulsi amorosi.



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