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Channel: blanc de ta nuque

Sebastiana Savoca

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Riporto la mia nota introduttiva a questa opera prima di Sebastiana Savoca.


Senza grammatica(transeuropa 2019), pur essendo un’opera prima, già presenta risolti alcuni dei punti deboli tipici degli esordienti: il sentimentalismo, la propensione intimistica, l’esasperata coincidenza fra verso e sintagma, le immagini stereotipate, il ritmo monotono. A parlare, in questo libro, è invece un io collettivo, ma non omologato (“ho preso in prestito voci /scritte di donne, di uomini / inesistenti”, il quale, pur rinunciando a cantare, ad essere lirico, rivendica il proprio diritto d’esistenza e di resistenza all’annullamento per opera di un mondo, il nostro, che vuole identità passive, immobili alla vita, segnate da solitudine, frustrazione e violenza, un mondo senza regole, sgrammaticato, appunto, che disorienta il soggetto e lo mette in crisi. 


La prima sezione, “Il suono della neve”, indaga la difficoltà del dialogo amoroso, della comunicazione privata, dovuta al venir meno di un codice amoroso consolidato, della sua grammatica. Questo, tuttavia, non comporta una resa degli amanti al caso, alla contingenza, bensì alimenta in loro la reciproca accoglienza, una perseveranza di quieta tenerezza e d’incondizionato amore. Soltanto così, sembra suggerirci l’autrice, gli esseri umani possono rifondarsi nella relazione, uscendo da una solitudine non soltanto storica, dovuta alla condizione snaturante dell’Homo technologicus, ma anche sociale che è immediatamente ontologica, nella misura in cui il tardo capitalismo ha ridotto la vita a gioco in-fondato, di superficie, a scivolamento da un ruolo all’altro, privo di etica e teleologia, finalizzato alla sopravvivenza del sistema stesso, in cui il dolore e la felicità sono funzionali all’avere, al consumo. 
Nella seconda parte, “Solo punteggiatura”, la dimensione drammatica dell’essere-in-comune emerge con più chiarezza, attraverso l’allegoria dell’annegamento e della deriva dei corpi senza più bussola e orizzonte condivisibile. La difficoltà del dialogo non appartiene dunque solamente alla dimensione privata (gli amanti), ma è una malattia esistenziale, che porta ciascuno, come recita l’incipit della prima parte, ad “attendere invano il nulla” e a negare il passato, in nome di un eterno presente senza fondamenti. A questa morte-in-vita, non esiste antidoto se non amando “anche per chi amare non può più”.

Questa condizione di spaesamento e di ricerca di un centro che dia senso al vivere è un discorso, lo sappiamo, particolarmente caro ai moderni, ma non per questo la poesia contemporanea può ignorarlo; se lo facesse, suonerebbe inautentica, superficiale. Sebastiana Savoca ci invita a non passare oltre, a rimanere in questa sacca di degrado, per svelarla e trovarne i semi di un nuovo inizio, che qui ha la forma del non-ancora: “tra i fornelli e il focolare, sogni / - nel mezzo tavoli, abete regali - / una casa nel giorno di Natale”. Calore e accoglienza, dunque, che questo libro continua ad evocare, anche raccontandone l’assenza. È questo un modo per scrivere poesia civile che eviti la facile denuncia, l’afflato moralistico, è una pronuncia laica e antieroica, ma non per questo meno capace di dire il vero sulla condizione odierna degli esseri umani. 

Sotto il profilo stilistico, Savoca predilige la paratassi, che spezza talvolta con l’enjambement, usa una punteggiatura nervosa e metafore dominate dalla precarietà e/o dalla drammaticità (due esempi: “i fumi freddi s’assopiscono / nei miei polmoni” e “siamo un pugno di chiodi avanzati / fissati a una parete”), ottenendo con ciò un campo di tensioni retoriche assai efficace a rappresentare l’inquietudine sociale contemporanea. Inquietudine, ci racconta Senza grammatica, a cui far fronte con un’esistenza consapevole, che pensi alla morte quale condizione di ogni possibile esperienza umana: messaggio che si legge già nella clausola della seconda poesia, quando la rinascita donata dalle “primavere” e la quasimodiana solitudine dell’uomo nel “cuor della terra”, preludio della morte, si uniscono nel più aulico dei metri, l’endecasillabo, qui declinato a minore, quasi a sottolineare, della vita, la tonalità notturna che attraversa l’intero libro.



Sebastiana Savoca, Senza grammatica (Transeuropa, 2019)



Senza grammatica
                                   chi ti ama
senza domanda dubbio dilemma
ama
          l’ortografia delle tue labbra



*



«Questo Suo mondo è tutto un io
d’ansia… Non può dare risposta a questa
Sua domanda. Ora chiuda la finestra.

̶  conoscevo gli infissi, i loro scatti
anacronistica scienza dell’io

Non si può mettere ordine
nel vuoto di una stanza»


*

Ad una vedova con figli


Accogliere un defunto
(in una collanina
legata attorno al collo)
sfregia lo spazio che muore nel petto.

Non c’è lamento che salvi lamento.
Perdi tutti i respiri che rimangono
per annegare nella tua esistenza.
La tua salvezza non ha àncore in questo
mare, né remi per remare. Amare
anche per chi amare non può più
ti condanna alla vita,
al sapore aspro della limonata.


*

Una cometa in un cielo di nubi,
inattesa, attraversa i tuoi occhi verdi;
ancora forse non vedi il rumore
dei segni, né ne riconosci il tratto.
Accarezzi il tuo gatto, in questa notte
di ripetuti silenzi e altri vuoti,
e, tra i fornelli e il focolare, sogni
  nel mezzo tavoli, abete e regali –
una casa nel giorno di Natale.


*

Torna il solstizio
                       e la faccia della gente
torna per rammentarsi di esistere (negli altri)
torna a tornanti, a ondate
in montagna e nel mare
per chi vuole volare e chi annegare
l’importante è restare
                               quando qualcuno ti adocchia

«Che senso ha ballare nel tempo libero di un pittore?»

Spieghi le parole con le parole
come se potessi spiegare con la tua vita la vita


 Sebastiana Savoca, nata a Messina nel 1993, vive a Vicenza. Si laurea in Lettere nel 2015, con una tesi su Fortini e poi in Linguistica, sempre a Padova, su Enrico Testa.




Paolo Gera legge Fabrizio Bregoli in chiave zanzottiana

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DUE SÌ

Una brevissima parola straniera, tre lettere, arcaica, fulminante, è utilizzata da due poeti italiani in epoche diverse: naì, να. I poeti sono Andrea Zanzotto e Fabrizio Bregoli e la piccolissima particella verbale è rinvenibile in due componimenti appartenenti a “IX Ecloghe” (1962) e “Notizie da Patmos”(2019). Innanzitutto, le due opere generali si riferiscono a un modello di antica scrittura: in maniera diretta Zanzotto si ricollega alle egloghe o ecloghe della letteratura greca e latina, di cui l’esempio più illustre sono le “Bucoliche” di Virgilio; in maniera maggiormente simbolica Bregoli alla comunicazione epistolare dei primi apostoli. In tutti e due i modelli originari c’è un impianto di tipo dialogico, in tutti e due i modelli originari c’è inquietudine per i tempi difficili che si stanno vivendo e la speranza che si possa un giorno arrivare a un definitivo risanamento: l’età dell’oro per Virgilio, l’avvento del Nuovo Regno di Cristo per il Giovanni dell’Apocalisse.
Ma ritorniamo alle opere contemporanee e alla sottile sezione che ne vogliamo ricavare. In entrambe ritroviamo, come si è anticipato, l’adesione stilistica ad una tradizione, ma anche il travalicamento della norma linguistica, del canone poetico di riferimento. Questa vocazione aderisce a una riflessione metalinguistica che non è però scelta per pura astrazione intellettuale, per manifesto di intenti e applicazioni: il punto di partenza riguarda piuttosto temi biografici forti e nevralgici, quali possono essere l’amore non corrisposto fra padre e figlio e la discussione che si accende fra due insegnanti riguardo alla loro missione educativa.

Sia la parte di Zanzotto che quella di Bregoli si identifica non come poesia conchiusa in sé, ma come frammento o meglio congegno minimo, inserito in un meccanismo più ampio e complesso che si basa, per sviluppare il suo movimento linguistico e ideologico, su una dinamica colloquiale. Il nài di Zanzotto si inserisce in un contesto di contrapposizione dialogica fra due personaggi indicati semplicemente come a e b. I sopracitati sono due insegnanti ed è indubbio che nella Ecloga IX Andrea Zanzotto attinga alla sua esperienza di docente alle scuole medie di Pieve di Soligo. L’elemento indiziale risalta già nel titolo dato alla Ecloga IX: “Scolastica”.
 a è amaro e disilluso, riconosce il suo disarmo morale di fronte alle naturali richieste dei giovanissimi alunni: “vengono i bimbi, ma nessuna parola/troveranno, nessun segno del vero./ Mentiremo. Mentirà il mondo in noi,/anche in te, pura.” (A. Zanzotto, Tutte le poesie, p. 221, Mondadori Milano, 2018).
b è una donna, si può immaginare una maestra fresca di nomina, con tutto l’entusiasmo del primo incarico. Pratica una maieutica della pace: “Io forse insegno a tollerare, a chiedere/ciò che illumina/ più nel chiederlo che nella risposta.”  a ribatte allora in questo modo: “Tu forse insegni perché una risposta/hai generato in te. Sei poco, /un suono solo, una vocale un nài,/un sì (….)”. (ibid., p.222).
Il nài di Zanzotto come va interpretato? Come il rifugio già predisposto per tutti i dubbi che l’esperienza invece di sciogliere, accumula? Un atteggiamento fideistico, addirittura filisteo, oppure l’adesione ottimistica a un’etica della prassi, dell’impegno che non può lasciare spazi a perplessità e a tormenti elucubrativi? Lì davanti, seduti nei banchi, ci sono ragazzini che non si possono sacrificare nel nome del cinismo personale, l’educazione deve superare gli arretramenti dell’angoscia. Sì.

Sebbene non immediatamente riscontrabile pure il pezzo di Bregoli si inscrive nella struttura portante di un dialogo, anche se ‘in absentia’, ma la mancanza di relazione più che dolorosa e riscattabile, sembra propriamente costitutiva del rapporto tra padre e figlio, si potrebbe dire genetica e poi, nel solco della tradizione religiosa monoteistica, metafisica. Nel brano poetico precedente a quello che vogliamo prendere in considerazione, Bregoli afferma: “Ed anche qui/l’amore lo si è scritto in privazione/ipotesi che non si dà una prova. Il nostro, un dimostrarlo per assurdo.” (F. Bregoli, Notizie da Patmos, p.85, La vita felice, Milano 2019). “Notizie da Patmos” si regge sul tentativo proprio dell’algebra di avvicinare le parti, “Uno spazio dominabile. Finalmente nostro./Una paternità restituita.”(ibid. p.11) e sul dubbio quantico che le parti, per loro natura, scivolino via e non possano ricongiungersi.  Nella poesia successiva compare il να di Bregoli. È un segno fioco, ma indelebile, da proteggere nel vuoto dell’esistenza e della sua possibilità di trascrizione poetica: “Celato in quel mai, un να/il suo bianco fragilissimo (…)”. (ibid.p.86)
Anche qui, come in Zanzotto, prima dubbio, disperazione, inazione e dopo appiglio, resistenza, fede.

Nelle “IX Ecloghe” il padre, definitivamente perduto, è evocato nella poesia “Così siamo” e in “Notizie da Patmos”, la metafora didattica è diffusa in varie parti dell’opera e ne è sostegno indispensabile. Se vogliamo trovare però un collegamento veramente forte tra l’emozione testuale di Bregoli e quella di Zanzotto, bisogna risalire alla Ecloga I. Un altro ’a’ dice: “Ma io non sono nulla/nulla più che il tuo fragile annuire.” (op.cit. p.170)

Sono passati cinquantasette anni tra la pubblicazione di “IX Ecloghe” e “Notizie da Patmos”, ma il tempo è relativo di fronte alla comune capacità dei due poeti di cogliere piccoli segni di salvezza nella pomposa messinscena del Nulla. Una goccia, la neve. Il dire soltanto una parola. I due sì di Zanzotto e Bregoli arrivano sulla soglia di chiusura delle loro rispettive opere. C’è una consapevolezza molto forte della dialettica tra vuoto assoluto e presenza (mai,ναἱ). I due sì sono i reduci di una lunga e faticosa guerra che tornano per un’ora e subito devono ripartire. Si vorrebbero trattenere e stringerli, ma si conosce sin troppo bene la loro condizione di precarietà. I sì sono punti atomici che appaiono per un attimo nel laboratorio dell’esistenza e della poesia e subito si convertono in onde inafferrabili. Eppure nella vita e sul foglio di scrittura li si cerca, li si attende, ci si aggrappa per quanto si può al loro raro germoglio.


Andrea Zanzotto, da Ecloga IX

a-      Tu forse insegni perché una risposta
hai generato in te. Sei poco,
un suono solo, una vocale, un nài,
un sì: da fare grande
come l’iddio, un mondo tutto
di microcristalline
affermative sillabe.
Oh, una sola risposta: e tutto
Insegnerò, sed tantum dic verbo

Fabrizio Bregoli da Notizie da Patmos, in “Come in un inizio”.

Quando s’addensa, dove
trapana- è un vuoto. Dopo (dopo, quando?)
in quell’altrove, un oltre:
la resa necessaria, un
silenzio sull’arco della parola.
Celato in quel mai, un να
il suo bianco fragilissimo. La neve
delle sue mani.


Paolo Gera



Giorgio Bonacini su Maria Grazia Insinga

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Maria Grazia Insinga, Tirrenide, Anterem, 2020 (Premio Lorenzo Montano per la raccolta inedita), riflessione critica di A. Devicienti.

Questo che segue è la presentazione di Giorgio Bonacini, che doveva essere letta 
al Premio.

Una delle caratteristiche proprie della poesia è l’andamento sonoro che ne scandisce il tracciato, qualunque esso sia: lineare, accidentato, spezzato, in una struttura lirica o poematica. Ma questo, che sembra un’evidenza naturale, implicita e assodata del “dire in versi”, in realtà non è affatto scontata nella sua valenza profonda. Ed è proprio questa difficoltà (felicemente attiva, possiamo dire) a dare, con i suoi tratti distintivi mai univoci, particolari e indefiniti sensi a ogni esperienza di scrittura. La raccolta di Maria Grazia Insinga nasce e si sviluppa dentro un’architettura che non disgiunge suono e senso: anzi, li incrocia e li annoda in un movimento che porta la parola a “precipitare” dal “dirupo fonetico”, dove il corpo-fonema (così l’autrice sembra indicare la poesia che si fa verso anche dal nulla) senza mai distruggersi, si disgrega e si riforma, aggiungendo continuamente, all’intimità dei suoni, un accadimento impensato: l’apparizione pura e vitale di qualcosa che sembra inidoneo o sbagliato, mentre è, nella sua essenzialità, un refuso mistico. Un ritmo incongruo che nel suo errare (a volte in linea, a volte claudicante) all’interno del poema, arricchisce un dire che tende alla non-perfezione. A un’esistenza, cioè, in continuo cambiamento inaspettato, dove “il vero pensiero è... cedere al sogno” la sua forma e la sua facoltà. Perché la poesia è sempre discontinuità. Non è mettere ordine nel caos, ma da questo attingere modulazioni e sommovimenti per “incendiare la voce”.

_______________________________________________________
                                                                     (g.b. – 20 Agosto 2019)

dalla sezione LE TUFFATRICI

*
tutto di mala faccia da per tutto
ingoiare la gola a imbuto e lei
ci passeggia sopra su in strada
per tirrenide il viaggio è già
compiuto e alza lo scirocco e
il pianeta è perfetto sto per
sto per morire e tu parli parli


dalla sezione IL VUOTO

*
l’incendiario gira con una bottiglia
e le sigarette in testa e non riesce
a spegnere la testa
l’estremo esercizio delle rapide contro
dammi il mio arco quotidiano


dalla sezione LA RECREAZIONE

*
sulla fiumana ingrossata
alzava la testa il giunco
l’arco contro la piena
contro vuoti e pieni
e la forma sigillo


dalla sezione IL BUCO

*
un corso d’acqua rapido
per diventare eremita
sgombrando la mente
rimane sempre un buco


dalla sezione IL SONNO

*
                   chissà se ai morti è concesso il sogno

non puoi dire io dormo il sonno taglia prima
la testa e dimentichi tenti col sogno di ricordare
fai un ponte tra i due laghi della prosa e non
il mio lago è di una specie sconosciuta


dalla sezione L’INTERO

*
qui non c’è niente che riporta il dire ma
l’essere qui l’essere non è segmentato e
frantumato ma ingoiato e questo è
un atto di cannibalismo


Carla Mussi su Fabia Ghenzovich

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Fabia Ghenzovich, NuditàLibreria Editrice Il Leggìo, Chioggia  (VE) 2020 
      - Collana “Radici” diretta da Gabriela Fantato -

Se dovessi creare una mappa per viaggiare dentro questa raccolta di Fabia Ghenzovich, mi servirei di ottima carta e buona stampa, e indicherei i luoghi definendone solo il nome comune. La città, la terra, il mare, la roccia, il fiume. Ogni segno sulla nudità della carta vorrei solo che suggerisse il carattere essenziale del luogo, perché restasse all’eventuale viaggiatore la scoperta del nome proprio di ciascun elemento.
Ecco appunto la “Nudità”, che è corpo senza vesti, parete senza orpelli, foglio bianco, luogo sacro, paesaggio naturale e interiore nella sua essenza, “qualcosa insomma/ di integro come alba/ o natale ma corporale”
Ed è la nudità il luogo di riferimento, “All’angolo cieco/ tra sistole e diastole/…”, dove anche gli oggetti si fanno corpo, e da “..i nostri corpi/ da animali invertebrati..”  prende forma e voce “una fotografia spina e piuma/ che dentro fa rumore.”.
 Tutta la realtà si fa corpo, a cominciare dal potere, che si manifesta come corpo mostruoso che “s’insinua covando patogene// imperfezioni chiede/ il conto sempre a proprio/ tornaconto tra fazioni/ di pensieri// e patteggiamenti. Solo all’ombra del dubbio mastica/ amaro al sentore del primo/ crollo a irrigidirsi…”. Aquesto corpo da “piccolo predatore” risponde il coro di “piccoli/ agnelli sacrificali/ belando a testa/ china così come servi senza mai// troppo disturbare”
La casa stessa, si mostra nuda e animata, rivela le “stanze che sgusciano furtive/ verso l’uscita – la porta-avamposto/ dell’ignoto.”  Qui l’autrice gioca con ironia sull’idea  di una spesa al supermercato come eroica impresa di caccia  in caccia improvvisata/ amazzone ripetere/ i passi di un cammino/ primordiale sulle tracce del nuovo//  supermarket che ha il nome/ arcaico di un antico guerriero/ barbaro/ CONAD!”
Ed è in questo “sgusciare” delle stanze, che sono ambienti di una casa, ma anche versi, strofe di poesia o ballata, che il viaggio del corpo si compie.  Un viaggio dove non possono esserci infingimenti, come ci ricorda questo testo:

Uno scalino dopo l’altro
sarebbe troppo semplice
una salita senza la tensione
che ti metta alla prova
l’inciampo di un bisogno
in agguato troppo facile

sventare un fiasco
dirsi fratelli nello strappo
nel taglio con l’amaro
di un sorriso mai
abbastanza dilaniato.

Datemi pure una tenebra
abituale trascendetemi
la preda nel trionfo
di una maschera nei secoli
dei secoli blasfema cercatemi
la bussola senza direzione

la libertà arriva nuda.

 “La libertà arriva nuda”, ecco il verso di Chlebnikov che chiude questa poesia, e che è posto in esergo al libro.  E se la nudità è necessario e faticoso viaggio con “La bussola senzadirezione”, è la “maschera nei secoli/ dei secoli blasfema” che afferma la sacralità più che l’eresia del corpo nudo, come Pasolini ne “La crocifissione” , che ci ricorda il Cristo  esposto nudo in croce per “testimoniare lo scandalo”.
E la nudità si rivela anche nella versificazione, dove le spezzature, la scomposizione del fraseggio da un verso all’altro, (come evidenzia anche Luigi Cannillo nella prefazione) creano un ritmo che si fa viatico di luce e ombra, “passaparola che ritorna”.
In questa mappatura immaginaria dove anche il paesaggio si fa corpo e gli elementi si umanizzano, incontriamo “Il ventre del mare”, ed è sempre il mare che irrompe, al punto che nei versi “ciò che credevo si è sciolto/ fin dove arriva la vista// nel mare”, rimane il dubbio chenon sia la nostra vista, ma quella del mare che osserva, in un gioco di rimandi  che in molti testi è nutrito dalla presenza costante di “specchi”, “occhi”, “riflessi”, “casse armoniche”, “lenti”.
 Tra gli elementi del paesaggio, compare solo un luogo geograficamente definito, il Sile, presenza acquatica che ci aveva accompagnato nella mitologia della Catanegài in due precedenti libri di Fabia Ghenzovich, “Totem” e “Se ti  la vardi contro luse”, (quest’ultimo in dialetto veneziano). E attraverso il Sile, luogo di una memoria antica, compare il mito di un “Dedalus nudo”, “riflesso d’occhi liquefatti”, animale lacustre, airone. Il mito irrompe anche come epica del futuro, nelle “ bionicheprotosolitudini”  la cui nudità si affaccia nella “umana trasparenza” dell’effetto digitale di una lacrima.
Libro di grande sonorità e intensità, ci conferma un percorso nella autentica  nudità della parola e dell’atto poetico. Come indica Fabia Ghenzovich nella bella intervista di Anna Lombardo posta a fine volume:

 Per me la nudità sta nella parola
che salva dal condizionamento o dalla finzione, e che risponde ad
una spinta interna necessaria, così come dalla percezione del mondo,
di cui siamo parte e che in noi agisce.

E ancora:

Potrei dire che spesso la poesia si fa, avviene, senza
sapere quando inizio, quale sarà il percorso, in questo senso avviene.
Conosco la partenza, non l'arrivo. Ritengo inoltre che avventurandosi
in uno spazio in parte ignoto, la poesia apra spazi aperti anche
sull'indicibile, sia come sconfinamento, sia come rivelazione.

( Carla Mussi)


*

Dico - la nudità -
qualcosa insomma
di integro come alba
o natale ma corporale

dico ecco la voce
pulita sotto strati e strati
la voce dal fondo che spiazza
ogni parola vassalla

che non suona
che non filtra
più la luce.


  
*

Più di un corpo maschio
di un lampo a ciel
sereno del planare a testa
alta di un successo
seducente

un verso. Talvolta
inaspettato invita
alla luce lungo ogni filamento
d'inchiostro ogni osmotica
membrana di uncorpo

celeste.
                                                                                                                                                 
          
*

Amor mundi nella luce
per coordinate circolari
benedice il gesto e la guerra
rifiuta a contrasto di conquista
alla cieca più feroce e guasto

per stupro di bellezza il male
all’apice con volto d’uomo
fallisce dove l’ultimo
presidio di luce reclama
giustizia per lo sforzo

terso per questo stare
malgrado e diverso nel gesto
gentile che del pane buono
del giorno in parti uguali
divide quello che resta.



*

Un contrarsi l'ultimo
flebile ardere sul confine
dove sussurrano i morti.



*

All'angolo cieco
tra sistole e diastole
di chiari e di scuri stenta una viva

fiamma negli occhi
prudenti dietro lenti
fumè occhi di pavone
che  invitando escludono
a volte distanti raramente

stupiti se non per l'ironia
di un istante quando tradisce
una fossetta come un tic l' intima
fessurina quasi infantile
a lato della bocca

quel piccolo colpo
di reni che della tua vita
può farti campione.



*

Credetemi
amo l'imperfezione.
Non dover essere
che soddisfazione!

Essere
con ogni mia parte
sorella a sorelle
diverse che mi fanno

l'occhiolino
per scampare all'ingombro
dell'ovvietà.



*

Piccole
rinunce muta
di piume nient’altra

quiete che un crollo
di farfalle. 



Fabia Ghenzovich è nata a Venezia dove vive.
E’ interessata alla poesia e alle sue possibili interazioni e contaminazioni tra i linguaggi dell’arte, in particolare con quello musicale come nel caso di “Metropoli”, testi musicati in stile rap.  Ha partecipato alla prima Biennale di poesia “Officina della percezione” 2004 a Verona. Ha pubblicato libri di poesia : “Giro di boa” (Joker edizioni 2007), “Il cielo aperto delcorpo” (Kolibris 2011 e  nel 2016 in ebook su La Recherche), “Totem”( Puntoacapo  Editrice 2015 ), “Se ti la vardicontro luse” (Supernova 2018), primo libro in dialetto  veneziano,“ Nudità”  (Libreria editrice Il Leggio 2020). Ha vinto premi a concorsi di poesia. E’ inserita in antologie tra le quali: “Blanc de ta nuque. Uno sguardo dalla rete sulla poesia italiana contemporanea, vol. II, a cura di Stefano Guglielmin (Le Voci della luna, 2016) e nel Tomo II° “Il Fiore della poesia contemporanea” (Puntoacapo editrice 2016). Suoi testi sono pubblicati su riviste cartacee e online: Il Segnale, Le Voci della luna,  La Mosca di Milano, Carte nel vento (Anterem), Tribuna magazine (rivista romena di poesia italiana), Periferie recensione di Nelvia Di Monte,  L'Avvenire recensione di Enrico Grandesso, rivista internazionale “Letteratura e dialetti” recensione di Maurizio Casagrande, Aspre Rime 4 inediti in dialetto (Campanotto) a cura di Matteo Vercesi, Adiacenze (Milanocosa), Mutter Courage di Anna Maria Curci e su vari altri blog.



Cinque inediti di Cristina Annino

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Nota (mia):

1 A differenza della goccia in un racconto allegorico di Buzzati, la presenza in Minacciaè reale, debordante e senza volto, essere fisico, cosa, che la metafora elettrizza o trasforma, forse, in ladro (“tensione da scasso”): figura centrale anche in Madrid. L’a-capo amplifica la tensione emotiva, dà la scossa al discorso.

2 A Nikola Tesla, Edison rubò il brevetto. Un derubato, forse. E ancora un ladro, in controcampo, dunque. Annino chiama lo scienziato in soccorso, metonimia del sapere?, contro la civiltà del Crodino e dei ruffiani, sineddoche dell’inciviltà dei consumi. Benvenuta la poesia che denuda il presente quando suona falso, senza rivestirlo da morale.

3 Una figura trafitta dal potere, San Sebastiano, e la finzione del teatro: il mondo è teatro dice il barocco, a inaugurare la modernità. E ancora lui minaccioso, l’Omone “tornato a illuminare / le travi”. Nel Gemello carnivoro era “l’ecce coso”. I sicari aspettano giù. L’io lirico non canta: straccia la sintassi come segno di impotenza rabbiosa.

4 Si parte da una giornata di lampi, con qualcuno che “ci stanca”, morde e fugge. Ancora un ladro di gioia? La scena è a spirale: siamo noi a morderci il garrese? Siamo disposti a tutto purché qualcosa accada? L’evento salva, ma quale? A un certo punto della discesa, arriva qualcuno, quello, che piomba sulla “nostra / faccenda” e la butta a fiume.
Fuori dalla lingua, non c’è futuro.

5 La caverna custodisce i tesori di prima: il ladro, le sigarette, le lampadine spente. Forse fuori ci stanno i poeti rupestri, che rubano ai ricchi per dare a se stessi. L’osservazione è feroce e Narciso nega fermamente mentre ruba da Eliot. Ma Eliot quante volte va letto? E che cosa: La terra desolata o i Quattro quartetti?



Minaccia


So ogni volta tre
cose: che forse
potrei impedire ciò
che farà. Magari
succede e non capirò
perché. Che mai però
sarà una colpa…
Quando lo
vidi salire le scale, tutto
sorrisi, centimetri, e fioca
intermittenza dentro. Fu
tensione da scasso o
lampioni di strada. Mi
fulminava la faccia
elettricamente, palo
da palo, con luce
compressa; era troppa
massa in un corpo
solo. Finché l’Ombra
intera mi fu sopra.




Cena con Tesla


Allora grazie per essere 
qui, noi che siamo
bottiglie. Si vive sul nostro
Crodino (ognuno il suo; ce ne sono
altissimi come pali). Noi
beviamo senza invidiarli. Caro
 il mio Tesla, vogliamo metterlo in
versi, losdegno sovrano della
carne per quella stracotta dei ruffiani? Mi       
guardi – falsi eredi, una
guerra!- Vero. Io fumo, ti stendi, mi
chiedi la sigaretta.



****


Pesanti gli scalini
come sono le scale;
Omone o Michlen, venga!
In ogni
stanza, passi di
noi due quasi
fosse lui solo, tornato a
illuminare
le travi. Ma laggiù
sulla porta, che fanno i
sicari? Infilzano doppi il 
Sebastiano vero poi 
via! Così
la dispersione scuce
molecolari: da una
parte i Fanti, dall’altra
i Santi del nostro cognome e
mettono il copione a
teatro. (Ma Ingresso del
pensiero, lui era dal
secolo annunciato come
cima delle due ali).
Creò
la casa
con frecce che sembrano
fari, balenii a squarci di
lampo. Luce,
dappertutto! In
tribunale
fece un atto così
di croce che
tradisce. Oggi ha
i più
perfetti nomi in mano come chiodi
di garofano.




Ultimi lampi


Malinconia geniale se arriva
fango alle porte di casa! Ma
quando piove così a lampi per
strada, neppure un compare di
danza potrebbe o la chirurgia.
Cerco
di capire chi sia che ci stanca
avanti indietro; s’attacca al
garrese, giro
eterno, poi scappa
volando sui tacchi coi nostri
volti. Forse ancora
ci tiene al mondo la voglia di
qualche evento.
Credo di
reincarnarmi o sia avvenuta una
grazia! nel lampo di
chiaroveggenza invece
penso: Quello
piomba
nella barca ferma di noi; ci
solleva una mano e sente
l’odore semivivo dei polsi. Ma
schiaccia
senza pena col piede la nostra
faccenda, la getta come niente dal
ponte. Rende insomma pulita la bomba.




La  caverna


Siamo seri. Lui sposta
scrivendo aria e basta. NON
leggere Eliot più d’una volta (se ci
riesci), i più mediocri furti
nascono dal tabaccaio. Tosa
con le mani ogni cosa dal
mondo. Hai presente le siepi?
Che altro!  C’è chi
starnutisce sinfonie celesti col
naso, ma ci sono lampadine
spente e bagliori fatui (Dal
tabaccaio ripeto, rubano
cartine fumando sigarette
curvi insieme sull’accendino,
come rupestri nella parete).



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 E. Reginato intervista A. Rojas Guardia


ARMANDO ROJAS GUARDIA,IL POETA VENEZUELANO

CHE SOGNAVA vivere a Genova 

 

Di Erika Reginato

 

“Muoiono i poeti ma non muore la poesia perché la poesia e infinita come la vita”, ricorda Aldo Palazzeschi. Loro rimangono nella nostra visione come scintille. Ricordo l’ultima intervista che ho fatto al poeta venezuelano Armando Rojas Guardia (1949-2020). È stato invitato, a Genova, città incantata dal mare della penisola italiana, nella 24essima edizione del Festival Internazionale di Poesia. Parole Spalancate.

 

Scrive il poeta Rojas Guardia:

  

Posto comune

oggi l’umile luccichio

così ovvio

Solo nel silenzio

scopro

che Suoni

 

 

Questi sono i versi che ho seguito nel mio percorso del viaggio dal Venezuela fino Italia. L’incontro con la poesia mi ha segnato: paesaggi dell’anima dove percorrevo le curve polverose della mia patria. La poesia è un luogo segreto che ci unisce al cosmo: la esperienza che tocca tutti i sensi, gli istanti della vita.

La mia esperienza poetica ha cominciato a Caracas. Erano gli anni in cui ci trovavamo nella Casa de la Poesia Pérez Bonalde che dirigeva il poeta Santos López, e che organizzava tutti gli anni la Settimana Internazionale della Poesia. Ho potuto conoscere rilevanti poeti venezuelani come il poeta Armando Rojas Guardia e italiani come i poeti Milo De Angelis, Roberto Mussapi, Davide Rondoni, Giuseppe Conte e Alessandro Ceni che sono stati ospite nello scenario poetico venezuelano. Dopo, nell’estero, ho seguito lo studio della poesia scritta in due lingue e la traduzione come poeta e anche come lettrice. La poesia venezuelana è un salvataggio, è la ricerca individuale che ci unisce alla poesia dell’esilio.

Dice il poeta Armando Rojas Guardia: “Questa è la sfida morale, l’armonia che si deve mantenere. Vivere poeticamente è vivere nella resistenza, e opporsi all’orrore e la barbarie che soffre il popolo venezuelano…”

Il poeta Armando Rojas Guardia è stato invitato nella 24essima edizione del Festival Internazionale della Poesia di Genova (2018), organizzato dal poeta Claudio Pozzani. Nel Palazzo Ducale, abbiamo avuto l’onore di sentirlo quando diceva a memoria la sua poesia “Patria”, insieme al poeta venezuelano José Pulido e la poetessa Hebes Munoz.

 

 

Erika Reginato: dice Maria Cvetaeva: quando scrivo poesie è come si qualcosa dentro me, vuole essere.

Quell’essere vuole chiedere al peta Rojas Guardia: come nasce l’uso della parola nel poeta? E Chi sono stati i suoi maestri?

Armando Rojas Guardia: Mio padre era un poeta. Il suo esempio è stato cruciale per la mia vocazione letteraria. Una zia mia, mia zia Albertina, abituava a raccontare che avendo io, solo 4 anni di età, un giorno mi domandai: Armando, quando sarai grande, sarai poeta? Ed io risposi: Non è che lo diventerò, e che io sono già un poeta. Questo capitolo della mia vita è inspiegabile senza l’ombra del benessere dell’esempio paterno.

ER: Penso che la poesia nasce come una esplosione. È la somma di silenzi e suoni. Che è la poesia per il poeta Rojas Guardia?

ARG: La poesia è pensiero analogico e simbolo strutturato ritmicamente. Quando è pensiero, un tipo-altro di pensiero, non è un semplice impulso irrazionale: è la percezione specifica della realtà. Di questo fatto, si rende conto il poeta.

ER: Le letture di poesie che percorriamo dall’inizio della nostra ricerca, sempre ci hanno lasciato delle tracce nel nostro lavoro creativo. Chi sono i suoi maestri?

ARG: Ho avuto diversi maestri: Dante, Eliot, Ezra Pound e in Venezuela il poeta Rafael Cadenas (1930, nominato al premio Nobel di Letteratura 2020), e mi porta ad avere curiosità, il tono alto della dizione e la versificazione pronunciata dal poeta venezuelano Eugenio Montejo (1938+2008).  

ER: Uno studente cerca nei suoi libri qualche sentimento in comune con lo scrittore, un sentimento di inquietudine in quel momento sconosciuto nel quale scopre la sua vocazione o la punteggia. Cosa li potrebbe dire un poeta maggiore a un giovane poeta?

ARG: A un giovane poeta li direbbe che insista nel compito di scrivere a malincuore, anche negli istanti duri e dubbiosi: tenacia e impegno, che si traduce in quella stancabile e paziente capacità di riscrivere e correggere il testo. 

ER: Questa è una città di mare, un porto di ancoraggio nella penisola italica, come ha scritto il poeta Giuseppe Ungaretti.

Di visita nel Festival Internazionale di Poesia. Parole spalancate.Come si sente un poeta venezuelano per le strade di questa città?

ARG: Credo che già mi stia innamorando di Genova. È una città per vivere in lei: meravigliosa, pulcra, piena da angoli bellissimi e straordinari. Non tutte le città che si conoscono meritano queste parole che adesso devo ripetere coscientemente: Genova è una città per vivere.

ER: Il nome del compositore di musica classica che ama?

E un musico del ventesimo secolo?

ARG: Il musico classico che mi piace di più è Jean Sebastian Bach e un musico del secolo XX, Joan Manuel Serrat.

ER: Che pittore del rinascimento li piace e che pittore contemporaneo preferisce?

ARG: Pittore italiano del rinascimento: Caravaggio e pittore contemporaneo: Joan Miró.

ER: E per finire, mi può dire la sua canzone preferita?

ARG: Una canzone della quale ho dimenticato il titolo però che mi commuove fino le lacrime quando la ascolto nella voce di Nina Simone: il suo leit-motiv, il suo ritornello consiste nella ripetizione, ovvia delle parole in inglese di queste parole: “Non ho…”

                                                  

Ain’t go no / I got life

Ain’t got no home, ain’t got no schoes, / Ain’t got no money, ain’t got no class,

Ain’t got no friends, ain’t got no schoolin’, / Ain’t got no wear, ain’t got no job,

Ain’t got no man… / I got my hair, i got my head …

I got my brais, I got my ears, / I got my eyes, I got my nose, /

I got my mouth, I got my smile…

 

Nina Simone finisce cantando la canzone con la stessa umiltà che ha rivelato il poeta, cantando nel silenzio dell’anima la libertà di non possedere nulla soltanto la esistenza e di conquistare la totalità dei suoi sensi nella parola seminata lungo il cammino che ha percorso.

 

 

 

 

 

Poesie de Armando Rojas Guardia

Traduzione: Erika Reginato

 

poesia DELL’ARRIVO

 

Quando arrivi

tu il vuoto il niente il già

quel che io non so il suo nome

non interessa

quando arrivi

mi sento perdere la voce

mi secco le parole

suono

semplicemente come te

senza lamento senza colpo

senza scricchioli

suono come te

 

Quando vieni

ho fretta

per dire

per chiamarti di qualche modo

per chiamarmi

anch’io

per riconoscermi finalmente

nella tua presenza

mi getto precipito

scuoto la quiete

macchio il pulito

tutto è un po’ vuoto un po’ goccia

inapprensibile

un po’esattamente niente

un po’silenzio

 

Quando tu arrivi

apro allargo stringo

mi dilato

non so cosa dire

se non che apro

inutili clausure

Tu nel canto

tu il fischio il fragile il senza peso

giri delicati fili

i miei nodi

slacci

 

Quando tu arrivi

niente dici

e mi dici

Niente chiedi

Quel che sarai tu l’implacabile

l’sterminatore, il Nemico

Niente chiedi

Sei

Solo ascolto come sei

solo ascolto come sono

e voglio

essere

cosi quello che ascolto

mi abbandono

 

 Quando tu arrivi

c’è una coincidenza esatta

ti guardo

nel profondo

di quello che desidero

che bugia

che impossibile

che stupido

volere quello che non vuoi

volere quello che non voglio

e allora

già non è altro che la pace

la precisa ubicazione

l’essere breve

 

Quando tu arrivi

non sei venuto

ormai sei da sempre

 

 

 

POEMA DE LA LLEGADA

 

Cuando tú vienes

tú el vacío el nada el ya.

el que yo no sé su nombre

ni interesa

cuando tu vienes

me siento perder voz

me seco de palabras

sueno

simplemente

como tú

sin queja sin golpe

sin crujidos

sueno como tú

Cuando tú vienes

tengo prisa

por decir

por llamarte de algún modo

por nombrarme

a mí también

para al fin reconocerme

en tu presencia

me abalanzo precipito

sacudo la quietud

mancho lo limpio

todo es tan vacío tan gota

inaprehensible

tan exactamente nada

tan silencio

 

Cuando tú vienes

abro ensancho acojo

me dilato

no sé decir

sino que abro

inútiles clausuras

Tú en el canto

tú el silbo el suave el que no pesas

vuelves hilos levísimos

mis nudos

me desatas

 

Cuando tú vienes

nada dices

y me dices

Nada pides

Qué vas a ser tú el implacable

el exterminador, el Enemigo

Nada pides

eres

Sólo oigo como eres

sólo oigo como soy

y quiero

ser

así eso que escucho

me abandono

 

Cuando tú vienes

hay una exacta coincidencia

te miro

en lo profundo

de aquello que deseo

qué mentira

qué imposible

qué estúpido

querer lo que no quieres

querer lo que no quiero

y entonces

ya no es sino la paz

la precisa ubicación

el ser escueto

 

Cuando tú vienes

no has venido

estás ya desde siempre

 

 ***

 

FONDO NERO

 

Limpida e fredda, la notte di dicembre

è la immagine perfetta della mia anima:

Caracas brucia fuori, indifferente,

nell’attimo che io sono un nulla

Leggerissimo

dove cadono galleggiando i minuti.

Non penso a niente adesso. E niente mi manca.

Nessun obbligo. Nessuna agenda

un po’ di questa grave quiete

per riempire di musica (Satie, forse)

e lenti sigaretti e silenzi

e il nero sogno della pace, vuoto.

 

 

FONDO NEGRO

 

Limpia y fría, la noche de diciembre

es la imagen perfecta de mi alma:

Caracas arde fuera, indiferente,

mientras yo soy un hueco

Livianísimo

donde caen flotando los minutos.

En nada pienso ahora. Y nada añoro.

Ninguna obligación. Ninguna agenda.

Apenas esta ingrávida quietud

para llenar de música (Satie, acaso)

y lentos cigarros y silencio

y el negro sueño de la paz y el vacío.

 

 

***

 

POESIA

 

 

Fatto di croste,

di immagine naufraghe,

convesse,

refrattarie come un vetro cieco.

 

Fatto solo di nebbia

e polvere.

 

Vanità opaca, ostacolando.

 

 

 

Poesía

 

Hecho de costras,

de imágenes náufragas,

convexas,

refractarias como un vidrio ciego.

 

Hecho solo de bruma

y polvareda.

 

Opaca vanidad, interponiéndose.

 

***

 

Plegaria Matutina

 

Que esta luz sea en verdad el principio

y esta ropa limpia la manera

de vestir, agasajándolo,

al huésped sagrado e indiscreto

que soy yo de mí mismo;

que mis zapatos sean los zuecos de Van Gogh

inaugurando una jornada

donde el sol se demore

y sea rotundo el pan sobre la mesa;

que la bocanada fértil del cigarro

-la primera del día, la inocente-

coseche a la postre un dibujo fragante:

la rosa de los vientos

parecida a ti, desnudo.

 

PREGHIERA DEL MATTINO

 

 

Che questa luce sia il vero principio

e questi vestiti puliti, la maniera di vestire,

divertendo

 all’ospite sacro e indiscreto

che sono io da me stesso

che le mie scarpe siano come i zoccoli di Van Gogh

spalancando la giornata

dove il sole si rallenta

e sia clamoroso il pane sopra il tavolo;

che la boccata fertile della sigaretta

-la prima del giorno, l’innocente-

Ho raccolto di qualsiasi maniera un disegno fragrante:

la rosa dei venti,

simile a te, nudo.

 

Armando Rojas Guardia, (Caracas, 8 settembre1949 - luglio 2020), filosofo, poeta, saggista. Il suo lavoro è stato riconosciuto internazionalmente. È stato tra i fondatori del gruppo letterario di Caracas “Traffico”, (1981). Tra i suoi libri pubblicati in Venezuela: Del mismo amor ardiendo (1979), Poemas de quebrada de la virgen (1985), Yo que supe de la vieja herida (1985), Hacia la noche viva (1989), La nada vigilante (1994), El esplendor y la espera (2000), Patria (2008), Mapa del desalojo (2014), (Antología poética, Armando Rojas Guardia, Monte Ávila Editores). Tra i suoi saggi: El Dios de la intemperie (1985), El calidoscopio de Hermes, (1989), Diario merideño (1992), Crónica de la memoria (1999), La otra locura (2017), El deseo y el infinito (diarios 2015-2017).  Ha pubblicato il suo racconto Proserpina (2015). Premio di poesia del Consiglio Nazionale di Cultura del Venezuela (1986) e Premio di Saggi della Biennale Mariano Picòn Salas (1997). In Italia sono stati tradotto e pubblicati alcuni delle sue poesie nell’Antologia bilingue: Poeti Uniti per il Venezuela, (de Lisette Fernandez, Erika Reginato. Poetas Unidos por Venezuela, selezione di poesia venezuelana,2019). Membro della Academia della Lingua spagnola, (2016-2020). La sua opera è stata tradotta a diverse lingue.

 

 

"C'è bufera dentro la madre", una nuova lettura di Giorgio Linguaglossa

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Sorprende piacevolmente ricevere una lettura di un proprio libro, dieci anni dopo la sua pubblicazione. Un grazie a Giorgio Linguaglossa.


C’è bufera dentro la madreè la storia di un perdersi dentro il linguaggio materno e di un ritrovarsi in un altro linguaggio che si è allontanato definitivamente da quel linguaggio. Il tuo linguaggio poetico si situa in questa distanza, in questa tensione tra un linguaggio trovato e uno allontanato, che si è irreversibilmente allontanato dall’alveo materno. In quanto il linguaggio poetico è sempre un non domato, un linguaggio di tracce semi cancellate che baluginano nella pre-coscienza, senza mai riuscire a venire completamente alla luce.

Tutto ciò che è, è tale in accordo a un preliminare orizzonte d’essere che lo dispone. Qui si pone l’attenzione però su una cosa fondamentale, che troppo spesso rischia di essere tra-lasciata, e cioè che questo orizzonte d’essere ha un punto di vista, così come un punto cieco, e mentre quindi riceve e dispone tutto ciò che è in accordo al suo senso, è a un tempo spalancato a partire da un qui, da un ci che ne fornisce l’orientazione. Questo ci dell’essere è appunto l’esserci. Ciò vuol dire innanzitutto che tale orizzonte, in quanto orientato, non è assoluto, ha un punto di vista che non può ricomprendere tutto ma che accoglie e rigetta, seleziona e dispone, proprio a partire da qui, dal ci che esso stesso è, e non da un astratto punto distante, neutrale e indifferente. Questo è il tema centrale della finitezza di cui ogni sviluppo metafisico dovrebbe farsi carico: ogni considerazione sull’essere in generale è già sempre posta a partire da una posizione ontica che ne determina in qualche modo l’orientazione, il suo carattere.

Qui alcune poesie.


Premio di poesia e prosa LORENZO MONTANO


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XXXIX^ Edizione del Concorso Nazionale di Poesia in lingua italiana

“Umbertide XXV Aprile” 2021


RISULTATO

 

Totale partecipanti n.134

La Giuria, composta da Anna Maria Farabbi (Presidente), Marco Bellini, Stefano Guglielmin, Costanza Lindi, Rita Pacilio, Elena Zuccaccia ha redatto la seguente graduatoria:

-   Autori premiati

 

SEZIONE A - Poesia Edita (Autori partecipanti n. 30)

 

1)    ANTONIO BUX, La diga ombra, Nottetempo, 2020

2)    MARCO BINI, New Jersey, Interno poesia, 2020

3)    LUCIA BRANDOLI, Anello di prova, Raffaelli Editore, 2016

 

SEZIONE B– Poesia Inedita (Autori partecipanti n. 104)

 

1)    SENESI MARCO (45)

2)    TODISCO GIUSEPPE (67)

3)    DELLA POSTA FERNANDO (9)

 

SEZIONE C - Poesia Inedita Giovani: (Autori partecipanti n.2)

Annullata per scarsa partecipazione – (I partecipanti sono stati inclusi nella Sezione B).

 

-   Autori segnalati:

 

SEZIONE A - Poesia Edita

 

- FRANCESCO SCARAMOZZINO, Case Matte,Transeuropa, 2020

- FERNANDO DELLA POSTA, Sembianze della Luce, Giuliano Ladolfi Editore, 2021

 

SEZIONE B– Poesia Inedita

 

- CONSOLI CARMELO

- LAUDACE EVA

- RESTELLI BEATRICE

- TAIOLI ANGELO

- ROSSI ELEONORA

 


Anterem Edizioni

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 Orgogliosi di esserci presi cura della poesia, siamo felici di comunicarvi che per il 2021 le spese postali saranno a nostro carico. Aspettiamo i vostri ordini!

I libri pubblicati quest'anno sono i seguenti:
✨Figure semplici” di Anna Chiara Peduzzi (raccolta vincitrice del Montano 2020) prefazione di Giorgio Bonacini;
✨Liturgia dell’acqua” di Daìta Martinez (raccolta finalista al Montano 2020) prefazione di Maria Grazia Calandrone;
✨Herbarium Magicum” di Bianca Battilocchi (raccolta finalista al Montano 2020).
Freschi di stampa:
✨"La dimora del ritorno" di Sofia Demetrula Rosati (raccolta finalista al Montano 2019) prefazione di Giuseppe Martella;
✨"Afasia" di Silvia Comoglio (postfazione di Elio Grasso).
✨E non dimenticate il n.100 di Anterem
Le modalità per ordinare i libri e le modalità di pagamento sono le seguenti:
• con bonifico bancario intestato all’Associazione Anterem
• codice IBAN: IT54H0503411750000000165753 – codex BIC per l’estero: BAPPIT21001;
• sul c.c. postale 10583375 intestato all’Associazione Anterem, via Cantore 1, 37121 Verona;
• tramite il pulsante WhatsApp presente nella pagina facebook Anterem Edizioni.
Oppure, scrivere a premio.montano@anteremedizioni.it o a ranieri.teti@anteremedizioni.it


Franca Alaimo su Silvia Comoglio

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Afasiadi Silvia Comoglio, Anterem Edizioni, 2021

 

            La ragione della scrittura di Silvia Comoglio trova il suo enunciato nei versi che introducono la sezione “Afasia” (che dà il titolo al libro): “che salpi dalla bocca il lungo – / stato di paura, vibrato, in bella lontananza, / a stupenda maschera d'insieme”, in cui si progetta una parola, che, interponendo tra sé e il sentimento della paura di fronte al mondo reale(a cui l'autrice contrappone un “Antimondo” – titolo della seconda sezione – sia come altra dimensione spaziale che logico-verbale), la distanza dell'elaborazione letteraria e la veste della bellezza sonora, disegni una “stupenda maschera”, recuperando, come suggerisce l'aggettivo, l'attitudine infantile dello stupore.

            Di fatto, sezione dopo sezione, è possibile individuare, sempre attraverso i versi  che le introducono, lo sviluppo di questo itinerario emotivo e mentale già così compiutamente programmato: dal dissolvimento della paura grazie ad un delirio di bocche in un viottolo nell'orto –  e  qui  ci viene in aiuto l'etimo latino del verbo delirare come uscire fuori dal solco – scegliendo un rifugio privato nel silenzio della natura; all'í-narcarsi ad amen / di questa stessa bocca rotante a gi-rasole della terza sezione, in cui finalmente si pronuncia il proprio assenso – come sempre fa il girasole che segue la luce dell'astro diurno – ad una nuova dimensione di chiaroveggenza,in cui ha inizio il rapporto con la dimensione sacra del creato.        

            L'approdo è, di conseguenza, la “Luminescenza” titolo della quarta ed ultima sezione che ha come versi introduttivi: múrami labocca di lumi liquidi di cielo, / incontrati di notte per ventura, dove la materia sembra dissolversi  nel puro silenzio, lucente d'astri, della contemplazione notturna.

            Né mi sembra un caso che le sezioni del libro siano quattro, tante quanti gli elementi fondanti della vita: la terra (prima sezione); l'aria (la seconda); l'acqua (la terza); e il fuoco (quarta):  la figura che le cuce insieme è quella dell'albero, simbolo dell'uomo stesso, nel suo stare tra l'alto e il basso; asse del mondo intorno a cui ruota, secondo antiche leggende cosmogoniche, l'universo tutto, non senza un richiamo al mistero cristico della croce, rappresentazione della vita generantesi dalla morte, tempo ciclico della natura, alla quale la Comoglio sembra accostarsi con una primigenia felicità oculare ed un linguaggio inusuale, nutrito di un ricco bagaglio di letture, specie delle scritture mistiche e delle favole di ogni tempo, che, del resto sono intimamente legate, come ci ricorda Cristina Campo, quando scrive che non si può non esigere dall'eroe di fiaba una perfettamente ascetica disposizione dell'animo: egli dovrà dimenticare tutti i suoi limiti nel misurarsi con l'impossibile, vigilare senza riposo su quei limiti nell'attuarlo, se è vero che Bellezza e paura, politragici della fiaba, sono i suoi termini, insieme di contraddizione e conciliazione, e infatti, se torniamo ai versi d'introduzione in “Afasia”, paura e bellezza appaiono già coniugate insieme.

            La contemplazione che trasforma il mondo, come suggerisce l'etimo, in tempio sacro, esalta il Silenzio del Verbo fondante, e il dire in pregare; angeli e bambini fanno la loro comparsa, a ricordarci il miracolo dell'esistenza: il mondo appena nato, sul palmo della mano, a cu-/spide di sguardo unico di amore, come nelle figure dei santi che sostengono sul palmo città turrite o ritratti di Bambinelli con il pianeta trattenuto tra le dita infantili.

            Alla finedi questo percorso c'è il Paradiso, il giardino della gioia innocente, prima della caduta a picco, prima della paura. C'è, infine, la santità del non possedere nulla, a cui allude quel pesce d'oro, / senza lisca e senza spine – e senza nulla, nulla, tenere al mondo, che chiude la quarta sezione e che si ispira ad una favola di Grimm, poi ripresa da Pushkin.

            È in quel senza tenere nulla che si dissolve la gravità; che ogni cosa perde il suo peso e si fa parte del Tutto e si può scorgere l'angelo sul mare interrando – / le ombre delle stelle in alberi che sono / neri -fiori- e incanti.

 

Franca Alaimo

Elizabeth Schön (di Erika Reginato)

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Elizabeth Schön: la luce della poesia venezuelana.

Erika Reginato

 

Ogni uomo richiede quello che è infinitamente inesauribili.

Dal vecchio contadino (1983), Elizabeth Schön

 

Lo scrittore Gustave Flaubert scrisse nella sua corrispondenza: “La poesia è precisa come la geometria”. Si referiva all’esattezza della parola nello spazio appropriato.

Scrivere su la poetessa Elizabeth Schön (Caracas, 1921-2007), è un compito interminabile. Premio Nazionale di Poesia 1994 e Premio Comunale di Poesia (1971), è stata la poetessa onorata alla X Settimana Internazionale della Poesia (2005), organizzata dalla Casa Pérez Bonalde di Caracas. Poeta che ricordo nel centenario della sua nascita, nella fotografia del suo angolo prezioso nella sua casa nel quartiere Los Rosales. L'importanza della sua poesia ha attraversato la storia della letteratura venezuelana del XX secolo. È stata la prima poetessa venezuelana a scrivere poesia in prosa nella scoperta del modernismo insieme al maestro J. Antonio Ramos Sucre.

La poetessa scrisse temi legati ai valori umani, alla filosofia e all'interiorità, tra i cambiamenti del linguaggio nella geografia di un paese in continuo movimento.

Nella sua opera poetica, irrompe il verso, la linea e il punto che sostiene la parola. La sua poetica è la continua ricerca della immagine come nel libro “La cisterna insondabile”, (1971), dove i versi si concentrano sullo sfiorare del vento e si riversa nella terra del tropico: La parola/piccola nuvola, /piccola varca /percorre gli estremi /del cielo e della terra/portando con sé /quella prima e unica offerta /quella da dove sono nati /astro / erba /palpebra sole…

E sotto il cielo venezuelano, segue lo stupore e nel mare scrive nel libro “Il nonno, la cesta e il mare” (1965):

Una notte che pioveva forte, e li ho chiesto: Che era il silenzio? Per rispondere, aspetto che finisse lo strepito di un tuono, ma nel preciso attimo che comincio a parlare, un altro lampo splende e il tuono esplose (…), e non ho saputo quello che aveva detto…

Nello spazio bianco e nella dimensione immensa della carta, il verso è concepito nell'universo di Elizabeth Schön: l'inizio del sogno non finisce nella realtà del linguaggio che ci parla dall'orizzonte. La notte è l'ultimo splendore dove la pietra si arrotonda e prende la forma della punta, si riempie di silenzio e quella punta è una pietra. La parola è minerale. È unità, un insieme di suoni che sono inseparabile nell'armonia della parola poetica.

Senza poter separare questa unità, che è un esercizio poetico, il principio che coltiva la poetessa Schön nel suo giardino e nello spazio, evoca il bisogno che ha il punto del silenzio e del suono di ogni lettera che si materializza:

Il punto graffia

Su

la consolazione è blu

Il punto spinge

entra nell'orizzonte vergine

fino a essere doppio

Si accetta anche doppio.

 

Dal primo puro istante

dal tempo delle tenebre.

 

In Elizabeth Schön, la poesia è un lampo nel silenzio che comincia a manifestarsi nell'abisso creativo, cioè da quel nulla che è completamente riempito: I punti /sulle quiete vette dell'abisso (...)

Il sole

Acqua

La brezza

gli uomini

Un punto

Un altro punto

e un altro punto

anche, chi non arriva.

 

(Aún el que no llega, 1993)

 

 

 

Quel battito del sangue

senza altra vicinanza che il vento.

Quella faccia contro gli spazi

defogliando serenamente

verso l’interno

dove l’impronta non cede,

della sua indistruttibile

rassegnazione.

La pietra permane

così il fragile si sostiene.

       

(Ropaje de ceniza, 1993)

 

Cammina con lo

sguardo attento,

possedendo la densità

del mondo,

l'intimità del fogliame.

In ogni occhio,

in ogni penombra,

ciò che desideriamo

viene versato.

Perché la luce non è mai un’altra

né l’oscurità è diversa.

 

(Antologia poetica)

 

E mai l’altro fiore

 

Parliamo d’amore

e ci affoga

la bianchezza dell'esatto.

Così la finestra del fiore

irraggiungibile.

Alla barca non si richiama

arriva a terra

senza nessun faro che illumini.

 

 (La flor, el barco, el alma, 1995)

 

Che sarebbe la poesia?...

è una stella…ogni volta che il

poeta è trapassato da lei,

prende la penna e trova la carta

dove abbandonare il suo pensiero…

il suo pensiero sembra

lo splendore di una stella…

non è mai opaco per la vita…

sempre, come la pietra con la quale inciampammo

il foco è la luce che si opaca e stringe l’ave  

e continua a essere stella.

 

(Visiones extraordinarias, 2006)

 

 

 

 

Traduzione Erika Reginato

 


Elizabeth Schön, (Caracas, 30-11-1921- 15-05-2007). Poeta, scrittrice di saggi e teatro. Alcune delle sue poesie sono state raccolte nella Antologia Poetica  1963-1995 (Monte Ávila editores latinoamericana) e altri libri in spagnolo:  La gruta venidera ( La grotta futura, 1953), En el allá disparado ( Oltre lo scaricato, 1962), El abuelo, la cesta y el mar (Il nonno, la cesta e il mare, 1965 e 2004), Incesante aparecer ( Incesante apparire, 1977), La cisterna insondable (La cisterna insondabile, 1971), Mi aroma (Il mio aroma, 1971), Casi un país (Quasi un poese, 1972), Es oír la vertiente ( Ascoltare il ruscello, 1973), Del antiguo labrador ( Dal vecchio contadino, 1983), Concavidad de horizontes (Concavo orizzonte, 1986), Ropaje de cenizas (Vestiti di cenere, 1993), Aún el que no llega (Anche, chi non arriva, 1993), La espada (1998), Árbol del oscuro acercamiento (Albero dell’oscuro avvicinamento, 1992), Campo de resurrección (Campo di resurrezione, 1994), La flor, el barco, el alma (Il fiore, la barca, l’anima,edit. La diosa blanca,1995), Del río hondo (Dal fiume profondo,2000). Ráfagas del establo (Lampi dalla stalla, 2002), Las coronas secretas de los cielos (Le corolle segreti del cielo, 2004), Visiones extraordinarias (Immagini estraordinarie, 2006), Luz oval (Luce ovale, 2007), il saggio La granja bella (La fattoria bella, 2003).

 

Isabella Bignozzi su "Misura del sonno" di Federico Federici

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Emissioni sulla soglia: a proposito di Misura del sonno, di Federico Federici


«L’écriture est une sorte d’usine. L’univers est sa première et dernière demeure. L’atmosphère contemporaine de la Terre renferme une grande quantité de molécules et de mots».

 

Così afferma Federico Federici, fisico, artista concettuale e poeta visivo, in Biophysique Asémique (LN, 2021), testo cui affida alcune riflessioni sul linguaggio come entità spaziale: dotato di insorgenza spontanea, vorticante in unità subatomiche autogenerantisi, il codice di comunicazione tra le creature è anche ineluttabilmente determinato da precise sequenze genotipiche che, abitando l’oscurità, custodiscono memoria del vivente, e codificano per la parola. Tali temi, resi in forma lirica, espansi mediante la composizione parallela in più idiomi, concretizzati in iconografie multisensoriali sono alla base di Misura del sonno, magnifica opera poetica e verbo-visiva edita da Anterem nella collana Nuova Limina.

In questo lavoro sorprendente, focalizzato sugli aditi a hypnos, il poeta riesce ad accendere nel lettore sentori intimissimi, che attingono a recessi dell’attività cerebrale normalmente non esposti all’indagine razionale. La forma di tale speculazione, dovendosi fare strumento di segnali che si autoproducono nella materia, è essa stessa elevata al di sopra dei canoni consueti della descrizione o del ragionamento, e utilizza invece pratiche familiari all’autore, come la scrittura asemica e la poesia visiva. In questi ambiti si prescinde dai significati dichiarati e convenzionali dell’armamentario lessicale, per utilizzarne l’aspetto grafico variamente lavorato, le risonanze sonore, le traslazioni in lemmi con guaina semiotica affine; facendo forse più riferimento alle suggestioni etimologiche, risalendo il corso fluviale del linguaggio fino alle radici della sillabazione primigenia, laddove le fonti dell’emanazione verbale erano profondamente congiunte all’espressione aurorale dell’essere.

Posto che alla base della materia, dilatata in osservazione microscopica o, ancor più, nell’elaborazione di modelli fisico-matematici di esistenza, la massa, nelle sue parti infinitesime, può sfumare, a livello immaginativo, in realtà onirico spirituali, allora dove sarà possibile, si chiede il poeta, identificare un confine di transizione, registrandone le derivazioni? Corpo-anima, veglia-sonno, parola-silenzio, emissione-quiete sono luoghi di frontiera, prossimi alla notte del pensiero. Ma se c’è un limen in cui la materia diviene spirito, allora può esservi altresì un eremo in cui il pensato è già figura: la concrete poetryè creazione verbo-visiva che scioglie i vincoli, e porge al lettore epifanie d’inchiostro: è segnale conoscitivo e percettivo insieme.

Nelle sue tavole Federici accosta scritture meccanizzate o calligrafiche a tracciati geometrici ripetuti o simboli ideografici, evocando la sensazione che la poesia visuale, grazie alla mediazione dell’artista, si autodefinisca sul foglio, secondo principi di casualità che, destrutturando l’enunciato, riproducono più fedelmente gli intendimenti liminari: ponendo in risonanza grafica la presenza atmosferica di elementi sonori e concettuali che gravitano nell’ambiente fisico come pulviscolo evolutivo, insieme a particelle, onde, molecole. In Biophysique Asémique l’autore afferma la presenza pervasiva di frammenti di linguaggio nell’ecosistema, aventi qualità proprie della materia e rispondenti all’andamento evolutivo dell’universo. Interessante a tale proposito è come anche il sonno-sogno, prodotto creativo dello stato fisiologico di assenza di veglia, abbia, secondo alcune teorie, nella sua genesi neurale, caratteristiche molto simili. C’è dunque analogia, in quest’opera, tra la forma artistica cercata, e la natura biologica del fenomeno stesso preso a oggetto: l’evento onirico, che si solleva da una concitazione elettrica basale, autoindotta in alcune parti dell’encefalo, e in particolare nel sonno di fase rem: «Notte – / un cardiogramma le onde / di balena addormentata».

Tale attività intrinseca cerebrale, simile a un evento meteorologico, è indicata da alcune teorie neuroscientifiche come preminente, al di là della storia personale e affettiva dell’individuo, nella creazione del sogno. Nello specifico, l’attivazione di alcune aree profonde, come tegmento pontino, talamo e amigdala, solleciterebbe il cervello dall’interno andando incontro a uno stato di autoattivazione neurale che, proiettandosi su prosencefalo e sistema limbico, verrebbe elaborato in contenuti onirici mediante funzioni quali recupero della memoria, costruzione della trama del sogno, assetto spaziale e partecipazione emozionale al vissuto: «Dagli angoli disabitati, viene / colui che ti accompagna mormorando / e che confonde le parole / come chi, parlando, / ne trattiene il chiarore. / Nei vuoti di memoria / non smette di frusciare / un bosco di betulle. / È là che si nasconde / quando ti sorveglia attentamente. / Protetto dal sonno / ti si para sempre / davanti alle palpebre serrate, / guida attraverso i venti d’autunno».

La forza primaria fisiologica che produce l’immaginato onirico è identificabile, originariamente, in un’operosità neurale pontina, determinata genotipicamente; in particolare durante il sonno Rem, per la presenza di una responsività corticale rapida, vi è una maggiore disponibilità all’attività cognitiva e all’organizzazione linguistica delle icone ricevute in sogno, poiché è massima l’efficacia dell’encefalo nell’elaborare i dati fenotipici derivati dall’esperienza in modo aderente alla matrice genotipica. Così la vibrazione spontanea delle presenze ambientali genererebbe una fraseologia, che è necessario per il poeta raccogliere e ripristinare sulla carta, quanto più è possibile: «Parola in una bocca buia / nido nella tenebra di un ramo / che si fa albero, bosco, / montagna, mondo».

In generale, il messaggio multiforme che Federici propone nei suoi lavori non è mai univocamente interpretabile, perché proveniente a volte da moduli danneggiati – si pensi all’opera Transcripts from demagnetized tapes– o da lingue sconosciute (Aprivate notebook of winds), o dimenticate (L’opera racchiusa), il cui alfabeto è dato da vibrazioni presenti al paesaggio, non decodificabili attraverso le strutture della ragione. Un’ontologia fenomenologica, un accudire ciò che si eleva dalle «fessure» che aprono «un varco» sull’eterno, un restituire l’annuncio come esso si mostra ed emerge, adottando un avvisare ripensato in modo decostruttivo, come forse possibile evoluzione creativa anche delle meditazioni derridiane. La poiesis si rende ora esperibile dai sensi, e lo fa tramite una scrittura che a tratti si emancipa dal ruolo di significante, per effondere tremiti e ronzii di cui il poeta si fa ripetitore, e che si addensano in quei luoghi-soglia tra il conosciuto e l’inesplorato – «il varco di Tiresia» – tra l’essere e il non-essere: «Sono chiuse le pietre / l’invisibile impenetrabile. / Sentiero di pietra nel buio, / l’inconcepibile».

Nel venire alla luce dell’oggetto, o del pensiero, o nel suo ritornare in anfratti amniotici di buia immobilità, intrisi di non-espressione o di non-esistenza, l’emanazione di messaggi luminosi, sonori, energetici sulla riva dell’intuizione si mostra come un avamposto sottilissimo di ricerca: l’uomo che indaga sé stesso e il cosmo laddove svanisce ogni avviso fenomenologico, e si disarticola il reticolo spaziotemporale, a favore di una risonante assenza: «Sbocciano / gli occhi dal sonno / gemme dopo il temporale / domande / alla soglia dello spirito / dove attecchisce il mondo».

Il poeta accenna e amplifica, si lascia attraversare dalle ondulazioni delle più segrete e sterminate concavità, dove l’intelletto fluttua disciolto nell’incoscienza, immemore di sé stesso: «Prendine nota: / reali il vuoto e / il vento / pulviscolare / che attira la luce / nella fessura. // Vorticano astratte / miniature di astri / insetti / spiriti / e universi ventosi / agli angoli delle stanze».

Forse proprio a sottolineare il valore allusivo intrinseco del segno grafico e del suono, precedente il valore concettuale che lo appesantisce e lo aggrega in linguaggio strutturato, l’autore affida inoltre la sua locuzione artistica a diversi idiomi (inglese, tedesco, francese, oltre all’italiano), che, a suo dire, oscillano in efficacia parziale intorno all’asse della resa perfetta, senza raggiungerla mai; si genera un profluvio espressivo, da ricevere con facoltà uditive, visive e razionali, per esperirne l’annuncio sonoro, iconografico e semantico insieme.

Della primigenia pulsione alla comunicazione, la scrittura è la dimensione principe in cui ogni sostanza si commuta in notizia, a ragguaglio dell’interrelazione stratificata tra gli elementi: impensabile l’interpretazione capillare, il decriptare univoco con la sola umana logica. Non un nichilismo del comprendere, piuttosto una postura di relazione al complesso, un rispetto dell’autenticità del narrato, in cui è il poeta a farsi mediatore, in una tensione mai esaudita al non influire, non modificare, essendo esso stesso in irrimediabile esistenza, percezione, trasmissione: «Di chi le palpebre / sbattono e sbattono / sopra soglie di luce? // Di chi più profonde / ferite, le porte / che sempre di più / sbarrano il passo? // Un leggero morire / accarezza la cosa pensata».

Il trascendente meditato, che l’uomo cerca di applicare al reale, sembra dire Federici, corre il rischio della forzatura, e impedisce l’accesso alla metafisica vera, che si genera costantemente nell’oscurità retrostante la materia: «Ciò che non si afferra / dà corpo al vuoto / finché resta solo / movimento senza traccia». Ogni ampiezza, da quella macroscopica delle foglie percorse dal vento nel bosco, a quella cellulare, finanche alla subatomica o elettromagnetica, emette informazioni a livello biochimico e biofisico, movimenti, fremiti, corpuscoli, onde sonore, fasci luminosi, catene polipeptidiche, in un continuo movimento che oscilla tra quiete e caos, tra assenza e presenza, tra silenzio e asserzione.

Se l’intervento ermeneutico tende a flettere i significati secondo i paradigmi mentali di homo sapiens– creatura eretta, condannata all’autocoscienza, che non può non interferire con i contenuti puri, silenziandone alcuni aspetti, deformandone altri, soverchiando alcune grandezze – la ricerca verbo-visiva e la poesia asemica sono un tentativo di destrutturazione governata, nell’intento del poeta-artista di farsi trasparente all’eterna trasmissione, alla vibrazione perpetua: «Si addensa il silenzio all’orecchio / del mondo che si dichiara udibile / mondo indistricabile / delle cose mai dimostrate, taciute».

Laura Caccia, accompagnando l’opera con parole avvedute, sensibili, cita Paul Celan; ed è a una riflessione attenta che appare disvelato quanto i piani di attinenza siano molteplici; il primo e più immediato è la lingua tedesca, che è uno dei codici che l’autore ha scelto qui, per il suo dire: dunque i termini, le sonorità teutoniche, echeggiano come affinità tra i due poeti; ma c’è in comune molto di più: a partire dal cognome di Paul, che s’agglutina nei suoi fonemi definitivi dopo esser stato anagrammato e ancor prima trasfigurato attraverso gli idiomi ebraico, yiddish e rumeno; lui stesso poeta migrante attraverso nazioni e repertori linguistici, sospinto da vicende umane dolorose.

E ancora, Paul Celan poeta guardiano; anch’egli sulla soglia, custode della memoria, a esprimere l’indicibile; avendo cura di ciò che emerge da una notte «messa alla catena / tra oro e oblio», con «parola sorvolata dagli astri, / sommersa dai mari». Il parallelo tra sonno e memoria è evidente: due sponde appaiate, nella vastità, nebulosità, difficoltà esegetica di ciò che le abita, lambite dal rischio d’amnesia, localizzate in quello stesso brulicante vuoto che, per la memoria, è centro al cerchio della storia, per il sonno è centro al cerchio della coscienza.

E infine Celan poeta arcano e fluttuante, che fa del suo canto una sponda accidentata e voluttuosa, in cui significati plurimi, intrecciati e sovrapposti nel torrente sensitivo, convocano un’intensa risposta emozionale a completamento di quella logico-deduttiva. Anche in Celan la comprensione piena è sempre lontanissima, ma calandosi nelle profondità del testo si è inebriati dai diversi livelli di possibilità interpretativa, o anche solo dalla pura evocazione cromatica o acustica: «Nel mare è maturata la bocca / le cui parole qui la sera ridice / al cospetto dei suoi paesi. / Mormorando essa la ridice / con labbra rosse di tempo».

La parola, anche in Celan, insorge dalla natura: «ciò che albeggiando vuol crescere / insieme ai giorni»; detiene traccia della ferita dell’accaduto, e risorge a testimonianza, laddove la poesia si presta come territorio di ricezione e restituzione, flusso intuitivo ed elaborativo: come le aree encefaliche corticali, che ricevono e hanno cura del messaggio che proviene da ambiti sommersi, celati ma non sopiti, così il poeta-artista ha cura dell’avviso, con lealtà: «Guarda, le nostre labbra si fanno turgide, / anch’esse rosse di tempo come la sera, / mormoranti anch’esse – / e la bocca sorta dal mare / già emerge / al bacio infinito».

Nelle parole radicate di Federici, nel verso breve ma saldo, e nelle sue impronte verbo-visive, l’evocazione è potentissima: a volte una parola scivola nell’altra per assonanza, o somiglianza del tratto, prescindendo dal carattere semantico dell’oggetto: un portato poetico sensoriale, offerto a un visitatore che s’invita a essere percettivo, e non puramente o segnatamente intellettivo.

La parola, non solo nelle tavole, ma anche nei versi, sembra rapprendere per elettroforesi, aggregandosi in fraseggi e significati – spesso frantumabili o riassemblabili – che sono lo specchio e l’emanazione di un cifrario genetico; sequenza primordiale ma ardente, che continuamente si riconfigura, proiettando dal buio dei secoli il vissuto del creato, la sua reminiscenza spirituale e biofisica, insieme. Il codice asemico, in quest’ottica, è l’unico che può tentare di captare il senso energetico e molecolare che trema nel cosmo, e la parola si spoglia fino alla propria struttura primaria, diviene pura trascrizione del conio desossiribonucleico che l’ha generata.

È così, mediante questo linguaggio disciolto nell’universo, che il poeta propone un modello di relazione cognitiva tra il soggetto come entità fisica e i corpi che, nel reale, lo circondano, sul margine dell’antro del sonno.

In Appunti dal passo del lupo (KDP, 2019), Federici scriveva: «Hai portato il cuore dentro il bosco, un uccello in gabbia, frastornato dalla grazia dei fruscii e dai gridi in volo tra i rami, pieni del dolore della libertà. ora ha il peso del silenzio la parola – soffio di una fiamma, sola nel suo inferno; sbarra a cui si lega l’ala // giunti alla fine, il passo calpesta l’ultima foglia e non entra in un altro paesaggio. l’aria intorno al silenzio rallenta. giunti sul punto, al seme del mondo».

Il contatto tra armatura intellettiva e libera rivelazione va in conflitto, ma l’arte può indicare l’intonazione del trasmettere e del percepire, la via a quell’interminato rovescio del mondo, che è sorgente e origine di ogni cosa.

 

Federico Federici, da Misura del sonno, Anterem Edizioni, Nuova Limina, 2021

 

Ha piovuto e piove.

Piovere non cancella le tracce.

 

La pioggia forza i fiori

che il fiato non schiude.

 

Luce su palpebra

– dove s’illumina come pioggia.

 

Pioggia su bocca

– dove si agita come parole.

 

L’intera realtà

– una parola annegata.

 

 

Es hat geregnet und es regnet.

Das Regnen tilgt die Spur nicht.

 

Der Regen reißt an den Blüten,

die der Hauch nicht öffnet.

 

Licht auf dem Lid

– wo es sich wie der Regen erhellt.

 

Regen auf dem Mund

– wo es sich wie die Wörter regt.

 

Die gesamte Wirklichkeit

– ein ertrunkenes Wort

 

***

 

Gli sforzi della luce

sulla forma perfetta dell’occhio

e del regolo nero del sonno.

 

La luce si affaccia alla gemma

e la forza ad aprirsi, a soffrire

senza molte altre qualità

 

una forza e un impedimento

a formarsi in un’altra maniera

secondo il tempo infinito di una foglia.

 

 

Les efforts de la lumière

sur la forme parfaite de l’œil

et de la règle noire du sommeil.

 

La lumière se présente face à l’œil

et la force à s’ouvrir, à souffrir

sans beaucoup d’autres qualités

 

une force et une impossibilité

de se former d’une autre manière

selon le temps infini d’une feuille.

 

***

 

Un respiro profondo.

Si tace.

Nessuno

scolpito

in questo silenzio.

 

Il filo del sonno

cuce cicatrici di luce.

 

 

Man atmet auf.

Man schweigt.

Niemand ist

aus dieser Stille

geschnitzt.

 

Der Faden des Schlafes

näht Narben des Lichts.

 

***

 

Nel fiato del sonno

oltre la soglia segreta

l’anima soffre

unica sillaba dell’intelletto

soffiata attraverso atrii ventosi.

 

Non la metà

né l’intero.

 

 

Im Hauch des Schlafes,

jenseits der geheimen Schwelle,

leidet die Seele,

die einzige Silbe des Geistes,

weht durch windige Hallen.

 

Nicht die Hälfte,

nicht das Ganze.

 

*

 

Esodo dal sonno terrestre:

fracasso di ferraglia

sotto i riflettori.

 

Sibila dalle narici

una cosa la cui lingua

trema sui binari

prima di forare

l’occhio vuoto del tunnel.

 

Frastuono del marchingegno onirico:

sordo rimbombo di parola

su cui cade ombra il pensiero.

 

 

Exodus aus dem Erdschlaf:

blecherner Lärm

im Scheinwerferlicht.

 

Aus seinen Nüstern pfeift

etwas, dessen Zunge

auf dem Gleisbett zittert,

bevor es das leere Auge

des Tunnels durchbricht.

 

Lärm der Traummaschinerie:

so rau dröhnt das Wort auf das

ein Gedankenschatten fällt.

 

***

 

Giorno d’inverno. Rabbuia.

 

Sotto le palpebre a un morto

becca una folaga

occhi

ancora celesti.

 

La cosa pensata

ben salda

al cervello.

                                     (Il cielo.)

Lo spirito

all’orlo del

cranio.

 

 

Wintertag. Es Dämmert.

 

Unter den Lidern eines Toten,

pickt ein Wasserhuhn

zwei Augen auf,

die noch hellblau sind.

 

Gedachtes

hängt fest

in Hirn.

                                     (Der Himmel.)

Der Geist,

am Rande des

Schädels.


Bando del Premio di poesia e prosa LORENZO MONTANO XXXVI edizione

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ANTEREM

RIVISTA DI RICERCA LETTERARIA

ASSOCIAZIONE DI PROMOZIONE SOCIALE SENZA FINI DI LUCRO

 

  

 

Premio di poesia e prosa

Lorenzo Montano

 

t r e n t a s e i e s i m a   e d i z i o n e

 

Il Premio è dedicato a Lorenzo Montano

(Verona 1895 – Glion-sur-Montreux 1958), poeta, narratore, critico;

tra i fondatori di una delle più importanti riviste

del primo Novecento, “La Ronda”

 

 

Il Premio è articolato in quattro sezioni: 

Raccolta inedita

Opera edita

Una poesia inedita

Prosa inedita

 

 

Presidente onorario

Flavio Ermini

  

Giuria del Premio 

Giorgio Bonacini, Laura Caccia, Mara Cini, Silvia Comoglio,

Stefano Guglielmin, Maria Grazia Insinga, Ranieri Teti

 

PREMIO «RACCOLTA INEDITA»

 

È la sezione storica del “Montano”, quella su cui si è fondato nel 1986.

Al Premio si concorre con una raccolta inedita di poesie, non inferiore a 20 e non superiore a 50 pagine di testo, considerando che il formato del volume sarà 21x15.

L’opera vincitrice sarà pubblicata da Anterem Edizioni, nella collana “La ricerca letteraria”.

La raccolta sarà introdotta da una riflessione critica. Potrà contenere immagini in bianco e nero.

Il volume verrà presentato nel sito di “Anterem” e nelle correlate pagine social; sarà inviato a quotidiani, riviste, critici, storici della letteratura e siti Web. All’autore saranno destinate 10 copie.

Le raccolte menzionate, segnalate, finaliste e quella vincitrice saranno designate dalla Giuria del Premio. Altre raccolte inedite, tra le finaliste, saranno considerate per la pubblicazione nella collana “Nuova Limina” di Anterem Edizioni, come avviene già dal 2020.

 


PREMIO «OPERA EDITA»

 

Inaugurato nel 1996, si rivolge al panorama editoriale contemporaneo.

Al Premio si concorre con un volume di scritture poetiche pubblicato dopo il 1° gennaio 2019.

Al vincitore sarà attribuito un premio in denaro.

I libri menzionati, segnalati, finalisti e quello vincitore saranno designati dalla Giuria del Premio.

 

 

PREMIO «UNA POESIA INEDITA»

 

Dal 2000 condivide illuminazioni, momenti unici.

Al Premio si concorre inviando una poesia inedita, non superiore a 50 versi, che costituisca per l’autore un momento privilegiato della sua ricerca poetica: un testo che proprio nell’unicità trovi la sua ragione.

Al vincitore sarà attribuito un premio in denaro.

Le poesie menzionate, segnalate, finaliste e quella vincitrice saranno designate dalla Giuria del Premio, coadiuvata da una Giuria critica composta dai finalisti di questa sezione e da tutti i vincitori al precedente “Montano”.

 

 

PREMIO «PROSA INEDITA»

 

Presente dal 2010, versatile e aperto a varie forme, comprese interazioni tra lineare e visivo.

Al Premio si concorre inviando un’opera breve e inedita in prosa, unica o costituita da una serie di parti autonome (considerando prose poetiche, narrazioni, atti teatrali, radiodrammi, testi in ricerca, anche di una libera interazione fra diverse forme espressive riproducibili su carta in bianco e nero).

Caratteristica di questo premio, nell’ambito della scrittura creativa, è una grande libertà stilistica. L’opera potrà essere compresa tra 14000 battute (7 cartelle) e 30000 battute (15 cartelle, inclusive di eventuali immagini).  

La prosa vincitrice sarà pubblicata nella nuova collana, “Piccola Biblioteca Anterem”, delle omonime edizioni.

Le opere menzionate, segnalate, finaliste e la vincitrice saranno designate dalla Giuria del Premio.

 

 

PER LE SEZIONI INEDITE

 

Vengono considerate come inedite poesie e prose pubblicate in rete (siti, blog, social, pagine personali) o in luoghi senza codice a barre. Per la sezione “Raccolta inedita”, singoli testi ivi compresi possono essere stati pubblicati in antologie, riviste o in rete.

 

 

PER TUTTE LE SEZIONI

 

I vincitori degli anni precedenti possono concorrere liberamente, ma non nella sezione in cui sono stati premiati, fatta eccezione per “Raccolta inedita” e “Prosa inedita” (vedi subito sotto).

Per le opere scritte in altra lingua, anche in dialetto, è necessaria la traduzione in italiano.

 

 

PER GLI EX VINCITORI DELLA SEZIONE “RACCOLTA INEDITA”

E PER GLI AUTORI PUBBLICATI IN “NUOVA LIMINA”

 

Dal momento che le pubblicazioni nella collana “Nuova Limina” sono strettamente destinate ad alcuni finalisti del Premio per “Raccolta inedita”, al fine di non precludere la possibilità di accederviai precedenti vincitori di questa sezione(già editati in un’altra collana), questi autori possono ancora partecipare esclusivamente per la valutazione dell’opera a scopo editoriale.

Viceversa, autori finalisti in precedenti edizioni e successivamente pubblicati in “Nuova Limina”, possono liberamente concorrere poiché, in caso di vittoria, l’opera sarebbe edita in un’altra collana, “La ricerca letteraria”, destinata in modo specifico alle raccolte inedite vincitrici.

 

 

PER GLI EX VINCITORI DELLA SEZIONE “PROSA INEDITA”

 

Con riferimento alla nuova collana “Piccola Biblioteca Anterem” dedicata alla prosa, al fine di non impedirne la possibilità di accesso ai precedenti vincitori, questi autoripossono ancora partecipare alla stessa sezione unicamente per la valutazione dell’opera a scopo editoriale.

 

 

CERIMONIE, PREMIAZIONI, “CARTE NEL VENTO”

 

I poeti segnalati,finalisti e vincitori saranno invitati a leggere i propri testi nel corso del Forum Anterem 2023, manifestazione che coinvolgerà critici letterari e filosofi, musicisti, esponenti di case editrici, di riviste specializzate (cartacee o in rete) e di siti web.

 

Per ognuno di questi autori i giurati del premio scriveranno una riflessione critica, che sarà letta nel corso dello stesso Forum e successivamente pubblicata sul periodico on-line “Carte nel vento”. Con la nota saranno presentati il testo integrale per poesia inedita, brani scelti per opera edita, raccolta inedita, prosa inedita.

Inoltre, ciascuno di questi autori sarà invitato a produrre una audio-videolettura da inserire, oltre che in “Carte nel vento”, nel canale Youtube del Premio.  

Prodotto da Anterem Edizioni, il periodico trova spazio nel sito www.anteremedizioni.it

 

Agli autori che saranno ritenuti meritevoli di menzione d’onore,la Giuria del Premio darà evidenza sul sito di “Anterem” con la pubblicazione di un loro testo all’interno della sezione “Antologia poetica – Autori del Montano”.

Tutte le opere pervenute al Premio saranno catalogate e conservate, insieme ai manoscritti e ai volumi dei poeti contemporanei più significativi, presso il Centro di Documentazione sulla Poesia Contemporanea “Lorenzo Montano” della Biblioteca Civica di Verona, a disposizione degli studiosi e degli appassionati di poesia. Tale Istituto è stato fondato nel 1991 e raccoglie collezioni e lasciti di alcuni tra i più importanti autori del Novecento e conta più di ventimila opere, edite e inedite.  

 

Il compositore Francesco Bellomi, docente del Conservatorio di Bolzano, dedicherà un brano musicale a ciascuna delle opere vincitrici e ad alcune premiate con “Segnalazione speciale”.

Le musiche verranno eseguite durante la cerimonia di premiazione e inserite nel canale Vimeo del compositore, “vexation1960”, oltre che nel sito di “Anterem” e nel canale Youtube del Premio.

 

 

Modalità di partecipazione

 

L’invio dei materiali, per tutte le sezioni, va effettuato via e-mail entro il 30 aprile 2022 a entrambi i seguenti indirizzi di posta elettronica:

premio.montano@anteremedizioni.it

giuriamontano@gmail.com

 

Tutte le opere inedite vanno spedite con documento salvato in Word o in RTF o in PDF; quelle edite in PDF.

Su documento a parte va inserita la nota biobibliografica del poeta con indirizzo, recapito e-mail e telefonico.

 

Ai fini della conservazione presso la Biblioteca Civica di Verona, le opere possono inoltre essere mandate in cartaceo alla sede del Premio, in via Sansovino 10 - 37138 Verona, Italia.

 

Per partecipare al Premio è necessario contribuire all’attività dell’Associazione senza fini di lucro e per la promozione sociale “Anterem” con un versamento di Euro 34,00.

Il contributo dà diritto a partecipare a tutte le sezioni del Premio.

 

La rimessa potrà avvenire

• con bonifico bancario, intestato all’Associazione Anterem, al nuovo numero di conto

codice IBAN: IT49 V 05034 11750 000000006607– codex BIC per l’estero: BAPPIT21001

• sul c.c. postale 10583375 intestato all’Associazione Anterem, via Sansovino 10, 37138 Verona

 

Prova dell’avvenuto versamento andrà allegata ai testi inviati, cui seguirà conferma.

 

Per l’invio delle opere disposto dagli editori, s’intende che l’autore sia a conoscenza della partecipazione.

 

L’esito del concorso sarà reso noto sul sito del Premio: www.anteremedizioni.it

Verrà inoltre pubblicizzato in rete, sui canali social e mediante comunicati stampa.

 

 

Segreteria del Premio: via Sansovino, 10 – 37138 Verona

tel. 335 1855073 / 045 567991 – e-mail: premio.montano@anteremedizioni.it

pagine facebook, instragram: Anterem Edizioni, Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano  

canale youtube: Premio di poesia e prosa Lorenzo Montano

 

Stefano Guglielmin, Dispositivi (Marco Saya Edizioni, Milano 2022)

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Stefano Guglielmin, Dispostivi, Marco Saya Edizioni, Milano 2022, euro 10,00

 

 

Quarta di copertina:

 

Questo libro evidenzia la centralità dei dispositivi nella nostra esperienza quotidiana, scegliendone alcuni di esemplari rispetto al poetico e alla salute. Essi si rivelano decisivi nella determinazione del soggetto che scrive e che vive, al punto da condizionarne la stessa possibilità di esistenza. Il poeta, infatti, si definisce attraverso lo stile, che altro non è che la messa in atto di specifici dispositivi retorici. Lo stesso vale per gli apparati che ci determinano in quanto esseri umani in grado di sopportare la precarietà del vivere: filosofie, processi biochimici, procedure sanitarie e scelte di campo definiscono il nostro modo di essere-nel-mondo, in un’età in cui del soggetto non è rimasto quasi nulla, giacché volontà e libertà si irregimentano secondo modelli di cui egli non dispone, ma che lo dispongono, anzi lo indispongonoin un aperto già tutto mediato dal potere. Guglielmin prosegue la sua ricerca sulla finitudine, mettendo in scena un io plurale, contraddittorio eppure ostinatamente alla ricerca di un senso, ma tutto ancora da costruire e decostruire, dove gli opposti – autenticità / inautenticità, natura / cultura, elitario / popolare, interiore / esteriore – non sono che imprescindibili dispositivi del presente, spesso figli dell’alienazione.

 

 

 

Terapia

 

 

Si porta fuori un peso, con la parola,

ma c’è tutto un labirinto da fare, prima,

una salita temporale (e un temporale,

anche, da smaltire), che ci mette infine

il corpo quieto, nel suo porto, e la mente

pure. Per essere più precisi, è la psiche

a riordinarsi, non l’intelletto né il lucido

pensiero. Lo so

 

Spaccare il capelloè una metafora pedante,

denota che ancora il peso non ha trovato

la via: qualcosa langue nel fondo, nel botro

(anch’essa parola malata, introflessa).

Nemmeno scrivere guarisce, anzi alimenta

l’intrigo, ammalia come Medusa, o la mia

terapeuta: una topolina bianca, da emporio.

 

 

 

Caterpillar

 

 

L’ermo colle, dice, sarà spianato

dalle ruspe. Lui vede lontano: finisce

l’orizzonte con la biro e prevede,

per noi, un controllato naufragio.

 

Da ogni lato, tecnici piantano chiodi

e un pugno di tracce da seguire:

il futuro cresce sugli assi cartesiani

su siepi-silvie rase al suolo. Tace l’assiolo.

 

 

 


Dispositivi, recensione

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Una bella recensione di Silvia Comoglio su TELLUS folio 

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S. Guglielmin, Dispositivi, Marco Saya Edizioni, 2022 

Allì Caracciolo su Ranieri Teti

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Ranieri Teti, La vita impressa, Book Editore, 2022, euro 14,00

IMPRIMERE 

La vita impressa. La parola impressa. Altro titolo. Similare. Dove vita è parola parola è identità di vita. E di scrittura.

Talora la scrittura compie l’ellissi del verbo reggente quasi a impegno di rigore etico: tacere l’azione, che determina la rete dei nessi logici, ne annulla il perimetro della circostanza, ne fa un’assenza allusiva e onnivora, una dichiarata omissione della presenza, che in tal modo, al contrario, diviene dominante, muta e infinita. E richiede di essere individuata. Che le sia riconosciuto il suo Nome profondo.

È la potenzalinguistica del silenzio.

(Né la si può archiviare con la facile etichetta di ‘verbo sottinteso’).

Ne attestano le relazioni molteplici e labirintiche attivate da preposizioni camaleontiche e sublimi, abili a trasferire il senso dai con e da ai di e a e in, dai per e tra ai su. Insidiose preposizioni la cui grammatica sfuma ambigua in congiunzioni o avverbi senzamentredovequando. Tutte, che si connettono tra loro e non a un verbo espresso, in un senso corposo e sfuggente, allusivo e potentemente invadente, che impone l’obbligo dello scavo alla ricerca del fondamento sintattico o comunque di qualcosa che sveli il segreto di una connessione tanto potente e tanto celata. Una archeologia paradossale e ineludibile, che dalle tracce visibili e ravvisabili recuperi la storia e il senso di quelle stesse.

Se vero è che centro pulsante della sintassi è il verbo da cui si instaura ogni nesso logico del discorso, qui l’assenza di verbo nella molteplicità dei connettivi testuali di varia valenza grammaticale, determina una sintassi criptica, che governa sotterranea ogni moto della superficie, ogni ramificazione della parola verso la connessione geometrica dei sensi, la sua -negata- aspirazione alla rappresentazione sistematica, al racconto.

E che, invece, richiede alla lettura l’aspra virtù dell’attenzione, l’impegno, la fatica dell’emersione, il tacito dovere del riscontro, il rigore di rintracciare l’identità “impressa”, di farla emergere senza la -elusa dalla scrittura- depauperazione di descriverla, col descriverla annullarla.

Un accesso negato all’abbandono, alle fluide occorrenze dell’avvalorato, per una scrittura che deve cercare, e trova, la forza poetica nella forza della tacenza.

Illuminante, allora, la cognizione che l’assenza di verbo principale non eclissa l’azione fondamentale. La scoperta folgorante è che l’azione esiste. In altra forma di dichiarazione, in altra inusitata modalità. Essa è il filo di ferro -sotteso- del reticolo di nessi e determina tutte le possibili flessioni del verbo non dichiarate ma riscontrabili dai legami istituiti da preposizioni congiunzioni avverbi locuzioni, i conseguenti intrecci di sensi, l’esatto labirinto della possente sintassi. La Storia Emersa.

Una sintassi “impressa”. Nel profondo.


Sogni

 

dove abbiano origine, se da un nostro accanto, da un’ora che inclina il capo, da un fronte reclinato in resa, dal ritmo degli inseguitori, da una cava e i suoi recessi, da un’istantanea controluce e quel profilo scuro, nell’improvviso del momento, nell’urna tra ruggine e tramonto, dall’epidermide tra le fibre di una corda, dall’ultima orma di un salto dimenticato a mezz’aria, dall’insegna di un secolo, da un nubifragio visto dall’oblò, da un calco di canto o da un’impronta di voce, dal vapore millesimato in stille, da uno scartamento aumentato, da strade prese d’assalto, dal sonoro di macchine calcate al massimo, dagli appunti per un distacco, da un sommario depredato, dagli assoli di orchestrali nel corale, da un lento dell’aria, da un acuto dell’imo, da un racconto dall’interno del buio, con l’anfratto farsi nel suo scuro, a frasi e crittografie del sentire, scorrendo veloce con la piena degli invasi fin dove l’acqua non è più fiume, con la pietra dentro la sua venatura, la forma di una trasparenza, la rifrazione di uno scavo, notturno d’insonnia e vocativo, tra la creazione di un senso e la sua rimozione, così tutto vedendo lo smarrimento, se questo tempo intorno, tra finzione e refurtiva, è l’inciso sul retro di un foglio,è quello che resta



 

Ranieri Teti è nato a Merano nel 1958.

Ha pubblicato le raccolte poetiche:

La dimensione del freddo, prefazione di Alberto Cappi, Verona 1987;

Figurazione d'erranza, prefazione di Ida Travi, Verona 1993;

Il senso scritto, prefazione di Tiziano Salari, Verona 2001; 

Controcanto (dalla città infondata), immagini di Pino Pinelli, nel volume collettivo Pura eco di niente, prefazione di Massimo Donà, Morterone 2008;

Entrata nel nero, nota di Chiara De Luca, Bologna 2011. https://www.anteremedizioni.it/ranieri_teti_entrata_nel_nero

 

E' compreso nelle antologie:

Istmi. Tracce di vita letteraria, a cura di Eugenio De Signoribus, Urbania, Biblioteca Comunale di Urbania, 1996;

Ante Rem. Scritture di fine novecento, a cura di Flavio Ermini, con premessa di Maria Corti, Verona 1998;

Akusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di Giuliano Mesa, Fossombrone 2000;

Verso l'inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il novecento, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri, con premessa di Edoardo Sanguineti, Verona 2000.

 

Ha collaborato, con testi poetici, alla realizzazione di libri d'arte prodotti per pittori e scultori.

Un suo radiodramma, "Ombre sotterranee", è stato oggetto di tesi di laurea presso il Conservatorio di Trento e Riva del Garda. 

Ha partecipato a vari festival, letture e incontri di poesia.

Si sono occupati dei suoi testi, tra gli altri, Davide Argnani, Mario Artioli, Alessandro Assiri, Vitaniello Bonito, Enzo Campi, Laura Cantelmo, Andrea Cortellessa, Ninnj Di Stefano Busà, Massimo Donà, Flavio Ermini, Federico Federici, Gio Ferri, Giovanna Frene, Mario Fresa, Marco Furia, Gabriele Gabbia, Mauro Germani, Stefano Guglielmin, Francesco Marotta, Giuliano Mesa, Sandro Montalto, Romano Morelli, Umberto Petrin, Rosa Pierno, Roberto Rossi Precerutti, Enea Roversi, Jolanda Serra, Domenico Settevendemie, Antonio Spagnuolo, Adriano Spatola, Adam Vaccaro, Carlos Vitale.

Ha collaborato a riviste italiane e straniere, cartacee e on-line: "Osiris", "Schema", "La Corte di Mantova", "La mosca di Milano", "Pagine", "L'Ulisse", "Milanocosa", "Versante ripido", "Utsanga", "Formafluens", "Il Segnale", "La foce e la sorgente", oltre ai blog "Nazione indiana", "Via delle belle donne", "Blanc de ta nuque", "La dimora del tempo sospeso", "Poesia 2.0".

Suoi testi poetici sono stati tradotti in russo, spagnolo e inglese. Alcune sue poesie figurano nei volumi collettivi degli atti di convegni e festival.  

Fa parte della redazione della rivista 'Anterem' dal 1985. Per conto di Anterem Edizioni cura la collana "La ricerca letteraria".

Cofondatore e coordinatore del Premio Lorenzo Montano, ne promuove il periodico on-line 'Carte nel Vento' e la pagina facebook.

Vive a Verona.

Bertollo su Silvia Dolci

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Paola Silvia Dolci

DINOSAURI PSICOPOMPI

Anterem Edizioni - Cierre Grafica 2022

 

Recensione di Armando Bertollo

 

DINOSAURI PSICOPOMPI di Paola Silvia Dolci, è pubblicato da Anterem Edizioni - Cierre Grafica, nella collana Nuova Limina, inaugurata nel 2021. Flavio Ermini, fondatore e direttore fino al numero conclusivo della rivista dalla quale le Edizioni prendono il nome, ha più volte ricordato nei suoi interventi, come la parola latina ’anterem’, composta da ‘ante’, che significa ‘prima’, e ‘rem’, che significa ‘cosa’, indichi la manifestazione inaugurale del pensiero e il suo manifestarsi in forma di linguaggio poetico. Pertanto la poesia, secondo Flavio Ermini, è pensiero nascente: un’origine che si rinnova ad ogni sua manifestazione senza fissarsi in una forma definita e, men che mai, definitiva. D’altro canto, gli studiosi più attenti del linguaggio poetico e artistico si sono sempre ben guardati dalla tentazione di offrire definizioni della poesia e delle arti con formule rigide, vincolanti ed esclusive. Nonostante questo, però capita che per motivi non sempre esplicitamente dichiarati, connessi alle logiche economiche del mercato, gli editori più importanti, in grado di dare una certa visibilità ad un libro, già da decenni, abbiano affidato la cura delle residue collane di poesia, a direttori editoriali che assicurino loro una selezione di scritture nelle quali l’aspetto comunicativo, la lettura agevole, la comprensibilità, siano prevalenti; pertanto il ‘canone’ dell’attuale poesia maggiormente ‘visibile’ al pubblico in genere, -non specialistico per intenderci-, tende ad escludere le ricerche linguistiche più ardite e innovative. L’attuale canone ’mainstream’ così sembra aver rimosso una parte importante della lezione del ‘900, in particolare quella che aveva riconosciuto nell’inconscio una fonte primaria di forme significanti inesauribile, per stabilizzarsi su livelli espressivi più semplici, di ‘comfort zone’, -si potrebbe dire-, evitando al lettore, magari occasionale, l’immersione ‘senza riparo’ in un’esperienza estetico-linguistica aperta, esplorativo-conoscitiva, all’inizio più sensitiva che razionale, che richiede maggiore preparazione, curiosità, flessibilità, e certamente anche tempo e attenzione in più, nonché un certo disinibito spirito di avventura. Quanto lontane dallo spirito dei grandi editori risuonano oggi le parole di Italo Calvino: “La domanda del mercato librario è un feticcio che non deve immobilizzare la sperimentazione di forme nuove.”

Il lettore che prende contatto con la poesia attraverso le pochissime collane delle major librarie, non potrà pertanto che formarsi un’idea parziale, per quanto gratificante, della ricerca poetica contemporanea. Per compensare questa limitazione, imprescindibile è la presenza sotto traccia di decine di piccole case editrici che perseguono con caparbietà la missione di far uscire dal cono d’ombra, per quanto possibile, almeno parte di quella variegata ricerca poetica che ribolle esclusa al di là dei confini della poesia promossa dai maggiori editori.

 

Tra questi coraggiosi piccoli editori si annovera anche Anterem. Le scelte editoriali della collana Nuova Limina, delle quali lo stesso scrivente ha potuto beneficiare, vengono selezionate dalla giuria del Premio Lorenzo Montano alla quale, visionate le credenziali dei componenti, non può essere messa in discussione la preparazione e la competenza, con il vantaggio di questi ultimi, rispetto ai curatori delle collane degli editori più blasonati, di non dover render conto di alcun aspetto economico sotteso in prospettiva, ma esclusivamente al loro gusto, alla loro coscienza critica, alla loro onestà intellettuale.

Come premesso, le Edizioni Anterem si muovono in un terreno linguistico e di pensiero nascente, che non preclude chances ad alcuna direzione di ricerca e forma poetica.

Ecco allora il sorprendente libro di Paola Silvia Dolci, DINOSAURI PSICOPOMPI che si presenta con un titolo geniale e felicemente ironico. Ironia sottile, che carsicamente poi attraversa la sequenza di testi brevi del libro, scritti in prevalenza in una prosa poetica con evidenti tratti ‘onirico-gotici’. Per inciso, a chi scrive, per via del suo essere cinefilo, certe situazioni hanno fatto ricordare il cinema di Tim Burton, di Stanley Kubrick, di Quentin Tarantino e la letteratura favolistica nera messa in scena anche dal cinema di Matteo Garrone. Eccone una che sembra uscita direttamente dall’ Overlook Hotel:“ per tutta la notte / la palla ha rimbalzato nel corridoio, / non c’era nessuno a lanciarla, / mi svegliavo per il terrore, / e quando mi riaddormentavo tornava “ (pag 32)

 

In DINOSAURI PSICOPOMPI, ci sono delle tavole verbo-visuali che presentano un testo verbale calligrafico come ‘pelle’ calligrammatica, che circoscrive e completa dei disegni di forme scheletriche di dinosauri. Come tutti sanno i Dinosauri sono creature mostruose estinte, ricreate attraverso il ritrovamento dei loro scheletri, che nella rappresentazione contemporanea, sono per lo più oggetto, a parte dell’attenzione professionale dei paleontologi, soprattutto delle fantasie ludiche infantili, naturalmente attratte dal brivido del mostruoso, quando il mostruoso è però una figura, o un oggetto, gestibile e manipolabile a piacimento. Portare il dinosauro in un libro poetico, non può non voler dire caricare anche di gioco e di ironia la scrittura, che nell’originalità di DINOSAURI PSICOPOMPI, viene, si potrebbe dire, azzardando un neologismo, letteralmente ’callisdrammatizzata’.

L’ironia, insegna la psicologia freudiana, è una delle forme pragmatiche della comunicazione linguistica che permettono di alleggerire l’ingombro del ‘dramma’; può far esprimere verità imbarazzanti o affermazioni socialmente scomode, camuffandole sotto mentite spoglie:

Sala operatoria: “A voi che mi avvicinate e un giorno mi capirete, dico che se dovessi morire prematuramente, molto perdereste”,  scriveva Klee. (Pag. 38)

 

Soffermandoci ancora sul titolo, osserviamo per un attimo la seconda parola, la qualità dei dinosauri, il loro essere PSICOPOMPI. Gli Psicopompi, ricordo, sono figure mitologiche o religiose (sciamani) che svolgono il simpatico compitino di traghettare le anime dal mondo dei vivi e quello dei morti. Psicopompo è Ermes, il dio alato greco, è Osiride per gli antichi egiziani, è Odino nella mitologia nordica, è Caronte nella Divina Commedia dantesca. Ora la creatività di Paola Silvia Dolci è riuscita a donarci questo inaudito connubio, particolarmente riuscito, che fa sì che la nominazione del titolo, giustifichi quasi di per sé la stessa presenza della ‘cosa’ libro.

 

La lettura di DINOSAURI PSICOPOMPI ci rivela che la scrittura di Paola Silvia Dolci si sviluppa in testi brevi, che occupano le pagine come bagliori linguistici fuori schema,  visioni e incubi paradossali: Quando cala il buio, / i fantasmi del mare si addensano, / si avvicinano, si nutrono sia della notte, / sia dell’acqua. / Quando spunta il sole, i fantasmi / corrono ancora sul filo dell’acqua. (Pag. 11)  Oppure incisi, caratterizzati da compresenze, con-fusioni, sostituzioni, citazioni camuffate, o dichiarate in modo errato, o volutamente non dichiarate se non in nota, come per esempio nel testo a pagina 20 che si chiude con alcuni versi di Vita Sackville-West virgolettati: (…) Questo corpo è un animale / che mi sento gettato addosso. // “Così ho riunito tutti i cani che potevo / perché venissero nel letto con me; / e i topi hanno mangiato le colombe / durante la notte.”

Non c’è un ordine e neppure una trama. Il flebile legame che tiene insieme questi testi laconici, astratti, minerali, inglobati in tanti piccoli corpi, o forse meglio, in tante piccole cisti linguistiche, che il sottile condimento ironico opportunamente sotteso dall’autrice, rende tuttavia benigne, è proprio l’esperienza esistenziale: “Io vi dichiaro guerra / superpotenze nucleari e insetti / evacuanti […] / vi concedo tre giorni / di tempo per riflettere. / Questo è l’ultimatum. Dopo, / ordino il fuoco.” E. Isgrò. (Pag. 23)

 

Queste emergenze linguistiche arrivano sulla superficie della realtà cosciente da territori della psiche profondi che potrebbero segnalare presenze rimosse (più o meno) ingombranti. Sono questi i frammenti di un discorso oramai perduto, sommerso nel proliferare di generazioni e de-generazioni, che i “Dinosauri Psicopompi” stanno traghettando da questo mondo verso un altro mondo? Oppure i testi sono, come appaiono nelle figure, una parte anatomica del dinosauro stesso, la sua pelle, la sua superficie, il suo involucro, pertanto il testo è quello strato di ‘significante’ che delimita, o  forse meglio, contiene, come un sepolcro, lo scheletro di un significato scomparso vissuto in un lontano Giurassico? Oppure ciò che ne rimane nell’Antropocene? O forse, più semplicemente, esplicitando meglio dal concetto iniziale di questo capoverso finale, i DINOSAURI PSICOPOMPI sono i luoghi dell’immaginario dove l’autrice ha voluto affidare per sempre i suoi incubi? Chissà… Le questioni evocate rimangono in sospeso e ogni lettore, secondo la sua esperienza, può scegliere le sue priorità interpretative.

 

Schio, gennaio 2023                        

William Stabile su Maria Pina Ciancio

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Le pagine del libricino "Tre fili d’attesa" di Maria Pina Ciancio, condensano le riflessioni maturate in anni di osservazione lenta, attenta a costruire un percorso intimo e personale, volutamente decantato nel tempo dalla poetessa.

Tutto è fermo, freddo, come di pietra, e non c’è nulla da vendere, nulla da comprare, non ci sono traffici né merci… Solo tre fili d’attesa (a bona sciorta/ nu’ lavoro ca cunta/ u capattiempo che vene sempre chiù luntano) e “dopo la guerra dell’inverno (…) anelli di fumo irregolare” e scorci di paese e personaggi reali - amati profondamente nell’animo - e intorno la dura terra lucana dove ha valore essere più che avere.

Spiccano tra i muri sbrecciati di paese, le tante immagini dei vecchi dalla schiena stanca appoggiata al muro delle case, le ringhiere scorticate, i gerani smarriti al grande cielo e i cani a tre zampe o impazziti-quasi animali mitici, e gli attori paesani un po' strambi, come zio Pietro (con il legno del bastone sotto il mento) che per strapparla allo scherno pittò “la casa di rosso, di lato, di sopra, di sotto” e che si fanno amare per la loro diversità, innata semplicità e riottosità al giudizio comune.

'Attesa' sembra essere la parola chiave del libro, cardine intorno al quale ruota la vita del paese lucano, terra ancora primitiva, ferma a riti arcaici, che si forgia nel dipanarsi delle storie minime e tragiche della sua gente. L’attesa sembra essere ora l’unico atto rivoluzionario nel mondo frenetico di oggi. Dove appunto l’attesa, e la riflessione che richiede lo scorrere lento del tempo, sono bandite.

Con l’attesa anche il silenzio è elemento presente nel libro. L’assenza di rumore ("non fanno rumore i paesi d’inverno") nei lunghi ovattati inverni lucani viene rotta solo dai "rutti" delle feste comandate. Forse a ricordarci la presenza insignificante, rozza e primitiva dell’essere furente che è l’uomo nella Natura.

Ma anche qui, in questo embrione materno che è il villaggio dove si cerca rifugio e conforto, “ci sono notti difficili da dormire…” come per tutti gli uomini sulla terra, come anche per gli animali. Anche qui in questo luogo irreale che conserva un senso arcadico della vita, l’uomo è in bilico e la speranza si aggrappa al fato: “a la bona sciorta” e cede alle pressioni familiari, sociali: perché “nu’ lavoro che cunta” è importante. Mi sembra che ci sia il sapore di un sottile senso di colpa in questo verso, forse irrisolto, che viene da secoli di arretratezza e da una non soddisfatta volontà di riscatto della gente del Sud. Chi decise che per contare bisognava emigrare?

La nostra si fa testimone silenziosa dei contrasti inconciliabili tra generazioni troppo diverse che non si incontrano più e epoche oramai distanti trovano voce nel verso: “padre e figlio si incontrano a cena/ intorno al tavolino/uno mastica lento, l’altro va di fretta/ per non inciampare in quel tempo dilatato/ e fermo degli occhi di sua padre…”

Ma l’ispirazione parte tutta dal camminare per dare origine alla parola poetica e intuire la realtà. La Ciancio sa bene che “Talvolta basta uscire per strada/ per riannodare gli orli/ sfilacciati di un pensiero”. Camminare, un atto anche questo oggi sovversivo, è raccontare sé stessi agli altri. E la nostra, con i suoi versi e le sue foto (che andrebbero valorizzate!) sembra conoscere molto bene il segreto del camminare, scrivere e fotografare. E magari leggere, per ispirarsi, Pavese, primo paesologo italiano (ancor prima di Franco Arminio). Uno del Nord.

E allora Tre Fili d’attesa è un libriccino dalle leggere pennellate di versi da tempo attesi, ispirati e dedicati dalla Ciancio alla sua regione, la Lucania, terra appenninica ma anche mediterranea calata tra duri calanchi e costa greca. Una regione dell’anima fatta di paesi che esistono e re-sistono, fuori dalle rotte turistiche… fuori dalle dinamiche della globalizzazione. La Lucania che compone questa nostra Italia antica e variegata e che custodisce ancora, come un’isola, inconsapevolmente, i tasselli del DNA nostro e l’animo della poetessa stessa.

A corredo dell’opera, una stampa dell’artista Stefania Lubatti, ricorda un muro sbrecciato di San Severino Lucano, a voler muovere in noi irrisolte risonanze d’infanzia.

                                                                                                     William Stabile

Maria Pina Ciancio, Tre fili d’attesa, con una stampa di Stefania Lubatti, prefazione di Anna Maria Curci, postfazione di Abele Longo, LucaniArt 2022

 

 

*

 

Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno

le guance rosse e gli occhi aperti al cielo

oltraggiati dalla pioggia

schermaglie di bambini

senza un grido

Ho un cielo d’inverno da inseguire

risvegli e riverberi di resine

memorie di partenze e di ritorni

benigne solitudini


Sulla via che ci incontra

il vento sale e a te mi riconduce

 

 

*

           Talvolta basta uscire per strada

           per riannodare gli orli

          sfilacciati di un pensiero

 

 

 

Dopo la guerra dell’inverno

c’è chi parte e c’è chi resta

(…)

Gennaro e Vincenzino

sillabano il tempo

in anelli di fumo irregolare

e aspettano i ritorni

tra la ringhiera scorticata

e i gerani smarriti al grande cielo

 

*

 

C’è un tempo irreale qui

che comincia con la neve

e finisce a quaremma

con la strada che si asciuga

e i cani impazziti che rincorrono

il pallone di Antonella

 

*

 

Abbiamo tre fili d’attesa

annodati al calendario del camino

: a bona sciorta

nu’ lavoro ca cunta

u capattiempo ca vene sempre chiù luntano

 

*

 

Siamo nidi sfilacciati

 

Siamo nidi sfilacciati sugli alberi d’inverno

le guance rosse e gli occhi aperti al cielo

oltraggiati dalla pioggia

schermaglie di bambini

senza un grido

Ho un cielo d’inverno da inseguire

risvegli e riverberi di resine

memorie di partenze e di ritorni

benigne solitudini


Sulla via che ci incontra

il vento sale e a te mi riconduce

 


Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata in Svizzera nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia e da qualche anno vive nella zona dei Castelli Romani.
Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai grandi flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia, alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo 
Il gatto e la falena (Premio Parola di Donna, 2003), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008), Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro (Fara Editore 2009), Assolo per mia madre (Edizioni L’Arca Felice, 2014), Tre fili d’attesa (Associazione Culturale LucaniArt 2022).
Nel 2012 ha curato il volume antologico 
Scrittori & Scritture – Viaggio dentro i paesaggi interiori di 26 scrittori italiani.
Suoi scritti e interventi critici sono ospitati in cataloghi, antologie e riviste di settore. Recentemente è stata inserita nelle collettive: 
Orchestra (a cura di Guido Oldani) LietoColle 2010; Il rumore delle parole – 28 poeti del Sud (a cura di Giorgio Linguaglossa), Edizioni EdiLet 2015, Sud – Viaggio nella poesia delle donne (a cura di Bonifacio Vincenzi) Edizioni Macabor 2017.
Con il libro “Storie Minime e una poesia per Rocco Scotellaro” nel 2015 ha vinto la X Edizione del Premio Letterario “Gaetano Cingari”; nel 2014 il Premio Internazionale della Migrazione – Attraverso L’Italia  e il  Premio Letterario Città di Cerchiara – Perla dello Jonio (con un testo tratto dalla raccolta); nel 2009 il Premio “Tremestieri Etneo” (Targa Antonio Corsaro).
Ha fatto parte di diverse giurie letterarie, è presente in numerosi cataloghi e riviste di settore.
È presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt e su internet cura lo spazio web 
lucaniart.wordpress.com

Armando Bertollo (ne scrive Sergio Zanone)

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 Caro Armando

 

LeggendoVolumi immaginari (Anterem 2023) parmi sentire il profumo del fieno, del timo, del ciclamino e della menta selvatica. Il libro sembra sorgere in una notte disperatamente chiara, tra il flebile chiarore dei raggi lunari che filtrano attraverso i rami e le foglie dei faggi e dei noccioli, nella tiepida solitudine di piccole ore estive in una notte  di mezza estate. Notte di San Lorenzo? Occhi infinitamente desideranti si protendono nell'oscurità verso il vuoto del cielo, mentre le misteriose forze che abitano il sottobosco  generano ombre, fantasmagorie, sogni e visioni … generano, propria-mente,  il terrore della perdita, il dissolvimento  della  propria mente. Il testo è  una selva  ove lo sguardo  consuma, letteralmente,  il cuore e le ore , delizia (Aulo Gellio: Noctes atticae) e condanna. (Polziano: Sylva in scabiem) Immagini insonni e fuggitive  come  formiche, grilli, lucciole, farfalle notturne, pipistrelli, lucertole … le parole (i segni- parola) lasciano la presa (del significato), abbandonano le spoglie come  gusci vuoti ...  trasmutano, si sciolgono  in frammenti ricombinanti,  si rivestono  della novità  in un utopico e leggiadro Teatrino della scrittura. Tuttavia, volgendosi reciprocamente e donando la propria morte (Derrida),  creano  volumi, generano  spazi,  formano  ponti  (e non solo nella medesima pagina). Un reticolato di relazioni in filigrana si estende fra le pagine del libro abbracciando  una vita intera: una summa, in-somma: Zizek, Klee, Nono, Duchamp ... Ecco,  nell'incontro con gli altri, con l'Altro,  le parole rasentano la Fede – la toccano senza trattenerla (Noli me tangere: vicino al Credere) nell'esperienza trascendente e segreta  della trasfigurazione  (l' incontro con il divino)  per poi lasciarsi  andare  nuovamente libere  alla deriva. Il vassoio dicristallo è l'immagine di un tabernacolo : Maria (Vas spirituale / Vas honorabile /  Vas insigne devotionis: dalle Litanie della Beata Vergine) offre il corpo di  suo figlio, Gesù  ( il Cristo)   alla clemenza ( clementine) del Padre mitigandone l'ira,  per  la salvezza del mondo (L'affondo del calabroneTra-gico        tallone    d'ira):    si gioca forse  impunemente con il fuoco, con le parole , con l'essenza delle cose? E non è forse anche  il ciclamino un “piccolo utero”? L'interpretazone del testo verbovisivo  oscilla  tra   una  pluralità  di livelli, di piani, di volumi immaginari, appunto,che si compenetrano a vicenda: la natura morta, letteralmente, (Still life: il vassoio di frutta  con  il libro sopra la tavola)  si trasforma  in atto di fede (la  genesi del Mondo, la caduta,  la sua redenzione attraverso  la genesi della Parola: Eva … del frutto il profumo, Maria , il Verbo suo figlio  –  Gesù è  in croce, il   cuore  dimora  vicino al Credere , le braccia sono distese verso il  mondo,  i piedi sono sovrapposti, in-somma). Sono  tra di loro incommensurabili il linguaggio della Fede e quello della Natura? Oppure la Natura stessa, come dice S.Giovanni della Croce nel Cantico spirituale, funge da mediatrice narrando la Gloria di Dio al mondo e parlando di noi a Dio: un abisso grida all'abisso al fragore delle tue cascate? Il brulicare della vita - l'Adamo -  un impasto di piccoli caratteri mobili-  nobili? O forse anche meno nobili, non importa: il testo si confronta con l'antica scuola della retorica (Aristotele, Frontone, Cicerone, Quintiliano) e della magia . Sinestesie. Qualcosa ac-cade, precipita dall'alto, ti colpisce alla testa come una tegola, o come lo schiaffo del maestro Zen:è il Koan del risveglio, l'onda sonora del volo del calabrone  che affonda nello stagno – l'haiku della rana –  renudo:  l'innocente  semplicità della vita che si sacrifica  (l'Imperatore della   favola di Andersen “I vestiti nuovi dell'Imperatore” , viene  invece deriso  per la sua vanità quando si mostra al popolo). La caduta rompe la regola, esce dal recinto dell'orto-dossia, modifica la grammatica e la sintassi in un gioco (di squadra, di riga, di compasso)

 

                                                               eminentemente serio,

                                                               tremendamente reale,

 

 

soprattutto quando la parola (segno-parola)  si isola e ti inchioda nella solitudine del deserto bianco.

 

Ecco, questi sono solamente alcuni esempi di lettura del tuo libro; il lettore troverà da solo la via del Tao  seguendo il filo della propria immaginazione, poiché il risveglio  è, come la morte, un evento  unico e singolare, oscillante tra il sapore ed il significato della parola:

 

Il sapore della parola

Il significato della parola

palato

pa(r)lato

te-gola

re-gola

desiderio

volontà

orto-

dossia

 

  Z.S. 22/04/2023

Rafael Cadenas (ne scrive Erika Reginato)

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      Foto di Vasco Szinetar 

RAFAEL CADENAS, PREMIO CERVANTES

IL POETA DEL VENEZUELA, LIBERA LA PAROLA

Erika Reginato

 

Il poeta Rafael Cadenas (Venezuela, Barquisimeto 1930), il più importante rappresentante della poesia in lingua spagnola, oggi ai suoi 93 anni, è considerato il più grande poeta, scrittore e saggista venezuelano, è stato meritevole del Premio in Lingua Castellana “Miguel de Cervantes”. Il giurato ha riconosciuto la trascendenza creatrice che ha fatto della poesia un motivo della esistenza. La sua opera esprime desolazione, l’ordine del verbo e del silenzio e la ricerca della lingua.

Il “Cervantes” non è un premio ad un’opera, ma il riconoscimento di una vita dedicata alla letteratura. La vita di Rafael Cadenas è stata consacrata alla difesa e diffusione dello spagnolo. Il poeta venezuelano ha sorpreso al pronunciare il discorso dal tradizionale leggio, dell’Università di Alcalá (Spagna). Lo ha fatto scandendo le parole e permettendosi lunghe pause come nelle sue letture poetiche, e nel suo intervento si ha riferito a Rilke e Walt Whitman come i suoi maestri letterari. Ha sottolineato che è necessario vivere in democrazia, e ricorda le parole di Einstein: il nazionalismo è il morbillo dell’umanità.

La poesia più famosa, “Sconfitta”, è stata un simbolo negli anni ’60: Io che non ho mai avuto un mestiere / che davanti a tutti gli avversari mi sono sentito debole/ che persi i migliori titoli della vita…

Una poesia scritta dopo l’esilio che il poeta ha vissuto nell’isola di Trinidad durante la dittatura di Pérez Jimenez.

 

Rafael Cadenas, professore universitario, dichiara: l’università Centrale del Venezuela vive momenti difficili e ha sottolineato “che una università sommersa al indottrinamento, smette di educare liberamente". Continua dicendo come la lingua spagnola sia “martoriata” dagli anglicismi come altre lingue.  E poi dice: "questo premio non è nessun sogni, che si deve fare con piena libertà". Ha finito il suo discorso ricordando che Cervantes, fu un grande difensore della libertà e ripete le parole di Don Chisciotte che dice a Sancio, il suo fedele scudiero: “La libertà è uno dei doni più preziosi dal cielo concesso agli uomini…è per la libertà, come per l’onore, si può avventurare la vita”. Provocazione dei successi politici mondiale, ma il poeta anche vuole fare riferifento a quella avventura che affrontò nell’esilio, nel labirinto umano e scrive Cadenas:

Solo ho conosciuto la libertà all’improvviso, quando ritornava al mio corpo.

Rafael Cadenas scolpisce la parola che nasce da quel silenzio dove trova il “nulla” ungarettiano ma anche risale da questo profondo pozzo e costruisce il linguaggio personale che estrae dalla sua propria isola e che pulisce con lavoro e lucidità. La parola poetica di Rafael Cadenas possiede nel suo equilibrio, una carica di appartenenze ed un’esattezza, fino all’incontro della parola unica, universale e rinnovatrice che trova la su immagine.

 

      

Poesie di Rafael Cadenas

Tradotte da Erika Reginato

 

Una isla' (1958)

 

Si el poema no nace, pero es real tu vida,

eres su encarnación.

Habitas

en su sombra inconquistable.

Te acompaña

diamante incumplido.

 

Un’isola (1958)

 

Se la poesia non è nata, ma la tua vita è reale,

tu sei la sua incarnazione.

Vivi

nella sua ombra indomabile.

Ti accompagna

diamante incompiuto.

 

 

Amante (1983)

 

Eludías

el encuentro

con el tú

magnífico,

el que te toma

y te anula como tempestad

y de ti arranca al que busca.

 

Amante (1983)

 

Evitando

l'incontro

con il tu

magnifico

colui che ti prende

e ti annulla come una tempesta

e da te toglie quello che cerca.

 

Las paces (1988)

 

Lleguemos a un acuerdo, poema.

Ya no te forzaré a decir lo que no quieres

ni tú te resistirás tanto a lo que deseo.

 

Hemos forcejeado mucho.

 

¿Para qué este empeño en hacerte a mi imagen

cuando sabes cosas que no sospecho?

 

Líbrate ya de mí.

 

Huye sin mirar atrás.

 

Sálvate antes que sea tarde.

 

Pues siempre me rebasas,

sabes decir lo que te impulsa

y yo no,

porque eres más que tú mismo

y yo sólo soy el que trata de reconocerse en ti.

 

Tengo la extensión de mi deseo

y tú no tienes ninguno,

sólo avanzas hacia donde te diriges

sin mirar la mano que mueves

y cree poseerte cuando te siente brotar de ella

como una sustancia que

se erige.

      

Imponle tu curso al que escribe, él

sólo sabe ocultarse,

cubrir la novedad, empobrecerse.                                        

 

Lo que muestra es una reiteración

cansada.

 

Poema,

apártame de ti.

 

 

Le paci (1988)

 

Mettiamoci d'accordo,

poesia.

Non ti costringerò più a dire quello che non vuoi

né a resistere così tanto a ciò che desidero.

 

Abbiamo faticato molto.

 

Perché questo sforzo per renderti a mia immagine

quando sai cose che non sospetto?

 

Sbarazzati di me ora.

 

Scappa senza voltarti indietro.

 

Salva te stessa prima che sia troppo tardi.

 

Bene, tu mi superi sempre,

sai come dire cosa ti spinge

e io no,

perché sei più di te stesso

e io sono solo colui che cerca di riconoscersi in te.

 

Ho l'estensione del mio desiderio

e tu non ne hai,

ti muovi solo dove stai andando

senza guardare la mano che muovi

e crede di possederti quando ti sente che

da lei spunta la sostanza che

si eleva.

 

Disponi il tuo scorrere a quel che scrive, lui

solo sa nascondersi,

avvolgere la novità, impoverirsi.

 

Dimostra solo una reiterazione

stanca.

 

Poesia

allontanami da te.

 

Ars poética. Intemperie (1977)

 

Que cada palabra lleve lo que dice.

Que sea como el temblor que la sostiene.

Que se mantenga como un latido.

 

No he de proferir adornada falsedad ni poner tinta dudosa

ni añadir brillos a lo que es.

Esto me obliga a oírme. Pero estamos aquí para decir

verdad.

Seamos reales.

Quiero exactitudes aterradoras.

Tiemblo cuando creo que me falsifico. Debo llevar en peso

mis palabras. Me poseen tanto como yo a ellas.

 

Si no veo bien, dime tú, tú que me conoces, mi mentira,

señálame la impostura, restriégame la estafa.

Te lo agradeceré, en serio. Enloquezco por corresponderme.

Sé mi ojo, espérame en la noche

y divísame, escrútame, sacúdeme.

 

 

Ars Poética

Traduzione: Erika Reginato, 2011

 

Che ogni parola porti quello che dice.

Che sia come il tremore che la sostiene.

Che si conservi come un palpito.

 

Non ho da dire decorata falsità nemmeno da mettere tinta dubbiosa né aggiungere

lucentezza a quello che c’è.

Questo mi obbliga ad ascoltarmi. Ma siamo qui per dire la verità.

Saremo reali.

Voglio precisioni terrificanti.

Tremo quando credo che mi falsifico. Devo portare in peso

le mie parole. Loro mi possiedono come io le possiedo.

 

Se non vedo bene, tu dimmi, tu che conosci la mia bugia, segnalami

la calunnia, rinfacciami la truffa.

Ti ringrazierò, sul serio.

Impazzisco per corrispondermi

Tu sei il mio occhio, aspettami nella notte

e scorgimi, scrutami, sbattimi.

 

YOU

 

Tú apareces,

tú te desnudas,

tú entras en la luz,

tú despiertas los colores,

tú coronas las aguas,

tú comienzas a recorrer el tiempo como un licor,

tú rematas la más cegadora de las orillas,

tú predices si el mundo seguirá o va a caer,

tú conjuras la tierra para que acompase su ritmo a tu lentitud de lava,

tú reinas en el centro de esta conflagración

y del primero

al séptimo día

tu cuerpo es un arrogante

 palacio

donde vive

el

temblor.

 

Tu

 

Tu appari

ti spogli

tu entri nella luce

tu risvegli i colori,

 incoroni le acque,

tu cominci ad attraversare il tempo come un liquore,

finisci il più accecante dei lidi,

tu prevedi se il mondo andrà avanti o cadrà,

tu evochi la terra per far corrispondere il suo ritmo al tuo lava lenta,

tu regni al centro di questa conflagrazione

come un uccello immobile

e dal primo

il settimo giorno

il tuo corpo è un arrogante

palazzo

dove vive

il

tremore.

  

Cadenas Rafael (Barquisimeto8 aprile 1930) è un poeta e traduttore venezuelano. Per molti anni è stato docente presso l'Universidad Central de Venezuela. Ha ricevuto il Premio Letterario Nazionale (1985), il Premio Letterario Internazionale Guadalajara (Messico, 2009), il Premio García Lorca (2015) e il Premio Cervantes (2022), il più importante premio letterario in lingua spagnola. Tra i suoi libri di poesia e saggi si trovano: Cantos iniciales (1946), Una isla (1958), Los cuadernos del destierro (1960, 2001), Falsas maniobras (1966), Intemperie (1977), Memorial (1977.2007), Amante (1983.2002). Amant (2004), «Amante» . Lover (2004, 2009), Dichos (1992), Gestiones (1992). Premio Internacional Juan Antonio Pérez Bonalde, En torno a Basho y otros asuntos (2016), Contestaciones (2018). Tra i suoi saggi: Literatura y vida (1972), Realidad y literatura (1979), Apuntes sobre San Juan de la Cruz y la mística (1977, 1995),La barbarie civilizada (1981), Anotaciones (1983), Reflexiones sobre la ciudad moderna (1983), En torno al lenguaje (1984), Sobre la enseñanza de la literatura en la Educación Media (1998).

Guglielmin, Un regno di ciechi senza doni (Marco Saya Edizioni)

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 Quarta ci copertina:

In questo libro ci sono quattro fili che si intrecciano: la trama dell’Amleto shakespeariano, il fare teatro nei suoi elementi fisici e simbolici, il metapoetico, la mia autobiografia. Al centro dell’intreccio c’è la Storia, con le sue ossessioni: il potere, l’identità, la famiglia, il libero arbitrio, la figura femminile.

 

Un grande vuoto pervade l’insieme, quello prodotto dalla modernità centripeta, che la scrittura colma soltanto in parte attraverso una regia che monta i frammenti e decide a quale voce dare o non dare la parola. Un’operazione che non cerca la meraviglia o il gesto di rottura con il canone: ogni testo porta invece con sé l’esperienza tragica del vivere. La mia poesia onesta si dà così, talvolta anche usando leve stilisticamente sperimentali, sia per centrare meglio l’oggetto del discorso e sia per una vocazione al dialogo postmoderno – di matrice filosofica – con la tradizione, che da sempre accompagna la mia scrittura.


Qui alcune poesie, ma il vero senso dell'opera si dipana seguendo passo passo lo svolgersi del dramma, scrittura di secondo grado non soltanto della vicenda amletica, ma della vita stessa degli uomini e delle arti rappresentative.


Silvia Comoglio (rec. di R. Uberti)

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Silvia Comoglio – Il tempo ammutinato (partiture) – Book Editore, 2023

Roberto Uberti

 

Per i tipi di Book Editore, in una confezione grafica pregevole ed elegante, è uscito a ottobre 2023 Il tempo ammutinato (partiture) di Silvia Comoglio, feconda poetessa italiana – è, questa, la sua decima pubblicazione – il cui lavoro poetico si conferma ancora una volta caratterizzato dal tenersi alla larga da certa superflua facondia che, invece, contraddistingue spesso la confusa scena poetica contemporanea.

“Il tempo ammutinato (partiture)” è un’opera solida, rigorosa, nient’affatto indulgente al facile fronzolame lessicale con cui, anche in certa sottopoesia, si insegue un effetto wow! per il solo gusto di procacciarsi qualche facile quanto effimero like. Opera proprio per questo sorprendente, quasi atipica, ma di un’atipicità salutare e, vedremo, innovativa, in cui si rilevano diversi piani di lettura interdipendenti.

L’impianto dell’opera si articola in sei sezioni, sviluppate con la cura di un librettista d’opera già a partire dai loro iconici titoli:  

1.“ma, fiorisce dunque la parola”

2. “tu, allora, fiorisci

3.“sottile, a microchiarore!

4.“silhouette

5.“Ì-mmortale   proclamo te”

6.“… incognite tue rose, plasmate –

Che “Il tempo ammutinato (partiture)” possa essere approcciato come un libretto d’opera è il primo dei piani di lettura che stiamo per esaminare. Espediente non nuovo per Silvia Comoglio, che aveva già sperimentato questo ausilio anche visuale nella sua precedente opera “sottile, a microchiarore!” (di cui infatti ripropone il titolo di una sezione quasi a sottolinearne l’evoluzione), molte delle composizioni sono non a caso introdotte dal frammento di un pentagramma, in cui appare il più delle volte una singola, sperduta nota e talora, addirittura, soltanto un segno di pausa, significando arditamente, ma saggiamente, che il silenzio è esso stesso una forma di suono. Le composizioni introdotte da singole note (o dal silenzio) vivono di una melodia appena accennata, sulla quale giocare quasi in mono-tono la lettura (e, sarebbe meglio dire, l’ascolto). Dove invece non troviamo il frammento di pentagramma troviamo, spesso, l’impostazione armonica della composizione, declinata con la descrizione musicale ortodossa (“In sol maggiore”, “In fa diesis”, “In si minore”), che invita il lettore a un esercizio più complesso, quello di passare dalla melodia monotonica all’armonia polifonica e trasfigurarsi in direttore d’orchestra, dovendo ricercare nel proprio animo l’interpretazione tonale più confacente al significante e al significato della composizione. È, anche questo, un prezioso espediente, giacché agevola in misura non trascurabile l’orecchio interiore: così sappiamo in anticipo, per esempio, che una composizione “In si minore” avrà quell’aria dimessa e semplice che si addice a una ballata melanconica, mentre una composizione “In fa diesis” disporrà a un’atmosfera più solenne e assertiva, che ciascuno dirigerà a proprio talento.

Silvia Comoglio supera pertanto la semplice ricerca di sonorità nella parola e della parola, come peraltro giustamente notato unanimemente da coloro che hanno commentato il suo lavoro, portando piuttosto il lettore-ascoltatore nel golfo mistico della propria interiorità e affidandogli addirittura la bacchetta con la quale dirigere la propria intima orchestra.

Un secondo piano di lettura è dato da quella che potremmo chiamare “rivoluzione comogliana della sottrazione”. Silvia Comoglio, in netta controtendenza con il gusto contemporaneo del sovrabbondante, dell’eccessivo, dell’ostentazione aggressiva, concentra le proprie energie poetiche sul togliere anziché sull’aggiungere, sul celare anziché sul mostrare. È dunque, la sua, una poetica della spoliazione, dove tuttavia, lungi dall’impoverirsi, le parole mirabilmente si dilatano proprio grazie all’aver tolto parole. Leggiamo, per esempio, “schiocca – a volo – di sbuio lucente / la terra di nana – ombra – dei fiori?” in cui la domanda emerge con maggiore decisione proprio a causa delle parole che sono state estirpate, parole che hanno lasciato cicatrici così gibbose da diventare esse stesse, nella loro testimonianza dell’essere segnaposti di qualcosa che non c’è più, parole invisibili e per questo, se possibile, ancora più dure, intense, aspre in molti casi.

Oppure ancora: “amo il solo amare che appare in orizzonte / del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta, / cóme, come mondo, ai márgini del mondo”, versi in cui le assenze verbali sono così discrete da essere necessarie. È una poetica della sottrazione che somiglia a una stanza in cui, alle pareti, sono visibili i contorni rarefatti di quadri ivi non più appesi. È proprio la loro assenza a farli presenti, sono proprio gli sbaffi rimasti a suggellare per sempre la loro esistenza. Non importa più cosa quei dipinti raffigurassero, né dove siano finiti: importa invece che quei dipinti fossero esistiti in quel luogo e non altrove, silenti testimonianze di un tempo che, nella sua inesorabilità, continuamente muta l’assetto dell’universo.

Ed è proprio questo il terzo piano su cui condurre il rapporto con l’opera: la lettura del tempo. Sfida difficile, quella raccolta da Silvia Comoglio, di parlare del tempo per attribuirgli una capacità inedita e inaudita, ovvero quella di ammutinarsi. Dobbiamo scendere molto in profondità nella parola poetica di Silvia Comoglio per cogliere in cosa consista questo ammutinamento.

Che lo si interpreti come qualcosa di lineare o di circolare, che lo percepisca come qualcosa di statico entro cui si muove lo spazio o come qualcosa di dinamico da cui lo spazio viene attraversato, il tempo investe noi mortali con la sua natura di invincibile regolatore dell’evoluzione della vita, il supremo elemento entro cui, e a causa di cui, la condizione umana vive la propria condizione di perenne trasformazione. La quinta e penultima sezione dell’opera (ma la sesta e ultima è costituita soltanto da una composizione brevissima e sottilmente angosciosa che sigilla, quasi con un gemito apocrifo, la martoriata esperienza del tempo) è dedicata a scandagliare l’intuizione dell’ammutinamento del tempo. Non certo all’improvviso: già diverse pagine prima l’autrice aveva avviato il proprio percorso di rilettura del tempo proponendo, sotto un frammento di pentagramma privo di note, come sospendendo il respiro lirico, una possibile relazione tra immortalità e ammutinamento del tempo: “í-mmortale  proclamo te / nel tempo ammú-tinato / * “.

Proprio questa relazione è la chiave che Silvia Comoglio offre per leggere correttamente cosa sia questo ammutinamento del tempo. Contro cosa, o contro chi, il tempo si ammutina? E perché? Leggendo in profondità la sezione si viene implacabilmente investiti dal senso di inadeguatezza in cui la condizione umana geme continuamente, sottoposta alla legge della trasformazione continua e della mortalità. Soggetto colpevole di infliggere tale sofferenza è il tempo, che, riconoscendosi reo, alfine si ammutina a se stesso nel bisogno di collusione con l’essere umano, torturato dalla sua condizione di instabilità. Consapevole di essere veicolo di trasformazione continua e di impedire pertanto la felice fissità di ciò che è immortale, il tempo reagisce ribellandosi alla sua stessa natura: il suo è un bisogno di donare salvezza e non dolore, liberazione e non prigionia, immortalità e non finitezza. Il tempo diventa allora un soggetto pensante e deliberante che viene in soccorso all’infelicità umana decidendo, atto inaudito, di ammutinarsi contro se stesso.

Del tutto inedita appare, nella storia della letteratura, questa solidarietà del tempo con gli aspetti esistenzialmente mutevoli dell’essere umano. E ancor più inedito il suo assoggettarsi ai limiti controversi della vita per offrire il suo impossibile sogno (Comoglio lo chiama “apice di sete”) come unica soluzione (“il chiavistello”) capace di disserrare l’impenetrabile porta che separa mortalità da immortalità. Drammatico, nel fluire dei versi, il rapporto del tempo ammutinato con Dio: “… nel / relitto di dio il de- / litto del tempo?”, ove Silvia Comoglio propone un finissimo parallelo tra l’esito dell’ammutinarsi del tempo (cioè il suo delitto) e ciò che rimane (il relitto) di Dio: da tale delitto, dall’ammutinamento del tempo, null’altro resta se non una nuova condizione di immortalità, prerogativa appunto di Dio, che viene finalmente estesa a tutti gli esseri umani liberati dal tempo.

A ben guardare, l’ammutinarsi del tempo equivale al suo estremo sacrificio, al suo suicidio: ecco che il tempo assume quindi l’eroismo di un kamikaze che sceglie di porre fine alla propria esistenza per evitare una sconfitta o, meglio ancora, per vincere la sua battaglia contro la finitezza, donando quell’immortalità impossibile fintantoché esso è in vita.

Ma perché farlo? Perché il tempo, con intuizione nuova e sorprendente, viene dipinto da Silvia Comoglio non come un’astrazione indifferente ai destini storici, ma come un eroe premuroso e coraggioso, che prende a cuore le sorti dell’universo per superarne le infinite mutazioni rendendolo immortale (e, per questo, si am-mutina, a-mutandis, ribellione contro il mutamento). Le numerose domande di cui è disseminata l’opera (se ne contano ben 79!) sono domande poste dal tempo all’essere umano, quasi a chiedere sostegno e conforto nel sacrificio di grazia che sta per compiere ammutinandosi. Significativa per esempio la domanda “(e): la grazia  del tempo ammutinato / è il fiore  spaccato a vita?”, che si completa con “(ma): è offerta, allora, / il multiplo di fiore?”, dove osserviamo questo tenero bisogno del tempo di essere rassicurato, di essere incoraggiato affinché la sua estrema offerta generi una fioritura moltiplicata e perenne.

Ultimo, ma non ultimo piano di lettura, le 79 domande dell’opera, in cui emerge con chiarezza la maturità del lavoro poetico di Silvia Comoglio e in cui ci si aspetterebbero quindi dei punti fermi, delle certezze. Sorprendentemente invece, Silvia Comoglio scombina le carte e dissemina la sua raccolta di domande, che testimoniano una maturità tutt’altro che finita, tutt’altro che definita, anzi più che mai irrequieta e per questo ancora generativa e creatrice.



In fa diesis

 

 nostro amore, amore, sono gl’occhi chiusi di dimora ―

“nostro amore, amore, è la rosa plasmata a dismisura,

terra che occupa se stessa  germogliando!  in acque di silenzio,

in vertici a dimora di un lungo solo bacio, perfetto, di ―

ventura

 

(... predetta eternità? dove, la casa,

metti dentro casa, e l’alba ―

tutta fuori casa, e il sogno, sopra,

sopra casa, e sotto, sotto casa la ―

bugia, dura, di bagliore

 

... ma la casa, invece, quella pellegrina, non è casa ―

tolta dalla bocca? c, a, s, a  nate da un tempo da svuotare?

non eterno? non predetto?

 

... la casa pellegrina che tolta dalla bocca

ha mille, mille terre, sfogliate  a sopracciglio

nella notte  tutta d’oro)

 

 

 

In do maggiore

 

fiori contro fiori gli assoli di gennaio

... modo, modo eterno, di dire e sillabare

sono stelo  - e ombra mite a suono

 

(amo il solo amare che appare in orizzonte

del tutto senza ciglia : terra comparsa alla mia porta,

cóme, come mondo, ai márgini del mondo

 

... qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente ...)

 

 

 

In sol maggiore

 

stanotte  sono  chi racconto : pausa

disgiunta da memoria : vera rosa ―

ricurva  di follia ―

 

(generarti a nome del mio tempo fu l’unico segreto,

del labbro, appena, fessurato ...

 

... allora, fu detto, è acuta forma di radice

lo sguardo  appena srotolato  in sillabe di nomi

incessanti  e già caduti

 

... rose, ritorte di sibille, di mondi ―

a voci irregolari, leggermente, negl’occhi, arti-

colate ...

 

... la distanza tra sillaba e sibilla è allora ―

mantice di casa  a luce soffiata  inter-mittente?

 

fui  qualsivoglia-tuo-reame  terríbile e vivente,

l’urgenza che prego di guardare nel dono del  suo peso ...)

 

 

 


    í-mmortale  proclamo te

                  nel tempo  ammú-tinato

 

                  *

 

(… iddio disceso a dono

fin dove, in ápice di sete,

la terra tu síllabi a deriva?


Silvia Comoglio, laureata in filosofia, ha pubblicato le sillogi Ervinca (LietoColle Editore, 2005), Canti onirici (L’arcolaio, 2009), Bubo bubo (L’arcolaio, 2010), Silhouette (Anterem Edizioni, 2013), Via Crucis (puntoacapo Editrice, 2014), Il vogatore (Anterem Edizioni, 2015 – Premio Lorenzo Montano – XXIX Edizione - Sezione raccolta inedita), scacciamosche (nugae) (puntoacapo Editrice, 2017), sottile, a microchiarore! (Edizioni Joker, 2018), Afasia (Anterem Edizioni, 2021), În ape de tăcere/ In acque di silenzio(Editura Cosmopoli, Bacau, 2023).La sua poesia è stata tradotta in Inglese e Romeno e in particolare il testo Terezín scritto per Margit Koretzovà e Rozkvetlà louka s motyly, Le farfalle, il disegno che Margit fece a Terezín dove fu deportata nel 1942 con l’intera famiglia prima di essere trasferita ad Auschwitz, è stato tradotto in Inglese Francese Spagnolo Tedesco Romeno e Ceco.

Suoi testi sono apparsi, tra l’altro, nei blog Blanc de ta nuque e La dimora del tempo sospeso, nel sito di Nanni Cagnone, sulle riviste Il Monte Analogo, Le voci della luna, La Clessidra, Il Segnale, Italian Poetry Review, Osiris poetry, nella rivista giapponese δ e nella rivista romena Poezia, e on-line nelle riviste Carte nel vento, Tellusfolio, La foce e la sorgente, Fili d’aquilone.

Il portale BombaCarta le ha dedicato La lettera in Versi n. 56 curata da Rosa Elisa Giangoia.

E’ presente nei saggi di Stefano Guglielmin Senza riparo. Poesia e Finitezza (La Vita Felice, 2009), Blanc de ta nuque, primo e secondo volume(Edizioni Dot.com.Press, 2011 e 2016) e La lingua visitata dalla neve (Aracne, 2019), nell’antologia Poesia in Piemonte e Valle d’Aosta (puntoacapo Editrice, 2012), in Fuochi complici di Marco Ercolani (Il leggio, 2019) e in Anni di Poesia di Elio Grasso (puntoacapo Editrice, 2020).

Fa parte del Comitato di Lettura di Anterem Edizioni e della Giuria del Premio di Poesia e Prosa Lorenzo Montano.


Poesia e Luogo: l'esperienza della parola poetica

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Scrivere poesia ha molto a che fare con l’abitare il Luogo, con il farne esperienza. Luogo che alcuni poeti chiamano origine: fare esperienza dell’origine, dicono, è garanzia di autenticità. Penso a Pascoli, a Saba, a Pavese, a Pasolini. In loro, origine è fondamento, ciò che giustifica la parola autentica, quella che ci riguarda propriamente. Affinché Origine sia Luogo, tuttavia, così come lo intendo in questa riflessione, occorre pensarla slegata da qualsiasi metafisica, da qualunque struttura oggettiva, esterna alla propria collocazione, appunto perché, ontologicamente, l’essere qui del mortale e il Luogo si danno insieme, in una radicalità che risponde o, heideggerianamente, cor-risponde al bisogno di stare al centro di qualcosa. L’uomo, infatti, è un essere mortale che esperisce, sin dal principio, la dislocazione dal centro e il lutto per questa esperienza. La presenza, in altre parole, è trascinata nel luogo, portata fuori nell’aperto spaesante, in una vertigine che chiede di essere ricomposta: non si fa esperienza del centro, bensì del continuo cadere fuori dal cerchio e del tentativo di restare in piedi.

 

Ogni volta che il poeta parla, ogni volta che chiunque di noi parla davvero (non ripete il già detto, ma si misura con la vertigine della propria esperienza finita), lo fa da un Luogo-origine dislocante, da uno scarto dalla continuità anonima e collettiva, che rende la sua parola originaria ossia avveniente per la prima volta nel luogo in cui esiste. E il luogo è per la prima volta pronunciabile, prendendo la forma del paesaggio, del sentimento, della storia e della logica, ordinati o devastati o addirittura assenti a seconda della cesura in cui uomo e luogo, traspropriandosi, diventano linguaggio. Anche il rifiuto di dare forma al testo, di leggibilità, risponde – prima che a una scelta di metodo – a una precisa straspropriazione di mortale e Luogo. Anche questa è un tentativo di tradurre in linguaggio la propria dislocazione ontologica. Ed è lì, per tutti, in questa tensione-torsione che l’esperienza significativa prende corpo. La poesia parla di questa avventura dis-locante anche quando nomina il mondo; altrimenti diventa ancella di altre discipline, figura di secondo grado, strumento di dominio, gioco inessenziale.


Qui il video.


con le parole di Lucrezio (trad. di Milo De Angelis) Maurizio Landini Stefano Guglielmin Ana Garría Laura Di Corcia Francesca Saladino regia fotografia musiche montaggio post-produzione Carlotta Cicci e Stefano Massari


zona / disforme

 


Marco Flores Fioramanti su "Un regno di ciechi senza doni"

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 Marco Flores Fioramanti recensisce Un regno di ciechi senza doni, cogliendone la forza metamorfica e la riflessione sull'identità tiranna, che mai vorrebbe uscire di scena. Un grande grazie all'artista romano e ad aboutArtOnline che ci ospita.

La trovate qui