CONVEGNO DI ANTEREM: POETICHE DEL PENSIERO
Come ogni anno, nell’ambito delle cerimonie di premiazione del Premio Lorenzo Montano, la rivista “Anterem” promuove in collaborazione con la Biblioteca Civica di Verona un importante Convegno di poesia.
Sono in cartellone quattordici appuntamenti nel corso dei quali la poesia incontra la filosofia, la musica, la psicoanalisi e l’arte. Tali eventi si svolgono da sabato 10 novembre a domenica 18 novembre 2012 negli spazi della Biblioteca Civica di Verona, via Cappello 43.
Il Convegno ha per titolo “Poetiche del pensiero” ed è curata da Flavio Ermini e Raniri Teti. La finalità è far emergere l’intima relazione che unisce la poesia e le complesse problematiche del nostro tempo. Tra i relatori: Lorenzo Barani, Stefano Baratta, Alfonso Cariolato, Agostino Contò, Paolo Donini, Stefano Guglielmin, Tiziano Salari, Carla Stroppa, Vincenzo Vitiello.
Questa manifestazione muove da un’identità poetica molto precisa, caratterizzata dalla posizione concettuale e dal percorso di conoscenza della rivista “Anterem”. L’intento è di far amare a un numero sempre più vasto di lettori la grande poesia contemporanea e della modernità.
Con questa iniziativa “Anterem” vuole dare una visibilità critica sempre maggiore alle opere dei poeti vincitori, dei finalisti e dei segnalati per tutte le sezioni in cui il Premio Lorenzo Montano si articola: “Raccolta inedita”, “Opera edita”, “Una poesia inedita”, “Una prosa inedita”, “Poesie scelte”.
Per ulteriori notizie: www.anteremedizioni.it
postfazione (Stefano Guglielmin):
D’altro canto, di Laura Caccia, organizzato in quattro sezioni e in poesie di quattro quartine, ci riconduce inevitabilmente alla numerologia: quattro sono infatti le virtù cardinali e archeosofiche, quattro le lettere ebraiche di YHVH e quaternaria è la progressione matematica (1+2+3+4) da cui deriva il dieci, la perfezione, in quanto tre volte tre più l’uno, origine del molteplice. La suggestione di leggere questo libro secondo la mistica dei numeri è dunque forte, ma occorre essere prudenti perché non ci sono altri precisi segnali in tal senso. Semmai conviene considerare la tensione verso il sacro nella sua valenza immanente, in quello spazio terrestre (il quadrato è simbolo della Terra), da decifrare a partire dall’”ignoto”, del quale Laura Caccia – nella prima sezione – ci invita a prenderci cura, non abbandonandolo alla deriva. Non si tratta di rivelarne l’arcano, né di neutralizzarlo in superficie né, all'opposto, di adorarlo, bensì di riconoscerne la forza tellurica, di farlo presente nella lingua in quanto luogo incontenibile, perturbante, che dona alla terra quel guizzo funambolico che non le appartiene, in grazia “della gioia / e delle voci di cui siamo capaci.” Il mondo non si salva, sembra dire l’autrice, bensì lo si espone nella sua perpetua forza sorgiva, malgrado lo si possa conoscere soltanto per “frammenti umani, abusi / di affresco sulla calce dei nomi”. Il poeta, come un restauratore, legge i lacerti, i segni lasciati scoperti dalla violenza del tempo, e li riconsegna, nella loro semanticità sospesa eppure feconda, all’integrità della pagina scritta. Con entusiasmo. Così facendo tiene viva la lingua, la preserva dal suo depotenziamento storico e mediatico. Per fare questo, scrive l’autrice nella seconda sezione, egli deve turbare la voce, incresparla, inoculandole “l’insensato”, che non è il privo di senso, ma l’eccedersi d’ogni ente spazializzato, il dissiparsi dell’”incustodito”, che così affiora, rivitalizzando la semplice presenza. L'ignoto custodito, compresso e umiliato nella significazione ordinaria, viene liberato dal canto del poeta gioioso, il quale lo innerva nel corpo testuale, lo fa entrare in circolo. E' appunto questo il modo in cui il poeta salva dalla deriva l’ignoto: metabolizzandolo, senza incatenarlo, nella lingua, nella quadratura dello stile. Di più non possiamo sperare perché “nessuna / cesura può dar conto / dell’origine o trarci in salvo”, ci riferisce la Caccia, in improvvise frasi apodittiche, in lampi, che mostrano per un momento un’immagine nitida, ma non meno inquietante, della verità sui viventi.
Se salvezza e origine sono inavvicinabili, dobbiamo tuttavia “mettere a rischio il pensiero”, come invita a fare la terza sezione, decostruirlo sino a porlo in prossimità di quelle soglie. Ecco che cosa significa pensare, in questa prospettiva: accogliere “l’inespresso dei nomi”, muovere “da un raccolto remoto / all’intimità accanto”, in una vertigine “che spalanca voragini” e non consola. Rimbaud e Heidegger sono i due numi tutelari, ma certo la scuola di Anterem, con i suoi trentasei anni di militanza sul bordo dell’inizio, non è estranea ad un’idea in cui poesia e pensiero avvengono nel medesimo tratto albale.
L’ultima sezione si ribadisce un assunto ampiamente condiviso, ossia che la poesia deve “lasciarsi contaminare” dalla storia, intesa tuttavia non quale unità di senso compiuto, ma sempre all’interno di quell’imperscrutabile affresco – sta volta sullacalce dei fatti– del quale non possiamo tristemente riconoscere che tragici dettagli: le bombe a grappolo, gli arsenali, il filo spinato, le deportazioni. Il pessimismo di Laura Caccia, in questa sezione, si mostra alla massima potenza, in particolare quando riconosce il tratto dominante dell’umanità: lo stupore impotente, “che non si oppone / alla caduta”, preferendo rintanarsi in solitudini simili a baraccopoli avvolte dalla notte. Eppure, la fiducia nei poeti rimane intatta proprio perché, come detto, spetta a loro il compito di non abbandonare l’ignoto alla deriva, per tramandarlo alle generazioni future, affinché insegnino che la caduta può anche essere un punto d’avvio, non per diventare noi divinità, bensì pienamente mortali, col nostro tempo della dissipazione e della gioia, con la nostra voce temporaneamente sospesa tra l’ora e il domani. Su questa fiducia, Laura Caccia fa quadrato, senza misticismo, in un durissimo testa a testa con lo stile e con la storia, conflitto che sintetizza perfettamente quasi all’inizio del libro: “tra incontri / e metamorfosi, una lacerazione / alle prese con la propria // estraneità fa crescere / i suoi nomi”, senza mettere radici. D'altro canto la poesia non può abbandonare l'estraneo che grida, piange e gode dentro di noi perché questi ne è il suo lievito, la sua garanzia.
in D'altro canto (Anterem 2012)
d’altro canto la poesia non può…
… abbandonare l’ignoto alla deriva
Giungono notizie dall’ignoto,
paragonabili a un’emozione quasi
vicina alla vita A prendere
in prestito luoghi comuni, le folle
innominate, l’inizio
capovolto che appoggiamo
davanti agli occhi In contumacia
è il cielo Da tutti i sensi sfida
l’accadere un giorno segnato
dalla sua moltitudine, i campi minati
su cui infuria Nel corso
degli arbitrii, intonature d’esistere
spalancano finestre disegnate
dai nostri sguardi Creature reciproche
tra i frammenti umani, abusi
di affresco sulla calce dei nomi
***
Si specchia nella sua metafora
il paragone che disorienta
i vivi Dal finestrino di un treno
come un contrattempo
tra le costellazioni incontabili
Verso le piazze trascritte e imperturbate
una contesa che si infrange
al nostro abbraccio Non il respiro
delle cose al canto
di un’umanità contromano,
gli orizzonti dei boschi, le amnesie
delle nubi Dove condivide
la lievità il suo eccesso
mortale con le apparenze svendute
al sangue Dai preludi di ciò
che non appare
***
Come può contraddirsi il dolore,
suscitare diffidenze a cui si annodano
omissioni, stupori Quando
ogni prospettiva si smarrisce
tra le insegne incessanti delle storie
in primo piano Un a capo
imprevisto, a dispetto delle rive,
si sgretola nell’entroterra
dove gli occhi rifrangono figure
in tempo reale Tra incontri
e metamorfosi, una lacerazione
alle prese con la propria
estraneità fa crescere
i suoi nomi Come il mare o l’esilio,
lo sciabordio che colma
ogni anfratto e non vi pone radici
***
Diventa preda dell’umanità, volge
il viso intracciato prima
della sua allegria Se riverbera,
nell’inapparire di questa
stagione, il canto della luce
su un angolo di ramo, nei suoi petali
fermi Tra grammatiche
ed eresie e il vento che le assolve
dagli odi umani Cosa accolga
ogni emozione e non soccorra felicità
sulla sponda dell’opera
Tutta la leggerezza che occorre
non può abbandonare l’ignoto
alla deriva, fiori selvatici o acque iniziali
Tenendo conto della gioia
e delle voci di cui siamo capaci
***
Il vivere transitivo dell’ignoto,
tra crimini e premura, nel sedurre
la primavera che contraddice Verso
a sproposito il suo accadere,
nella libertà che denuda
la terra su cui cammina Dove albe
e proiezioni corrodono
gli schermi, l’inconosciuto
nutrito passo a passo
Di quanti abbracci fa del mondo
naufragio, nel tacito chiarore
delle foglie a sbocciare
fatica e un nulla
innumerevole In rotta di collisione
col suo vuoto, controvento,
strappa le vele, sposta i moli
***
A chiedere troppo si espone
l’indicibile, allo stremo delle forze
il suo incessare Dove è
abisso quotidiano, un chiodo fisso
lo interpella In ogni immagine
capovolta in apertura a cancellare
gli esiti indifesi Da qui
e ovunque senza orizzonti
che la privazione non conduca
al suo canto Come febbre
la pienezza che si conviene, eppure
insospettato è l’inizio
in una significazione vulnerabile,
opportuna Cataste di tempi
e vuoti a smuovere tenebre, calore
Desideri, se nominare accade
Qui sul suo libro precedente.