Federico Scaramucciaè un poeta di quarant’anni: abbastanza per andare direttamente alla questione, senza girare attorno al tema, drammatico, messo in scena in Come una lacrima (Edizioni d’if, 2011) ossia l’attentato alle Twin Towers, che Scaramuccia affronta con due registri differenti: l’uno sublime l’altro popolare, il primo formalmente efficace, il secondo che merita una riflessione ulteriore.
Prima osservazione. Il poeta ci informa nella Notaal testo che il “secondo atto”, “in distici a rima baciata, ripensa l’evento e la sua catena emotiva, amplificata dall’occhio televisivo “che espone il dolore facendone uno strumento di controllo”. A me sembra che nei 136 versi del “secondo atto”, la critica alla comunicazione omologante e alla spettacolarizzazione strumentale non sia affatto evidente. Il racconto descrive la maceria e il suo odore, l’incendio e il pianto, i morti. La critica all’occhio massmediatico non c’è, se non di passaggio verso la fine, quando la luce dei riflettori contende la scena al fuoco. Se c’è, e non l’ho colta, è un problema lo stesso vista la rilevanza che giustamente l’autore le attribuisce.
Seconda osservazione. Nei 136 versi dominano la pietas e il desiderio di trasformare la vicenda storica in evento epico, da celebrare non per un’aristocrazia del sentire, ma per tutti. In questo senso, i distici vogliono comporre un canto popolare, un inno, forse. Si spiega così la presa immediata del testo, ottenuta con la rima facile (quindi memorabile: croce/voce, rabbia/sabbia etc.), le immagini stereotipate (“un nodo che si scioglie come cera”, “un pugno insulso che stringe con rabbia”, “un dolore acuto che arriva al cuore” etc.) e un ritmo da marcetta (quest’ultima caratteristica suggerisce, appunto, la natura dell’inno). Dove sta il problema, posto che tutto questo sia voluto? La pietas è davvero il miglior modo di incontrare emotivamente l’evento, evitando di prendere posizione, ma, se si scrive un inno, specialmente se riferito a un evento fortemente connotato, non si può evitare di prenderla, di schierarsi. Se Comeuna lacrima si mette dalla parte dei vinti (ipotesi convincente e chiara nel primo atto della Lacrima), questo poemetto dovrebbe essere un canto funebre, una celebrazione del dolore attraverso la sua ritualizzazione collettiva (il canto popolare, appunto); tuttavia il ritmo cadenzato, regolare (“Non resta nulla soltanto un rottame / un’ombra netta dalla forme vane / si pianta nel petto come una croce / piega a terra il viso spezza la voce”) toglie l’elegiaco, la mestizia propria a un evento luttuoso, per portare invece il lettore ad alzare la testa, a lottare contro un nemico. Questa è la funzione dell’inno: esortare, convincere, schierarsi. Ma chi è il nemico, qui? Dovrebbe essere, a dare retta alla nota dell’autore, la comunicazione di massa con le sue storture; essendo però questa quasi assente, il lettore si trova in un condizione aporetica: commuoversi per i morti e, al tempo stesso, non sapere perché dovrebbe mettersi sull’attenti e nemmeno contro chi mettersi in marcia. A meno di non pensare che il soggetto negativo sia l’attentatore, Al Quaeda, ma Scaramuccia nemmeno su questo si pronuncia, né nel primo né nel secondo atto. E non lo fa perché sa che l’11 settembre è stato un evento troppo complesso per liquidarlo in una lotta fra buoni e cattivi. Ne consegue che i 136 versi in questione, colpendoci emotivamente e irreggimentandoci in un passo militare, si depotenziano dall’interno, indebolendo le reciproche spinte. In altri termini: forma e contenuto confliggono, danneggiando la resa complessiva del testo.
Terza osservazione. Se il libro intendesse ergersi quale espressione del tragico, come attesta la presenza del “coro” nel “primo atto”, l’ineluttabilità del destino dovrebbe diventare il vero colpevole. Qui, invece, non soltanto si tace sulla responsabilità storica (Al Quaeda) e si trasforma la tragedia in inno, ma si trova, almeno nominalmente, un capro espiatorio nelle TV che accorsero a filmare l’evento, a farne una grande bolla massmediatica, una grande lacrimaartificiale. Il destino, da buon moderno, il poeta lo toglie, per sostituirlo con la tecnica audiovisiva al servizio della commedia del potere, che così – ma Scaramuccia tace anche su questo – ha l’occasione buona per dichiarare la guerra giusta ai nemici dell’America e di Israele.
Quarta osservazione. La caduta del tabù dell’inviolabilità territoriale americana (se si esclude le lontanissime Hawaii di “Pearl Harbor” nella seconda guerra mondiale), che avrebbe potuto diventare argomento di un’epica contemporanea, in Come una lacrima si trasforma in occasione per chiuderci nel pianto. Sotto questo profilo – e questo vale per il “primo atto” – l’epica diventa elegia. Per quanto certe immagini siano truci e molti verbi laceranti, tutto converge verso la commozione e verso i massmedia, che guidano la nostra visione (il “guarda” incipitario è guidato dall’occhio televisivo), tanto da procurarci un senso di disapprovazione, morale anziché politica, di pancia anziché nascere da un pensiero critico. Ovvio che la poesia non è ragionamento; tuttavia, se la organizzo in modo che ogni elemento della mio sentire incontri la commozione, non basta poi inserire elementi allegorici, di lotta tra il bene e il male (la colomba, il falco), per trasformare il dolore in discorso politico, anzi lo allontana, nella misura in cui rimane indeterminato il contesto (cfr. seconda osservazione). E resta indeterminato proprio perché a Scaramuccia interessa universalizzare l’evento, disancorarlo dalla contingenza storica. Così facendo, libera se stesso e il lettore dall’obbligo di comprendere la complessità del gioco mortale a cui ci ha consegnato una politica tutta spinta a salvaguardare gli spazi americani nel Medio Oriente, per consegnarci alla sfera emotiva, che lui sa gestire molto bene, da poeta, come scrivevo in principio.
Ripeto: qui non si vuole mettere in dubbio il talento di Scaramuccia, ma invitare lui e tutti i poeti che seguono Blanc a mettere in contro anche i risvolti ideologici dei propri testi. Mi viene in mente un passo delle Sacra famigliadove Marx, a proposito del senso umanitario della borghesia presente nei Misteri di Parigi di Eugene Sue, dice che talvolta si scrive dell’inferno per salvare la propria anima. L’importante, dico io, è saperlo, così che la scrittura ci salvi, almeno in parte, dalla mediocrità in cui siamo immersi sino al midollo.
Da Come una lacrima (Edizioni d’if, vincitore del premio i microsotis2010-11)
Prologo
gente di corsa al principio del giorno
non ne attende l’arrivo né il ritorno
Guarda è il volo in pace di una colomba
una colomba che cambia la rotta
non porta pace lascia in cielo un’ombra
una colomba rapace che lotta
come un falco con unghie lunghe afferra
la vita dopo spalanca la bocca
Coro
lo tiene fra i denti dentro la bocca
il cibo che è in volo per le budella
e mastica bene prima che inghiotta
Riepilogo
gente rimasta nella morsa il giorno
dopo con l’occhio fisso annaspa intorno
***
[...]
una voce roca che toglie il fiato
un filo ben stretto come un cappio
una voce che lotta che gorgoglia
che a volte si blocca e avvolta si imbroglia
la fiamma incerta che dal ventre guizza
che trova un varco che appena si drizza
la punta che trema e balbetta stanca
che vibra nell’aria come una lancia
è un cratere buio che ancora fuma
che nasconde la luce che imprigiona
come lo sguardo che ancora si annebbia
che nessuna lacrima ormai raffredda
una pioggia calda che non si estingue
che annaffia gli occhi e concima le lingue
che bagna la terra e secca nel fango
come un naufragio un abbraccio che strangola
un dolore sordo che non ascolta
condanna chiunque e sotterra la colpa
una bocca ingorda giudice e boia
si apre e non parla poi si chiude e ingoia
fra le macerie spunta solo un fiore
un fiore reciso senza colore
fra le macerie solo un fiore posa
una pianta rossa forse una rosa
[...]
Federico Scaramuccia è nato a La Spezia nel 1973. Attualmente vive a Milano e insegna in una scuola media dell’hinterland. Presente in volumi e riviste con testi critici e poetici, ha pubblicato alcuni libri di versi, tra cui Come una lacrima (d’if 2011), vincitore del premio di letteratura “i miosotìs”.