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Anna Maria Carpi

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“Oggi di grande non c’è che l’oblio”: endecasillabo emblematico del pessimismo radicale che anima il nuovo libro di Anna Maria Carpi, Quando avrò tempo (Transeuropa, 2013). Di fronte all’esibito narcisismo della società dei consumi (per esempio degli aspiranti poeti, che si ritengono costantemente incompresi, oppure rispetto al neocolonialismo degli ottentotti croceristi, estasiati dalla gentilezza del “personale extracomunitario”), di fronte all’orrore per la vecchiaia e la malattia, alla insensata quotidianità, che qui non risparmia nemmeno l’amore coniugale (“La stanza è buia /siamo in due nel letto. / Due masse scure, ci voltiamo le spalle”), la Carpi sembra rassegnare le armi, quelle esistenziali almeno. La vita non è mai qui, ci dice in ogni verso, e il tempo si dissipa, “palpita, stride becca vola via”, consegnandoci alla morte. Unico rifugio, la scrittura che “ingombra” il libro (“questa casa”), libera di essere nella sua anarchica differenza dalle convenzioni, dall’ordine banale e/o ideologico in cui sono collocate le parole nello (e dello) spazio pubblico. La poesia è innocenza e potrebbe perciò salvare gli esseri che la praticano con umiltà – ribadisce l’autrice milanese, riprendendo implicitamente due secoli di passaparola, da Blake a Pascoli, da Ungaretti a Walcott –; un’innocenza destabilizzante, aggiunge, nella misura in cui parla “una lingua insopportabile”. Insopportabilmente bella. È la bellezza dell’Idiota dostoevskijano, che s’inocula virale nella mediocrità, e che potrebbe farla esplodere, se la Russia zarista non avesse gli anticorpi nei suoi cerimoniali omologanti: il principe Myskin ne uscirà sconfitto, così come amaramente capita ad Anna Maria Carpi, lei che si sente straniera e inadeguata in ogni luogo e non fa, di questo “gnessulògo” zanzottiano, di questo “oltraggio”, agile leva per l’“oltranza”, resistenza, scarto fecondo da cui sentirsi poeta. Per lei, leopardianamente, il “male è tutto” e quindi ha intaccato anche la scrittura, per quanto innocente sia: in Quando avrò tempo, il mondo è in cupa dissolvenza, muoiono gli amici, perdono di significato i gesti e le cose quotidiane, gli affetti, e cresce nell’autrice l’impressione, amarissima, di scrivere “nel muro della cella”, di non essere letta o non abbastanza e che forse i propri versi non siano immortali, per quanto nati dal dolore: “mi danno / su quel che scrivo / e non mi piace mai, ma è con questo che anelo / fra mille altri d’essere vista udita / essere amata, / e non andrà così”.  È questo il punto: si scrive per essere amati, ma non basta: da Petrarca in poi, il poeta cerca gloria e questo, se il poeta è onesto, vien vissuto con grande senso di colpa. Anche questo conflitto agisce in Quando avrò tempo, e va a sommarsi con la consapevolezza che siamo giunti alla fine di un’epoca /(“Finis Europae: questa volta è vero?”) e con l’idea che la personale vita attiva sia tutta alle spalle e forse sia stata inutile: orizzonte, per altro, accettato con rassegnazione: “meglio morire che andar di nuovo a vivere”.

In questa Wasteland, l’unica finestra sulla verità della gioia, l’unica prova dell’esistenza di Dio, sono le creature naturali, specie se associate – come nella poesia provenzale – alla primavera o alle prime luci dell’alba. Sono creature del principio, dell’aperto rilkiano, dell’animale che muore puro, “senz’idea della morte”. In loro l’oblio è salvifico; in noi, è l’esito di un viaggio privo di speranze, già annunciato dal Galloleopardiano e dai grandi tragici moderni, cui la Carpi si avvicina, ma senza misantropie, anzi, con l’estremo desiderio di essere ascoltata, di essere capita anche dall’ultimo degli esseri nella sua richiesta d’affetto: “Ritorna / o bella superstizione dell’amore”. Ce lo dice con la semplicità di chi diffida dell’ornato, dello stile troppo acceso che allontani il pubblico e nasconda i moti dell’anima, di un’anima della tarda modernità, che ne ha vissuto la cronaca e le conquiste tecnologiche, che nomina l’esaltazione mortalmente romantica del principe di Homburg e le dissacrazioni di Damien Hirst, la solitudine del Capo di Finisterre e i rumorosi Caffè di San Marco, che attraversa l’attimo sublime e l’istante della reclame, e che ha tradotto, occorre dirlo, i più bei libri della vecchia Europa.


QUANDO AVRÓ TEMPOdico
e so che non l’avrò:
mai l’afferro o lo fermo,
non mi sta in mano il tempo,
palpita stride becca vola via.
E io che intanto
ingombro questa casa come un bimbo
che sparge intorno i giochi
e di far ordine non è mai il momento
e nemmeno è capace, se non viene sua madre.
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SCROSCIA L’ACQUA sincera
fredda calda obbediente
e schizza per il bagno fino agli allegri led.
Care mensole colme di sciocchezze,
asciugamani bianchi
dove mi nascondo
a occhi chiusi
e non vedo più niente.
Sono io quel volto nello specchio?
Un sembiante il caso lo dà a ognuno,
ma se lo fissi e pensi “sono io”
ti fa impazzire.
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UN MADIDO ABISSO ci ha tra le mani,
che venga notte che venga giorno
tundra o tajgà,
nei vetri bianchi di ghiaccio
nei vetri imperlati di pioggia
il treno è in fuga.
Si gioca a carte,
fissi volti rosee mani
fisse nel gesto, come frutti sepolti.
L’artico nulla, un brusio senza sonno
il tutto umano,
Oh! lasciali tutti parlare,
sono bolle che scoppiano
in superficie, gorgogliano,
tu taci, taci, se ti lasci andare
lo sai, parli una lingua insopportabile.
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SCENDE LA SERA, volo 48, volo in ritardo,
nessuno ancora alla registrazione,
là fuori al gelo
come cerini accesi due casacche
indaffarate intorno a un camioncino.
Poi non ci sono più, fine del turno.

Qui nel salone
una macchina del caffè che va in pressione,
un’immensa reclame – mele rosse giganti,
e di gioia scintilla e di orologi e whisky
il grande slargo, il duty free,
e da Relay i giornali di tutto il mondo:
“A Fukushima la radioattività
sta scendendo a livelli Centro Europa”.
Un piccolo trifoglio nero in campo giallo.
Dio sia lodato.

A me piace la parola earthquake,
è un gracidio innocente,
magnitudoè un po’ oscuro, è per gli addetti,
e tzunami lo usiamo ogni momento
quando c’è confusione.
Noi qui seduti.
Come fatti
di neon e di linoleum:
ticket, posto assegnato,
solo mille chilometri
lassù nel buio a ottocento all’ora
e siamo a casa con un buon bicchiere,
cena, TV e divano.

Il dottor Sparr della Multicamp –
fresco, rasato,
camicia immacolata,
gemelli d’oro, spillo alla cravatta,
ventiquattrore, tutto il mondo sul tablet,
ogni istante guarda l’orologio:
ma che fa questo volo 48?
Deve partire lui, perché domani torna,
non qui, altrove, poi di nuovo qui,
va da Tokyo a Pechino, da Pechino a Mumbai.
Niente paura. Perché mai dovrebbe?

O piccolo trifoglio nero in campo giallo.
(Berlino 15.3.11)
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POESIA. Serata di poeti,
fuori nel parco è buio, non c’è un’anima,
già le dieci passate.
In sala luci rade, poca gente –
e non poter capire
ciò che vogliono dire questi giovani
o solo mezzi giovani nati ormai nei 70.
È come in una chiesa sconsacrata,
è un rosario
di non credenti, recitano cose proprie e arcane.
Chiedere cos’intendono?
A occhi bassi ascolti
e ti guardi le mani.
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A ME, PERCHE’? Ho un nome come tanti,
ma alla cieca mi mandano da leggere
editi, inediti. Non sanno
che tormento è per me il giudicare
e in umiltà mi chiedono un parere.
In umiltà? Se obbietto gentilmente
questo verso non va, forse sbaglio, non badi,
i brontosauri levano la cresta
verde rossa celeste,
mormorano un primordiale ” io non vengo capito”.

Ma questi due di oggi fanno pena,
sono anziani insegnanti,
vive l’uno in Liguria, l’altro nel milanese.
Si fanno avanti:
opera prima l’uno, l’altro
è una vita
che scrive e stampa e non gli danno retta.
“Quanto ci ho lavorato,
mi legga, dica:
non sono meglio io di tanti altri?
Sono o no un poeta?
Già da ragazzo ho scritto,
e sempre poesie.”
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STORNI nell’aria,
migrano questi figli dell’autunno,
una mano gigante li ha lanciati
su in cielo. Sbandano, ritornano,
nel loro giubilo d’essere nessuno,
i bimbi del creato.
Tutti via, poi il gioco ricomincia,
il gioco in alto, al freddo, senza tempo.

Non c’è gioco per noi, noi giù nel tempo
per le vie del quartiere.
Foglie, una cosa sola, solo qualche fruscio,
un giacere comune, ultimi battiti,
poi una terrea quiete.

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IO CON TUTTI mi sono confrontata,
tutti ho invidiato,
ma a quali estremi non sono poi andata
con le raffiche di me stessa
col mio no?
Che farò quando sulla memoria
mi scenderà la nebbia,
non troverò più i nomi delle cose,
non avrò che il desiderio di un abbraccio?
Mi ridurrà la natura
al più povero degli impulsi?
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“QUANDO AVRO’ TEMPO
e so che non l’avrò”,
dicevo, e quanto tempo ho perso
in compagnia,
poco o niente importava come fosse:
ha il suo bello non essere se stessi,
passare ogni momento a un’altra cosa,
dire in coro con gli altri non ho tempo.
È la salvezza.

È ora che mi perdo, che mi danno
su quel che scrivo
e non mi piace mai, ma è con questo che anelo
fra mille altri d’essere vista udita
essere amata,
e non andrà così:
sono le scritte incise
da un recluso nel muro della cella,
e non c’è finepena.

Anna Maria Carpiè nata a Milano dove ha studiato alla Statale lingue e letterature straniere, tedesco e russo. Ha frequentato l’Accademia di Brera, ha esposto a Milano e a Colonia, e al Museo della Caricatura di Tolentino c’è un suo disegno. E’ stata più volte nella Russia sovietica e postsovietica, ha vissuto a più riprese a Bonn. Ha insegnato germanistica alle università di Milano, Macerata e Venezia. Ha esordito con dei racconti. Seguono quattro romanzi. Dopo il 90 ha dato largo spazio alla poesia. E' anche autrice di saggi e traduttrice della lirica tedesca contemporanea. Abita nella "casa di sempre", a Milano, quartiere Magenta. E' sposata con un architetto. Non hanno figli. 
È membro della giuria del "Premio nazionale Monselice" per la traduzione, del "Premio internazionale Wuerth" di Stoccarda edell'"Akademie fuer Sprache und Dichtung" di Darmstadt.


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