Che la volgarità sia di casa, in Italia, non ci sono dubbi: trombe di falloppio che siedono in Parlamento grazie, si dice, agli insegnamenti di Boccadirosa, uomini colpevoli d’essere nani, leggi-porcellum, vaffaday a raffica dei nazi-grillini, invasioni di campo dei deputati agli scranni del governo, pene di morte distribuite a iosa nei bar e nei convivi domestici, goliardie televisive. I beneducati si scandalizzano, i maleducati dileggiano questo perbenismo passatista, i disorientati si fanno un’opinione, sperando di entrare presto in campo e menare il nemico di santa ragione.
Per trovare il bandolo della matassa, farei un passo indietro, sino al momento in cui la volgarità era il termine di disprezzo dell’aristocrazia dell’ancien regime verso chi stava fuori dal recinto del potere. Volgare era il popolino che grufolava nella sua puzzolente manovalanza, ignorante e invidioso. Da un lato, c’era la paideia, il Cortegiano di Baldassar Castiglione il Galateo; dall’altra, la natura animale degli esseri umani prima del bagno nel fiume grazia, nel fiume levità.
Volgare, in questa prospettiva, è chi vive nel fango perché non ha ricevuto la benedizione della corte, e quindi si muove e parla con grossolanità, senza la leggerezza propria a chi conosce le buone maniere. “Andar giù pesante” si dice infatti di chi è spudorato: senza pudore, ossia volgare, come lo erano i diseducati al mestiere della politica nell’Italia dell’aristocrazia al potere.
Per un bel pezzo, la borghesia ha cercato nella classe antagonista il modello culturale, imitandola; poi nell’Ottocento, con il romanzo e il teatro realisti, la politica liberale, il romanticismo patriottico, la Bella Epoque ha costruito un sistema di valori autonomo, si è data una cultura: denaro, lavoro, dovere, famiglia, religione, ma anche moda e divertimento. Giovanni Berchet dice con chiarezza chi sta fuori dal gioco: i “parigini”, troppo raffinati per sporcarsi le mani con i sentimenti e gli “ottentoti”, troppo simili alle bestie per cogliere la bellezza in tante virtù. Rimane il “popolo” che “attiene attitudine alle emozioni” e che farà la storia d’Italia, emarginando, più che i salotti blasonati, i popolani, il quarto stato, chi insomma, troppo simile agli ottentotti, non aveva sufficienti requisiti di levità per accedere al bottino. Il Risorgimento l’hanno infatti realizzato, in comunella, l’aristocrazia e la borghesia del nord con i latifondisti del sud, aiutati dalla mafia siciliana, senza la quale Garibaldi e, più tardi, gli anglo-americani, non sarebbero sbarcati senza danno nell’isola.
In quel frangente, la volgarità possedeva ancora un significato sociologico, essendo pratica dei contadini e degli operai e di chiunque altro il quale, non avendo avuto accesso all’istruzione e, soprattutto, mancando di capitali, era escluso dal voto. Ma attenzione: il suffragio universale maschile promosso da Giovanni Giolitti nel 1912, non ha aperto la Camera (il Senato era di nomina regia e vitalizia) alla volgarità, nella misura in cui l’eletto ottentotto adeguava la propria radice diseducata alle buone pratiche parlamentari bene incarnate dai vecchi deputati ottocenteschi. Per imitazione, insomma, si toglieva gli scarponi e si soffiava il naso con il fazzoletto bianco. Nondimeno, dal suo maestro imparava la corruzione e il populismo dei primi partiti di massa.
Una svolta, per rompere l’argine che separa la selva volgare e impolitica dalla civis che-sa-come-ci-si-comporta, la diede il partito fascista, quello del “chissenefrega”, che lanciò il cross ai celoduristi padani, tracciando una parabola in cui, da allora, la palla volgarità sconquassa l’Italia, fuori e dentro le istituzioni, sdoganando i muscoli, sino ad allora prerogativa dell’esercito e dello sport, e la parola plebea, finalmente un vanto per il suo tubero verace. Un virus, questo, ancora poco evidente nella Prima Repubblica pre-sesantottina, governata dai figli della buona borghesia istruita, appassionata di Verdi e di Bassani o della campagna del sud, ancora legata ai fasti borbonici.
Nondimeno, con la retorica del fascismo e l’iniziativa popolar-resistenziale alla fondazione della Prima Repubblica, cultura dominante lo siamo diventati tutti, chi da dentro il Palazzo e chi da fuori, con l’inevitabile travaso del letame colorito e concreto, della parola-cosa, nel giardino retorico e vagamente parvenu del re. Che piano piano si è adeguato ai nuovi parametri, dando ragione allo spirito dei tempi in nome della convenienza elettorale e di prebende qui e là distribuite.
Dalla Seconda Repubblica, l’onnipervasività del costume della borghesia italiana, che ha le sue armi nella furbizia di Chichibio, nel pregiudizio sessista, nel disprezzo verso la parola, in nome dei fatti che parlano da soli, è diventata dominante. Ed ha avuto la forza del Lete dantesco, facendo dimenticare la differenza fra etica laica e diritto del più forte, tra riconoscimento delle differenze e volgarità dell’io monolite e intransigente. Oramai soltanto piccole enclave, alcune delle quali tristemente nostalgiche, avvertono lo scarto fra virtù di cittadinanza e arte predatoria, e denunciano la barbarie di chi non le sa più distinguere. Il risultato è lampante: per la maggior parte degli italiani, al pari degli uomini dello Stato, ciò che conta è il potere tout court, il controllo sui beni e sulle persone. L’obiettivo di chi non ha potere è scalzare chi lo detiene, e chi lo detiene rivaluta Machiavelli, che insegna loro come non perderlo. A rimetterci sono sempre gli stessi: le donne, i bambini e gli animali. Sotto questo profilo, non esiste nemmeno più la volgarità, in quanto essa è il costume dell’intero, non più della una parte esclusa dal gioco, come nell’età premoderna. La volgarità è l’etos ordinario degli italiani, elettori figliati dal populismo, distratti padri di famiglia, turisti alpitour, lettori globalizzati, emancipati rispetto alla sessualità e alla tecnologia, ma ignoranti nelle scienze umanistiche: in una parola, degli italiani conformisti, come ci raccontò Giorgio Gaber alla vigilia della Terza Repubblica del quaquaraquà.