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L’arte, l’artista e l’archetipo del doppio

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In questi giorni sulla mia pagina facebook, succursale di Blanc, si è discusso del rapporto fra l’opera d’arte e l’integrità morale di chi la produce. In occidente, si è soliti perdonare l’eventuale discrepanza: Caravaggio assassino, Picasso misogino, innumerevoli poeti e musicisti alcolisti e/o pederasti, che dipingono, scrivono, compongono – e siamo tutti d’accordo – opere memorabili. Verso i pensatori mostriamo meno tolleranza: la scelta nazionalsocialista di Martin Heidegger, per quanto brevissima, ancora influisce sul giudizio della sua opera. Pirandello divenne fascista dopo il delitto Matteotti, ma a nessuno viene in mente di sminuire la portata culturale del suo Teatro; così per Ungaretti, che, per l’edizione del 1923 de Il porto sepolto, chiese e ottenne la prefazione di Mussolini. “Signore del rinascimento” lo chiamò. Di fatto,la luce e il realismo di Caravaggio o la modernità di Rimbaud segnano momenti decisivi nella storia delle loro discipline, al di là della temperanza autoriale. Anche i Beatles non erano stinchi di santi, e così l’evasore e chavista Diego Armando Maradona, che, con i suoi guizzi geniali, ci ha detto che il pallone può essere usato come un pennello o la tastiera di una chitarra.L’artista e l’uomo, insomma, non combaciano; piuttosto interagiscono, probabile incarnazione dell’archetipo del doppio: chi sarebbe mr. Hyde senza il dr. Jekyll? E Baudelaire senza la sua immersione maledetta nel labirinto parigino, fra puttane e liquori?
Quando la politica comincia a fondere i due piani, l’estetico e quello morale, succedono guai;i totalitarismi inventano roghi inaccettabili: quello cattolico medioevale, quello talebano… E non dimentichiamo le dittature del novecento, tutte impegnate a bruciare l’arte degenerata, per una moralizzazione del popolo. Moralizzazione, infatti, non è etica: la prima è un atto verticale, del potere, che piega i costumi individuali e li subordina a se stesso; la seconda è un sistema orizzontale, che  risponde alla comunità di appartenenza. Ogni polis greca, per esempio, ha la propria etica. I buoni cittadini ateniesi sono cattivi cittadini spartani. Nel moderno, le comunità si moltiplicano, appartengono a insiemi e sottoinsiemi più o meno comunicanti. Di conseguenza anche le etiche si moltiplicano e configgono; l’archetipo del doppio, nella modernità, sembra tuttavia essere apprezzato o tollerato da differenti insiemi; tutti a sostenere l’autonomia dell’arte dalla condotta dell’artista o, meglio, l’inevitabilità di una vita corrotta per la riuscita dell’opera. Ma corrotta in che senso? Anzitutto dalla pienezza sociale, perché avvertita come finta pienezza. E dal benessere, perché non coincidente con la felicità. In questo senso, salviamo l’artista perché la sua vita infelice, corrotta da droghe e violenza (data e ricevuta), la leggiamo come risposta della vittima o del ribelle: due modelli del romanticismo, che ancora oggi funzionano perché creazioni dell’individualismo borghese. Passa appunto in secondo piano il fatto che entrambi i lottatori – lo Stato ipocrita e l’artista anticonformista – siano il prodotto del medesimo paradigma: la supremazia dell’uno sul molteplice, dell’identità sulla differenza. Così Caravaggio è un ribelle, prima che un assassino; e Picasso una miniera di idee prima che un maschilista violento. Due individualità straordinarie, il cui mr. Hyde si è mangiato il buon padre di famiglia Jekyll, sputando il corpo dell’opera, al quale noi riconosciamo forza estetica e gnoseologica, ma non forza morale, che appartiene alla legge; dunque al potere (che, se subìto, è cattivo per definizione). Tanto più oggi, che disconosciamo legittimità al contratto sociale, e diamo credito all’arte in quanto luogo della libertà, stato di natura in cui il più forte (che noi identifichiamo con il più bravo) lascia segni più duraturi. L’artista fa appunto questo: incide lo spazio per vincere il tempo, indifferente al bene e al male proprio perché, in natura, la morale non esiste. E l’etica che inevitabilmente s’innervata nell’opera trova adesione da parte della comunità di appartenenza (ossia nel gruppo artistico-letterario di riferimento). Che se coincide con la classe dominante, trasforma il bello in esemplare, in modello pedagogico. Da un paio di secoli, tuttavia, la storia politica, sociale e economica procede in un binario parallelo rispetto alla storia della cultura, edificando civiltà imbrigliate nella legge, estranee o sospettose verso le civiltà del bello. Siamo di fronte, ancora, all’archetipo del doppio, che a sua volta, a ben guardare, fa divergere ciascun nucleo di senso, ciascuna questione, tanto da dover pensare che ogni azione umana (teoretica, pratica e poietica) sia essenzialmente divaricata, vada “sempre in due sensi contemporaneamente” come direbbe Deleuze, così perdendo quell’uno, di matrice platonico-cristiana, che ci obbliga a decidere definitivamente la verità su qualcosa. Per esempio sul rapporto tra arte e artista. Non c’è insomma ragione definitiva che risolva il dubbio su come stiano veramente le cose; è il dubbio stesso, piuttosto, a porre la domanda e a moltiplicarla in ciascun artista e in ciascuna opera; così come è il dubbio, gemellare per natura, che, decidendo, sopprime temporaneamente l’altra sua metà. La quale tuttavia ricresce nella risposta successiva, riproducendosi indefinitivamente. Prendere la parola è appunto questo esercizio spericolato di moltiplicazione del senso, che tiene in circolo tutti i termini del discorso, tutte le biforcazioni praticabili,  così consentendo la pratica della democrazia, che non si fonda sulla decisione definitiva, sulla soluzione della domanda, bensì sulla relatività di ogni cesura, di ciascun punto di vista, sulla consapevolezza che il senso assoluto è l’atto del tiranno ed è ontologicamente falso, eticamente ingiusto, umanamente impraticabile.


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