Gregorio Tenti: Teoria della quieteo, meglio, della sua impossibilità, specie se quiete si vorrebbe del pensiero, che invece è diversione, “protesi”, continua divergenza di cui non possediamo l’inizio, la “crisi”, che non è soltanto effetto della razionalità, ma anche della “dolcezza”: non dimenticarla, dice il poeta a se stesso, mentre scrive, ossia mentre dà senso alla sua vita di scrivente o, se possibile, di scrittore: la prima strofa si chiude con una lettera, forse sorella delle lettere dal fronte piene d’amore di ungarettiana memoria. La scrittura, qui, ha un compito morale e, insieme, gnoseologico. Gregorio Tenti, classe 1993, ha infatti capito benissimo che la parola non è soltanto alchimia combinatoria, “una grammatica delle lingue che parli / senza permesso”, ma profondità e carne, perpetuo tentativo di ricomporre il senso del vivere e del morire. Senso che trova nell’amore la sua custodia, come in Dante e in tutti gli uomini toccati dal dolore. A salvarci, almeno per un poco, è la poesia la cui impossibilità compositiva, se compresa, acquieta, o la morte, verso cui tutti gli esseri tendono, come ci ricorda Leopardi nel Cantico del gallo silvestre. Davvero sorprendente la maturità espressiva di questo giovane, che ha già la sua voce, stratificata come si conviene alla poesia contemporanea che voglia essere, nel contempo, vertigine e chiarezza.
teoria della quiete
anche se a volte il pensiero di restare sembra la sola
santa vergine da interrogare, la via più sacra della sosta, prosegui intatto come un colpo a vuoto
tu nato dalla testa, e nelle orazioni più disperse
rimane la sostanza del risveglio, la protesi non si spezza.
ti piacerebbe iniziare con una crisi, che si accompagni più o meno come al solito ad un artista
della decisione - non dimenticare la
dolcezza, non dimenticarla: perché il mondo reclama una ricetta, almeno
un commento, un’epigrafe. anche tu fingi qualche volta, ma l’incertezza
ti ha affilato gli occhi e allargato i polmoni di tutto
quello che volevi dire, e invece hai riso nervosamente.
ti scrivo al presente per evitare tue risposte,
ma forse quest’inverno non passerà. magari sarà più
spregiudicato degli altri inverni, e tradirà la severa
alternanza delle cose. le notizie da casa
sanno più di vento: come qualcosa
che deraglia, si flette fuori dal calzettone,
forse non ricrescerà dritto. che la scompostezza
non si propaghi almeno: o riceverai la posta di qualcun altro, una grammatica delle lingue che parli senza permesso - le senti battere le vedi cantare entrare in dissonanza e valicare la pelle,
seccarsi sulle saldature, gettare indietro il peso
degli abiti. è tutto chiaro, tutto chiaro. non si fanno ostaggi dal cielo: si cura
il terreno nella conferma, si traduce
il legame in distanzalaterale
amore mio riposa, abbreviati,
lasciati guardare da quei corpo a corpo, così come ti ho trovata ti ho amata
a guidare in stato di promessa
non c’è amore nella linea della frase
che si avvia verso il fondo, nel senso dell’inverno, nel fuoco della veglia non c’è amore, amore che si dica. sonno non ce n’è neppure.
e forse è questa la quiete più vera, più cara ai giorni e alle cose,
e questa è la scatola: la circostanza incustodita. le notti puoi vederla crepitare,
ingiallire sul corpo del padre; altri la chiamano ancora.
La sapienza compositiva e la conoscenza della letteratura nostrana permettono a Elena Salibra, docente di Letteratura italiana contemporanea a Pisa, di organizzare un testo metricamente mimetico con la tradizione, ma mosso, inquieto, ironico, dove si mescola il mito di Alfeo e Aretusa con l’occasione autobiografica, l’amore della coppia antica con la vicenda terrestre di un incontro culinario, che ha nel sugo “alla matacotta” il suo gioiello, la sua perfezione.
Il “Matelot” (marinaio) ora si gode i sapori di quel guazzetto antico e la bagnante fantastica un’avventura, “un martirio d’ortigia”, e se la porta in città, per scaldarsi in essa durante l’inverno. Una poesia costruita per scene, dove l’arcaico e il moderno cercano conciliazione: è il paesaggio siracusano a fare il miracolo, natura ancora capace di cantare le forze originarie della creazione, annullando gli orrori della storia, le sofferenze in cui ciascuno misura la propria inadeguatezza.
ricetta dieci
-alla matalotta-
l’ha abbandonata un giovane matelot
siciliana sulla spalletta
del lungomare d’alfeo lì dove
la strada si biforca e si chiude.
la vecchia cuoca dell’osteria d’ortigia
sventolava tra le ditaun foglio
con la scritta sbiadita alla matalotta.
non vi si leggeva avanti. il resto
si immaginava –pomodoro quanto
basta capperi al sale un battuto
di cipolle abbinati con sapienza
a pochi tocchi di spada cernia tonno
triglie. mi crogiolavoal sole meridiano
quell’estatenuotando a intervalli
da forte viglieri allo scoglio dei cani
quando le tue papille s’impegnarono
in una lotta di sapori. non era
nostalgia ma l’inedita cattura
di un mix di voglie ancora
in vita. dal mare l’isola
mi si distorceva un po’ -sghembo
sulla battigia del porto uno sgangherio
di gru nascondeva i ciuffi dei papiri
della fonte aretusa. almeno gustare
potevo un pane di casa
che sa d’alga marina e si sfarina
in bocca caldo di forno
a legna – no – si svisava anche quello
in una battaglia di giorno in giorno
condotta con tanti a che scopo
per combatterla meglio.
forse riesumando i sudori
nell’afa cittadina qualcosa rimarrà
d’un martirio d’ortigia non goduto
a pieno …