Gli "schiocchi di merlo" montaliani diventano Fischi di merlo nell'omonimo libro di Matteo Bianchi, e la parola da chiedere ai poeti, sempre sotto l'ala degli Ossi, si coniuga alla prima persona singolare: "Codesto solo oggi / riesco a dirti / e macchiato di realtà, / corrotto forse, / o meglio, distorto: / non so chi mai / mi cercherà / prima di rovistare / in qualche sillaba acerba."
Malgrado un citazionismo colto, con Saba, Ungatetti, Pascoli, Raboni, Verga disseminati nei versi brevi, il limite di questo libro sta proprio nell'acerbo che si respira di tanto in tanto. Certo l'età ha la sua parte in tutto questo (Matteo è nato nel 1987), circostanza che lo porta a raccontarsi usando una poesia dal forte impatto comunicativo, ma rinunciando sia alla ricerca stilistica – possibile anche nella linea sabiana, come dimostrano alcuni poeti nati negli anni Settanta e Ottanta – e sia all'azzardo che, alla sua età, ci si aspetta quando si dice amore. Specie se tormentato. Il fatto è che questo giovane poeta ferrarese è un moderato per scelta, un bravo ragazzo che pensa alla poesia come un luogo carico di nostalgie, dal quale lanciare messaggi (molti infatti i testi con dedica). La preoccupazione comunicativa costringe l'elemento tensivo ad acquietarsi in un ritmo regolare, immersivo, al fine di essere compreso. Non c'è nulla di male in tutto questo, ma certo risulta assai innocuo rispetto alle lacerazioni che stiamo vivendo. E che un lettore attento si aspetta dalla poesia, per andarla a cercare. Non bastano le sillabe acerbe o i fischi di merlo per chiedere udienza in un panorama poetico ricco come quello italiano; si pensi, per restare nell'area generazionale, a come piantano il coltello nelle contraddizioni della loro città Nader Ghazvinizadeh e Roberta Sireno, parlando di Bologna.
Più convincenti mi sembrano i suoi lampi definitori, gli improvvisi in cui l'identità si dà scacco, ma senza troppo piangersi addosso: "Sono beato / tutto sommato / di questa calda / tacita oscurità" oppure "Non c'è sollievo / a questa nostra fine // Entrambi saremo / almeno tutt'uno / con i nostri / disincantati / secondo fini". Quello che da lettore chiedo a Matteo è che la sua parte animale, quel lupo che ciascuno nasconde, come scrive a pagina 16, finalmente prenda la parola per dialogare con la sua intelligenza, così da forgiare strutture snelle in cui labirinto e passione, letture e selva siano amalgamate dallo stile. Colloquiale, certo, ma come di voce che cammina sui carboni ardenti.
Molto diversa è la lettura di Mario Specchio (1946-2012), che insegnò Lingua e letteratura Tedesca all'Università di Urbino e Siena.
«Non sono accattivanti queste poesie di Matteo Bianchi, al contrario. Graffiano con la precisione di un diamante la cui luce trascorre sulle cose prima di abbagliare gli occhi di chi le guarda. C'è una saggezza amara e antica in questo giovane poeta che sembra aver diluito il futuro prima ancora di averlo vissuto e mostra la maturità di cui parlava Mauriac quando scriveva che si ha l'età delle proprie sofferenze. Matteo Bianchi ha introiettato la lezione di Montale e gli "schiocchi di merli" del poeta ligure sono divenuti 'fischi', suoni prossimi alla vocalità eppure sempre trattenuti in un al di qua della coscienza dove la città e le sue strade sospese in una magia dimessa, gli amici e gli amori, i ricordi e i presagi parlano solo quando tutto è stato detto e le parole sono chiamate a testimoniare, attraverso un gioco di echi e di rimandi analogici, ciò che resta di quel silenzio: "Ciascuno nasconde un lupo / che schiva la vista altrui / e si ripara alla penembra, / nell'armonia dei sensi bui." È questa dimensione 'notturna' che colpisce in queste liriche, ma proprio perché il buio non arriva mai ad annullare la luce bensì ne rende più perspicua la trasparenza: "Si impara a masticare / pure la polvere lunare: / il peso dei sogni caduti." Matteo Bianchi si è sottoposto ad un duro e periglioso apprendistato, quello che prende le mosse dal segno meno, dal negativo della vita e della storia e lo ha fatto con determinazione e consapevolezza. Consapevolezza anche di possedere strumenti espressivi già straordinariamente affinati e resi lucidi da una sapiente miscelazione di passione e rigore entro cui la sordità della vita e il crudele arbitrio della morte si annunciano minacciosi, ma altrettanto vigorosa è la difesa apprestata dalle parole, una corazza morbida come la pelle e resistente come cristallo di rocca, "ma la mia pelle sarà dura / la mia pelle sarà di ghiaccio."»
Per chi volesse farsi un'idea personale, l'ottima occasione è a portata di mano: martedì 20 novembre, al Bistrot di Venezia, il libro sarà presentato da Paolo Ruffilli, editore e notissimo poeta.
da Fischi di merlo (Edizioni del Leone, 2011)
I merli si prendono gioco del mio quartiere
cantando prima ancora che albeggi.
Risparmiano a chi dorme di sasso
lo sconto duro della sveglia
e dei sogni remoti,
difficili da riportare alla mente:
sono spasmi del cuore
da lasciare intorno agli occhi,
fuori dal quadrante.
Meglio un fischio di festa,
conscio però del suo tentativo
di volare oltre ai balconi di panno,
prima che riparta il giorno;
come al disco in vinile manca una nota
o la ruota non si adatta alla strada,
così la penna alla carta,
alla schiena del merlo,
rovente si stacca.
**
Semmai incerto,
hai avuto fortuna
qualcuno ti cercasse,
prima di ascoltarti
sugli scabri scalini
di troppe lune passate
ad indagare
il tuo limite disperso.
Codesto solo oggi
riesco a dirti
e macchiato di realtà,
corrotto forse,
o meglio, distorto:
non so chi mai
mi cercherà
prima di rovistare
in qualche sillaba acerba.
Scrivo per me,
anzi, per quello migliore
che ha partecipato
sin da principio
meno degli altri
e tu sapevi bene
quanto invece conterà;
quello che sta dietro
le quinte dell’animo
e tira il fiato per noi:
serba per te, per l’altro,
per tutti i figuranti
e solo, infine, per sé
un mestolo di ambrosia
e di nettare pulito
dalla fragile accozzaglia
che ci è davanti.
**
Ciascuno nasconde un lupo
che schiva la vista altrui
e si ripara alla penombra,
nell’armonia dei sensi bui;
ma quando appare la luna
il dannato cosciente
evade dalla norma
e balza tanto in alto
quasi da afferrarla,
l’ispirazione a volare via.
**
Sotto il tono dello slancio
andava il semaforo
e iniziava a lampeggiare;
autorizzavo il mio passaggio.
Quando si storce un ingranaggio
e si è distratti dalla posta in palio,
sfugge un istante al guinzaglio
per uno scherzo di senno
che non afferriamo …
i remi si incagliano
nei tralci fioriti della discesa,
la canoa molla il guado
e svampita
la Speranza di una vita,
in prua, nostra compagna
si dà alla fuga
un poco annaspando.
Si rassereni, Lei,
che leggerà questi versi
caduchi in altra forma,
ricordando Sé sulla riva
che mi guardava
mentre affondavo,
scomparendo nel fango.
**
Penavo nel farti bastare
la mia poesia interpretata;
ieri non ti tastavo,
oggi nemmeno ti sfioro.
Avrei obbligato tutta la vita
frusciare nelle fronde,
per aiutare
le tue ali straziate
a ritrovare il salto,
non la salita.
Si agitavano i rami intanto,
l’erba trasaliva
e il vento scrosciava …
a colmarmi, il fogliame
dei nostri silenzi
distanti un paio di passi.
I fiori di ortica estasianti,
venuti alla luce a fatica,
vermigli, cocenti
in fuga dal padre:
Efébo taceva nell’arsura
che mi imponeva.
E i ramarri sulle rocce
a sangue freddo,
si godevano le larve
delle cavolaie indifese,
cangianti.
**
È una folle impresa
andare a caccia dell’amore
che ha tracciato l’altro me
come brezza sulla sabbia
dalla violenza della risacca lontana
pochi tratti, qualche ruga …
e un momento dopo è svanita,
è uscita dal bagnasciuga.
È un’assurda pretesa
il desiderio così distinto
nel mare caldo del compagno:
il mio egoismo ha vinto.
Se fosse poi una pozza amara?
Che importa, pesa la quiete
del vento camminato insieme,
non la fanfara della corrente.
Proverò allora di continuo.
Almeno ora …
finché l’anima mia non avrà scordato
l’onda che si schianta tra gli scogli
da un dì all’altro e per sempre
compagna eterna di una vita assente.
**
Perché a volte
fa così ribrezzo
essere ciò che siamo?
Uomini
e nulla più?
I fili d’erba
avvertono la debole brezza
solo quando accarezza il suolo.
**
Avere la via tutta per sé
possederla seppure scomoda,
ciottolata assolata
là in mezzo al paese.
Avere intorno le case
ad altezza d’uomo,
alla tua misera altezza:
quella quotidiana
che scansi davanti alla specchio
ogni mattina.
Le rondini accaldate
scendono a terra,
non giocano
sul marciapiede del viale
e la gente è ai balconi,
affacciata alle finestre ingiallite
delle case basse del porto.
Un’assurda indifferenza
ti attraversa, ti pervade
il fragore schivo del mare
frammisto all’intimo odore
degli usci delle case.
Perché continuare
a camminare?
Mi voglio fermare.
Matteo Bianchiè nato nel 1987 a Ferrara, città nella quale si è laureato in Lettere Moderne; oggi studia Filologia e Letteratura italiana presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. A. distanza di tre anni è andata in ristampa la sua prima raccolta: Poesie in bicicletta (Este Edition, 2007): terzo premio Niccolini '10, finalista al Premio Rhegium Julii '08. Ha inoltre ottenuto buoni risultati in vari concorsi letterariper l'inedito - a livello nazionale - vincendo due edizioni del Premio Caput Cauri '09 e '06, nonché diverse edizioni del premio cittadino Dante Alighieri. Suoi testi sono apparsi nelle antologie poetiche Svuotatasche dell'anima '10, Sedici poeti ferraresi emergenti '09, Città della Spezia '08, e nelle riviste Alpha Litterae, Isola Nera, Poeti e Poesia e L'Ippogrifoperiodico ufficiale del Gruppo Scrittori Ferraresi. Ha fondato l'Associazione Culturale Gruppo del Tasso insieme ad altri giovani artisti, della quale è presidente. Ultimamente tiene la rubrica di critica d'arte Icaro sulla rivista letteraria II libro volante (La Bancarella Editrice, Piombino), collabora con SITI, trimestrale di attualità e polìtica culturale dell'Associazione Città e Siti Italiani patrimonio Mondiale Unesco, e ha prefato la silloge Poesie dimenticate (TLA, 2010) dì Gìosuè Arnone.