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Eleonora Gallitelli: Towards a Global Literature. Verso una letteratura globalizzata

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In esclusiva per Blanc, una sintesi del recentissimo convegno sulla letteratura globalizzata che ci ha regalato Eleonora Gallitelli.

Il 10 aprile, alla Casa della Cultura di Milano, Tim Parks e Edoardo Zuccato hanno presentato il numero 48 della rivista “Testo a Fronte”, dal titolo Towards a Global Literature.Verso una letteratura globalizzata, che raccoglie i contributi dei partecipanti al convegno tenutosi a Milano dal 10 al 12 ottobre 2012 a coronamento di un progetto di ricerca biennale patrocinato dall’università IULM.
Nicola Vitale, che ha coordinato l’incontro, ha parlato, con una metafora ippica, di un “salto dello steccato”: oggi, diversamente dal passato, chi scrive un romanzo spesso pensa già al mercato globale, quindi tende a semplificare lingua e intreccio per facilitare la traduzione, aggirando in tal modo le problematiche messe in campo dalla traduttologia.
Si parte, insomma, dalla percezione di una discontinuità. Alla radice del mutamento, sostiene il romanziere, saggista e traduttore Tim Parks, sta la rottura del legame tra lingua e comunità nazionale che proprio il romanzo aveva contribuito a saldare nel corso dell’Ottocento, per fare spazio all’idea di una comunità internazionale.
Ma come può darsi una comunità senza una lingua comune? A sostegno dell’ideale della world literature intervengono, per esempio, premi internazionali come il Nobel. Tim Parks scorge un’analogia tra la competizione per il più prestigioso premio internazionale e i mondiali di calcio, intravedendo dietro entrambi il perseguimento di un fine comune: la letteratura da una parte, lo sport dall’altra, diventano gli strumenti per rappresentare un nuovo tipo di “comunità immaginata” di proporzioni globali. Mentre, però, nel calcio le regole del gioco sono chiare, nella gara per il Nobel sorge un problema di tipo tecnico: “Come si fa a paragonare una poesia messicana con un romanzo giapponese?”, si chiede Parks. Eppure non c’è dubbio su quale delle due sfide prendiamo maggiormente sul serio.
Certo non tutti i romanzi vengono progettati per l’internazionalizzazione (anche se questo può succedere, come nel noto caso di Kazuo Ishiguro); è indubbio, però, che alcune forme narrative si prestano meglio di altre a essere lanciate sul mercato globale. Pensiamo a romanzi come quelli di Peter Stamm (di cui è presente un contributo nella rivista), straordinariamente inquietanti nella loro semplicità, oppure ai gialli di Camilleri, che offrono al grande pubblico un bozzetto caricaturale di piccole comunità locali, o ancora ai testi del realismo magico, una delle modalità narrative più diffuse del global novel, proprio in virtù del legame puramente schematico ai luoghi e del ricorso a figure stereotipate (si veda il saggio di Fava per la recente reazione del movimento McOndo, in Sudamerica), che lo rendono facilmente consumabile all’estero. In tutti questi casi si tratta di libri che possono essere apprezzati senza avere una conoscenza intima della comunità di riferimento.
L’India è spesso considerata il luogo paradigmatico del “conflitto” tra globale e locale. Basti pensare alla distanza in termini di lettori e di introiti che separa le fiabe postcoloniali di Arundhati Roy e Rushdie, scritte in inglese (parlato dal 5% degli indiani) per spiegare l’India al mondo e inclini a una condanna buonista delle violazioni dei diritti umani, dai bellissimi romanzi in lingua kannada (una delle ventidue lingue nazionali indiane) di Ananthamurthy, molto amati in patria ma di difficile decodificazione per un pubblico occidentale, estraneo alle pratiche culturali o rituali descritte.
Arriviamo così al cuore del problema, la traduzione. Oggi un’opera viene tradotta ancor prima di essere pubblicata nel paese di origine per poter usufruire di un lancio pubblicitario internazionale. Così, in tutti i paesi del globo, nello stesso momento, abbiamo o crediamo di avere lo stesso Harry Potter o lo stesso Stieg Larsson. Sembra verificarsi la previsione formulata da Calvino nel 1965, secondo cui ogni lingua avrebbe sviluppato “un polo di immediata traducibilità nelle altre lingue […] e un polo in cui si distillerà l’essenza più peculiare e segreta della lingua, intraducibile per eccellenza”.
È qui che la polarità nazionale/internazionale si aggancia alla dialettica tra globale e locale, come osserva Edoardo Zuccato. Da poeta e studioso che ha per lingue di lavoro l’inglese, l’italiano e il dialetto altomilanese, Zuccato è interessato al diverso statuto di queste tre lingue nel mondo contemporaneo. L’inglese, va da sé, è il principale veicolo della letteratura globalizzata. Ma oggi è talmente differenziato, talmente ramificato, che al suo interno si è prodotta una situazione di centro/periferia (si dice che gli scrittori postcoloniali rispondano, write back, alla madrepatria). Se, però, questi autori fanno leva su concetti tipici delle lingue minoritarie, la loro posizione, sfruttata in vari modi, è quella di una minoranza nella maggioranza di lingua inglese.
Che tipo di inglese è quello degli scrittori postcoloniali? La tendenza è duplice. Da un lato, si ha una lingua per lo più semplificata, traducibile; dall’altro, si osserva uno stile riconducibile alla categoria estetica dell’ibrido, molto di moda presso i critici, cioè un inglese arricchito da parole straniere o ricalcato su strutture della lingua del paese da cui proviene l’autore per suggerire appunto la sua origine esotica. Talvolta, trattandosi di autori monolingue anglofoni, non si può neanche parlare di calco, semmai di simulazione di calco; in altri casi, si è di fronte a scrittori bilingue o plurilingue che scrivono in inglese, ma quasi mai ammettono di farlo per avere successo o semplicemente per essere pubblicati. Descrivono le loro opere come delle “traduzioni”, quasi fossero metatesti di un originale non scritto, per cercare di aggirare il problema della traduzione interlinguistica in senso stretto, che rende più difficile per i testi circolare a livello internazionale (le traduzioni coprono appena il 2-3% dei titoli pubblicati in lingua inglese). Queste “traduzioni culturali” – raramente si riflette su questo punto – spesso incontrano una ricezione ostile, o quanto meno poco entusiasta, nei paesi di origine degli scrittori.
Il paradosso è che questo iato tra nazione e narrazione è molto meno sentito nell’epicentro della globalizzazione economica, gli Stati Uniti, dove uno scrittore come Jonathan Franzen può dilungarsi per pagine e pagine entrando sin nei dettagli più minuti, perché in fondo, dice Parks, “sappiamo tutti com’è un soggiorno americano”. Se consideriamo che in Italia il 70% dei titoli pubblicati è coperto dalle traduzioni, che a loro volta nel 75% dei casi provengono da testi anglofoni, l’effetto cumulativo di rafforzamento culturale è evidente.
Per questa ragione, rimarca Zuccato, essere marginali dentro l’inglese è molto diverso dall’esserlo in qualsiasi altra lingua. Tipicamente, lo scrittore “minoritario” vende poco, non trova pubblico. Gli scrittori “periferici” inglesi vivono, al contrario, la condizione schizofrenica di chi sceglie come soggetto dei propri libri la sua comunità di origine, parlandone però con altri, rivolgendosi a un’élite transnazionale che a quel soggetto non è minimamente legata. Gli scrittori realmente “minoritari” (si pensi, per esempio, ai poeti fiamminghi pubblicati in Italia da Mobydick), pur non avendo niente da invidiare ai poeti di lingua inglese, circolano infinitamente meno. Zuccato propone allora un’estensione della ricerca, per vedere in quale misura la globalizzazione tocchi la poesia e il teatro: come non tanto le poesie inglesi quanto le loro traduzioni italiane impattino sulla scrittura dei poeti italiani.
Tra i tanti temi toccati nell’incontro c’è poi la novità delle antologie americane di letteratura mondiale (approfondita nel saggio di Giovannetti), che raccolgono brani da ogni epoca e latitudine - ma sempre in traduzione inglese - senza fornire alcun contesto, dando così l’impressione che non sia necessario “entrare” in una cultura per godere dei suoi frutti. Ferruccio Capelli, direttore della Casa della Cultura, parla a buon diritto di “disintermediazione”, di rottura dei corpi intermedi, per definire l’orizzontalizzazione che tocca oggi anche, ma non solo, la vita letteraria (si pensi al boom del self-publishing).
Insomma, siamo in un periodo di profondi cambiamenti e, concludono Parks e Zuccato, per quanto, in un primo momento, la situazione possa sembrare sconfortante, esiste un lato positivo: a noi è toccato il privilegio di osservare il nuovo che avanza.



Eleonora  Gallitelli ha conseguito il dottorato  di  ricerca in Letterature comparate presso  l’università  IULM  di  Milano  con  una  tesi  sul  ruolo delle  traduzioni  letterarie  dall’inglese  in  Italia  dal  Risorgimento  alla contemporaneità. 
Lavora come traduttrice di narrativa inglese per Mondadori, Laterza, Sagoma, Internazionale.  Collabora con la rivista di traduttologia “Testo  a  Fronte” dal 2011.

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