L’inquietudine e lo spaesamento, in cui ci colloca la prima poesia de Il mondo nelle cose (Lietocolle, 2013) di Nadia Agustoni, ci dicono la qualità di questo libro, la sua non omologazione ai linguaggi poetici più à la page. Il verso incipitario (“quando c’è chi va nel buio in alto”) spiazza perché l’andare, di solito, è orizzontale, o semmai, essendo nel buio, diretto agli inferi o nei sottoscala della ragione. Qui invece qualcuno o qualcosa, sale, ma non vola, eppure la sua forza muove “seggiole forchette bicchieri”. Mi ricorda (e questo è un pregio) le atmosfere di Ida Travi, il suo adunare i vivi e i morti nello spazio della relazione turbata. L’inquietudine linguistica deriva dall’organizzazione sintattica del discorso, che non obbedisce alla norma, che scarta come farebbe chi non fosse padrone del codice; due esempi estremi: “i vivi siano quello che fa il bene” o “e dentro stare il modo di foglie”, due endecasillabi (il secondo per dialefe tra la quinta e la sesta sillaba), due passaggi di un discorso accidentato che diventa più chiaro, giustificandosi, quando l’autrice presenta i due personaggi protagonisti: Venerdì e Crusoe. La lingua barbara dell’incipit potrebbe invero essere quella di tutti i Venerdì: esseri naturali o migranti in un mondo in cui “gli angeli” sono “uguali alle mosche” e l’orizzonte di senso sta racchiuso tra “i sacchetti dei ristoranti” e “le tavole dove si spolvera”; ma, più profondamente, è la lingua stessa di questo libro, destrutturante, mai pacifica, attraversata dall’emozione e dal pensiero contemporaneamente, ad essere il Venerdì della nostra isola-mondo. Anche Crusoe, del resto – il bianco defoeiano, che tiene in ordine la selva e vorrebbe addomesticare il buon selvaggio – qui non è un vincitore, ma patisce la propria sconfitta e l’impossibilità di raccontarla. È la stessa disgrazia che capita all’agrimensore kafkiano nel Castello, segretamente citato dalla Agustoni: l’inettitudine e l’emarginazione pervadono infatti tutto lo spazio del moderno, nella misura in cui meccanismi burocratici di spersonalizzazione riorganizzano il nostro tempo, alienandolo dai ritmi naturali e dalle relazioni: “Nei canali trovava detriti, un abbandono più duro della terra. L’acqua spinge a riva la sua poltiglia”; è questo il ritratto in prosa del soggetto odierno. E in questo, Venerdì e Crusoe si assomigliano. Non stanno agli antipodi dialettici, l’uno tra gli sfruttati e l’altro fra gli sfruttatori, bensì sopravvivono malamente nel tempo della povertà, aggrappati come naufraghi alle cose, a quello che Guido Oldani chiama il realismo terminale dell’occidente.
A legare formalmente i due uomini – similissimi alle maschere beckettiane (Venerdì “faceva una luce più chiara e gli insetti abitavano i vestiti, a volte è un formicaio che le briciole appese alla bocca”) o a Medoet e Wener dell’anniniano Ritratto di un amico paziente– è la coniugazione dei verbi all’imperfetto, a dire di azioni compiute in una stagione non definita e ora non più praticabili: ascoltava, parlava, conosceva, viveva, mostrava eccetera, come a dire che c’è stato un tempo in cui la vita stava a piombo con le coscienze, mentre ora non si può che ricordare, e forse nemmeno quello. Ai due naufraghi silenziosi, raccontati magistralmente attraverso il naufragio della parola poetica, non rimane che tenersi stretto il relitto a cui si sono aggrappati: sia esso il semaforo da dove lavare i vetri o “un futuro di sale d’attesa” dopo inevitabili malattie, circumnavigando mappamondi come già aveva tristemente suggerito Milo De Angelis in una delle sue più belle poesie.
L’ultimo capitolo del libro vede al centro Pasolini, che diventa il nostro stesso corpo martoriato, “Virgilio degli infermi e del bosco”, emblema di una resistenza culturale non ancora sconfitta per quanto i segni del contrario siano leggibili ovunque. Una resistenza non violenta, come Nadia Agustoni ci aveva insegnato ne Il libro degli haiku bianchi (Gazebo Verde, 2007), scrivendo: La preghiera, se c’è una preghiera possibile, è istante vivo: dire la semplicità. Sia o non sia esaudita, rimane un senso. Significa. Anche se dimentichiamo”. La poesia, se non è fare il verso ai maestri, bensì incisione nella propria carne di un destino, aiuta proprio a non dimenticare l’impossibilità del ritorno all’origine, ma anche ad abitare la ferita, dandole un nome.
Da Il mondo nelle cose
quando c’è chi va nel buio in alto
in casa muovono seggiole forchette bicchieri a volte
nei vetri suonano casa sembra pareti sembra coniglio
avere paura fino al prato.
ci credi la casa un mare
il diluvio dei muri, i minuti
il numero dei morti negli abiti stesi
nell’aria, ci pensi casse leggere
paese rimasto cortili
gente che crede al ciclope
ai mostri alla televisione:
“sono con i musi di allora e foglie piccole
come del mondo dare il pane
il tempo contato nel tempo
ma rimasti a pensarci
come il bene di prima.”
i vivi siamo quello che fa il bene
gli uomini sono tavoli
il mangiare della terra
guardare le rose, capire:
darai essere nato, scavare
inverni, ma rame nelle gambe
salire, così nelle spalle sacco
fare tempo, i polsi
quasi vivi quasi polvere
leggere col dito queste parole
e dentro stare il modo di foglie
andare via:
qualcosa è abitudine qualcosa non sa qualcosa
(nel volto guardare
dopo sappiamo piangere
gli occhi cresciuti
come crescere le piante
in basso le radici
ali sciolte di insetti
staccate presto prestissimo
dalla vita).
la vita è perché i temporali fanno questo spavento
nessuno lo dice
i morti graffiano il vento sulle mani, portano cose
portano giorno prendere viso braccia.
**
venerdì
scavava arance col cucchiaio
e malta nel cortile con dita
sbucciate, dai balconi coglieva
l’odore di terra verde
coi germogli:
la vita era torace e ossa
andavano magri
al controcanto di fabbriche
li prendeva nella schiena
un mare rosso
con foglie di vite e uva nera
li incoronava.
**
seminava aiuole
nell'inverno - un Dante
azteco e gabbiere
al supermarket -
aggrappato a carrelli
a cassette di frutta
(nei giornali sportivi
metteva consonanti
e l’orologio gli andava come a Lima
o nella Terra del fuoco)
nel parterre di un ipermercato
un contuso Venerdì
tra réclame e luci elettriche
sbircia toilette per cani
e dice “cane” il mondo.
**
era qualcosa nel freddo
il colore della nafta e cisterne
l’agonia dell’aria sui cancelli
- ma il cuore degli uomini se graziato
risponde con un mantra di sirene
di fabbriche e vento sporco -
e i camion sulla camionabile
coi clacson cantavano il purgatorio:
“Dante quassù avrebbe sognato
la fissione dell’atomo o Hiroshima”,
e di nuovo autostrade
un valico a nord ovest
con la terra azzurra
il cielo azzurro di Vicchio
e sopra l’Appennino,
nel temporale, quella luce
affrancata dal bene
così limpida.
**
amava la salvia sui terrazzi
il citofono di voci sgraziate
il buio d’afa nella cassetta
delle lettere:
i saluti arrivavano come stendardi
e passati di moda, internet
lasciava schegge più certe.
scriveva barchette di carta, aeroplani,
inventava un mappamondo
pianeti senza divieto.
**
in albergo baciava ragazzi e ragazze
coi polsi rotti e gli ossi che finivano in cima alle dita
quella melodia di prigioni di porte accese
da untori che a lui non bastava a lui
saliva la fame nei denti e sul letto
tra schiena e cuscino amava
nel rosso.
**
crusoe
conosceva la fine come nei muri anneriti
e nel bianco.
**
rimane illuminato
non voleva che qualcosa lo attraversasse, ma stava come una breccia, apriva il mondo. gli occhi dei conigli anche nella morte erano qualcosa come ghiaia, prendevano il piede, mutavano luce nella sera. dopo scambiava le stanze col pensiero delle gabbie, delle siepi della malva dietro i muri quando il buio rimane illuminato.
**
viveva con alveari e gesti di agrimensore
mostrava - più del sollievo -
un senso del pudore piantato
in giacche blu marina
e insieme il libro delle navi
istruzioni per l’uso del mare
e della terraferma...
con un pallottoliere
ammainò i discorsi - ma è incerto -
dicevano trasferisse
verbalmente la felicità
ma con barchette di carta traghettava.
**
il mondo nelle cose
il mondo nelle cose fino alle parole. nei canali trovava detriti, un abbandono più duro della terra. l’acqua spinge a riva la sua poltiglia, sembrava che le mani cogliessero un inferno di palcia, un interminabile margine ai margini di un giorno dove vanno sfollati i piedi, dove calza scarpe di gomma, dove il vento insegna la paura. guardava il sole, un agosto di trattori, l’erba dove la statale comincia a prendere tutto, a portare via.
**
in gabbie di conigli sanguinava
e gabbiani volavano
gli coprivano i sogni
conclusa con le pietre l’assenza
si ricredeva sui morti:
saranno nel vento di oggi
o attaccati agli spini
e il silenzio è quel viola delle labbra
il disuso.
**
Corpo Nostro PPP
corpo nostro cielo di guardare
ripeti la fiume pianura ripeti
le dita nel cavo della bocca
metti visceri di cagna all’aria
vita e lingua dove sono vita
e lingua e la cura è cura
del proprio tempo:
sii corpo pensato
sponda del corpo bandiera
straccio della carne che nasce
sventola rinasce e nelle mani
dei morti e dei vivi come
un suolo più grande della morte
Virgilio degli inferni e del bosco:
qui la partita giochi al sole
dei campi romani là era l’attesa
senza cose un fronte di palazzi
bricolage un cemento a fare
cervello come il caglio
di pecore nel collo giovane
a pastura a vento:
vai mulino ai giganti
indossati veste d’arme
scrivi l’infinito dei gesti
quel che cade e si alza
e si alza ancora e sii piazza
vermiglio sonetto sulla luce
bianchissimo giorno:
scrivi come l’ossigeno
e soffione a dire bocca
il campo viene campo
per crescere città là nel fuori
diavolo e sangue fiori di poco
scrivi senza la legge del libro
senza il male:
Nadia Agustoni (1964) ha pubblicato per Gazebo Edizioni i seguenti libri di poesia: Grammatica tempo( 1994), Miss Blues e altre poesie (1995), Icara o dell’aria( 1998), Poesia di corpi e di parole( 2002), Quaderno di San Francisco (2004) e Dettato sulla geometriadegli spazi ( 2006), Il libro degli Haiku bianchi( 2007) . Nel 2009 è uscito per “Le voci della luna” Taccuino nero.
Nel 2011 sono uscitiIl peso di pianura per LietoColle, il Pulcinoelefante Il giorno era lucee la plaquetteLe parole non salvano le paroleper i libri d’arte “Seregn de la memoria”.
Collabora a varie riviste e a blog letterari.
Attualmente vive e lavora a Bergamo.