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Ercolani-Frisa, "Il muro dove volano gli uccelli"

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Il muro dove volano gli uccelli(L’arcolaio, 2013), scritto da Marco Ercolani e Lucetta Frisa, raccoglie le divagazioni dispercettive scritte in quasi vent’anni di curiosa visitazione del mondo pittorico, in cerca di quell’istante originario in cui nulla sta per diventare qualcosa, di quell’essere in fieri che d’improvviso si mette in opera, si gestualizza in uno spazio poi chiamato estetico. il primo saggio, Graffiti, ci dà le coordinate di base, parlando dell’opera quando “non è ancora un regno stabile, una certezza che azzera le ipotesi, ma una potenzialità creativa, uno sconvolgimento del linguaggio che annuncia l’inesprimibile”.

Questo libro, ben curato editorialmente, indaga il mistero della creazione, e quanto questa s’incarni nella biografia; le considera entrambe – creazione e biografia – opere mai pienamente compiute, reciprocamente in dialogo drammatico. Il dipinto o la poesia, c’insegnano Ercolani e Frisa, nascono dal questo conflitto, e quanto più l’opera mantiene il carattere del frammento, della provvisorietà, tanto meglio porta “alla luce il gesto ferino”, che ci appartiene antropologicamente e che la società tenta di addomesticare, incanalandolo nell’agire istituzionalizzato. Per salvare l’animale che parla nell’opera, e per tramandarne l’importanza nell’equilibrio delle forze visibili e invisibili, il libro ci racconta di vite frante, inette nel tenersi in piedi: di Michaux, per esempio, e di Giacometti, Artaud, Nicolas de Staël, suicida per non essere riuscito a realizzare l’opera assoluta, come lo fu simbolicamente Rimbaud, quando smise di scrivere poco più che ventenne.

La prima parte de Il muro dove volano gli uccelli– titolo omaggio agli Oiseaux di Braque e ispirato da una frase di Nicolas de Staël (“Lo spazio pittorico è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente”) –  oltre a una splendida disamina della scultura giacomettiana, mossa dalla consapevolezza che la “realtà è il brulichio, l’erosione, i buchi, i pori che si aprono nelle cose e nei volti”, affronta il tema del perturbante nel ritratto e, ancor più, nell’autoritratto, riprendendo (pur senza citarlo) le riflessioni di Emmanuel Lévinas su volto e esteriorità, sviluppate nella terza sezione di Totalità e infinito. Il volto, scrivono Ercolani-Frisa, “è ciò che trapela, come enigma, dalla superficie del viso”. Maestro fu Rembrandt nei suoi autoritratti, il quali, con quelli dipinti da El Greco e dal Goya, “annunciano consapevolmente lo sgretolamento dell’unità rappresentata dal viso dell’uomo; testimoniano i segni di una lotta, la fine di un equilibrio idealizzato”. In fondo, una buona poesia è sempre un autoritratto, nella misura in cui visibile e invisibile, trasparenza e opacità, sono egualmente evidenti eppure mai esauribili in un’interpretazione univoca. Ciò indipendentemente dallo stile. Che tra l’altro in questo libro è preciso, mai ridondante eppure labirintico, nel migliore spirito della saggistica contemporanea.

Nella seconda parte del Muro, troviamo sessantuno brevi “dispercezioni”, che invero, a dispetto del termine, che rinvia ad un vedere distorto, malato, sono una lucida descrizione di altrettante opere di artisti occidentali, pittori, scultori, fotografi, sorta di brevi recensioni dello spazio tensivo, coloristico, emozionale e storiografico, che costituisce l’immaginario contemporaneo, da Giovanni Pisano a Velasquez, da Rothko a Lorenzo Lotto.

L’operazione, pur differente nello stile, si affianca a quella di Marco Furia, che, ne La parola dell’occhio (Edizioni L’Arca Felice, 2012), si misura con la possibilità di dire la pittura, di raccontarla da poeta, tanto da condurci dentro l’opera, quali ospiti graditi. E va ricordato La vita dei dettagli(Donzelli, 2009), di Antonella Anedda, altro viaggio nel mondo del visibile e del frammento, compiuto nel calore bianco della parola poetica. In sintonia con quanto detto finora, e per converso, mi piace ricordare il lavoro di Sergio Marinelli, ordinario di Storia della Critica d’Arte presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, i cui ultimi due libri, La Galleria (I, II, III, 2011-2013, Scripta edizioni) distillano in versi, spesso ironici e sempre eleganti, centinaia di opere pittoriche visitate in tutto il mondo. Se con Furia, Anedda, Ercolani e Frisa, sensibilità poetiche incontrano l’arte visiva, con Marinelli, la teoresi lascia lo spazio al verso, sempre comunque per mettere a fuoco l’immensa via d’uscita dalla crisi dell’occidente, via che l’arte incarna, chiamandoci alla responsabilità della scelta difficile, non convenzionale, a un dire fuori dal gregge, creativo per necessità esistenziale, a un dire eretico, contestativo del dogma, sia questo fondato sull’ottimismo acritico o sul pessimismo catastrofista, altrettanto acritico.



La malattia dell’illuminazione

Gli uccelli di Braque sono molto più pesanti dell'aria, come sono realmente gli uccelli, ma volano meglio di tutti gli altri, perché, come i veri uccelli, 

partono dal suolo,
ridiscendono a nutrirsene
e ripartono in volo.

                                    Francis Ponge

Una irriducibile eresia si propone come potente atto creativo. «Più voi capirete che l’esplosione è tutto, in me, come si apre una finestra, e più capirete che non posso fermarla rifinendo meglio le cose, e più capirete questo più avrete veri argomenti per difendere ciò che faccio (1955)». Così Nicolas de Staël afferma che l’esplodereinfinitodell’atto artistico mai si concilia con la necessità di rifinire i contorni del dipinto. «Io credo all’azzardo, esattamente come voi, con ostinazione costante (1954)».

Così Maria Zambrano descrive il Don Chisciotte di Cervantes: «…ha inventato se stesso. Ha condotto il proprio sogno di libertà tra le realtà. Ma, siccome la realtà non lo ospitava, ha dovuto trasformare la realtà nell’unico modo a lui possibile, sognandola». Le sue parole ci fanno pensare a de Staël, che trasforma la realtà nel sogno appassionato di rappresentarla. «Troppo vicino e troppo lontano dal soggetto, non voglio essere sistematicamente né l’uno né l’altro, e con questo all’ossessione ci tengo, perché senza ossessione non farei nulla, ma l’ossessione del sogno o l’ossessione diretta, non so quale sia la migliore, e poi di fatto me ne frego, visto che questo si equilibra come può, di preferenza senza equilibrio. Il contatto con la tela lo perdo all’istante, lo ritrovo e lo perdo. Bisogna pure che io creda all’accidente, non posso che avanzare di accidente in accidente, fin da quando la sento troppo logica la logica mi snerva e va naturalmente verso l’illogico (1955)».

L’ossessionediretta sembra essere la realtà che i suoi occhi vedono e non possono rimuovere, e l’ossessione del sogno l’interpretazione di questa realtà nei modi luminosi e deformanti della ri-creazione. De Staël non vuole stare vicino al soggetto del quadro ma neppure troppo lontano. Lavorando nel crinale tra forma e non-forma, non soggiace al rigore dell’informale e alla prevedibilità della figurazione. Ha fiducia in una logica totale che, nella sua assolutezza, tende all’illogico. Non avanza per teorie sistematiche ma fa un viaggio irregolare e personale attraverso piccoli accidenti e minime catastrofi, inseguendo i dettagli della sua ossessione nel presente del quadro a cui lavora.

«Sordo, muto, gli occhi che si abbassano ogni giorno a forza di guardare, farò dei quadri come potrò per i dieci anni che vi aspetterete dalle mie mani di pittore (1954)». «Ho ancora bisogno di elevare i miei conflitti a un’altezza unica, non fosse che per presentarli in tutta umiltà, e ciò indica molta familiarità con tutto ciò che traversa il cielo – andirivieni di ombre, luci, composizione fantastica, molto semplice, di elementi (1952)». «Dipingo come posso, e cerco ogni volta di aggiungere qualcosa elevandomi su ciò che mi soffoca. Non sono Jean-Baptiste Corot, non vedo che da lontano, e avere il naso sul quadro mi è impossibile, talvolta c’è troppo schizzo senza schizzo, soprattutto da vicino non c’è nulla, bisogna abituarsi di più a finire senza finire, ma non è facile…(1954)».

Pur volendo familiarizzare con le nuvole, l’occhio del pittore è costretto ad abbassarsi per guardarle meglio, per rifinirne il contorno: il mondo gli appare come un’architettura instabile, turneriana, dissolta da un eccesso di luce. Quella luce interna e vibrante è rappresentabile solo attraverso le cose dipinte, ostacoli e simultaneamente strumenti del suo viaggio interiore: «Si finisce per avere una sensibilità molto prossima alla follia quando si è vicini a quegli invisibili ostacoli che si scelgono sempre quando lo scacco è imminente».

Lo psicoanalista André Green parla di una psicosi rossa, “cruenta”, appassionata, che percepisce il dolore della distruzione, e di una psicosi bianca, atonica, indifferente, che va oltre il dolore di quella distruzione. De Staël sperimenta entrambi gli stati, spesso contemporaneamente, a volte prima uno e poi l’altro. Spalanca gli occhi per fissare la luce che cancella i confini delle cose illuminate. Realista fino alla veggenza, scruta il suo desiderio, eccessivo, di una forma che racchiuda, scorticata, tutte le vibrazioni, tutto il farsi e disfarsi della materia nella luce. «In de Staël la tragedia non si svolge in profondità, ma in una struttura complessa e vertiginosa, come le Carceri piranesiane. Se in van Gogh c’è sprofondamento, e poi dal basso un riaffiorare del colore, in de Staël c’è il crollo, lo scorticarsi sottile della materia come pelle esposta, sfogliata, L’andare al fondo di se stessi è per de Staël toccare una terra – inaccettabile per van Gogh – in cui suicidio e assassinio si equivalgono» (Antonella Anedda).

De Staël muore perché la sua opera è imperfetta. Perché lui, come artista, non realizza mai il quadro che vorrebbe. Muore per mancanza di equilibrio ed eccesso di desiderio. Qualcosa lo spinge sempre oltre, come se scalasse una montagna la cui cima si perde tra le nuvole: «Più si sale, più tutto si complica ed è impossibile, non ho mai abbastanza cielo in montagna».

Quantocielo vorrebbe de Staël? Quanta luce? Non c’è mai abbastanza luce o abbastanza cielo. L’opera è sempre annunciata, ma mai finita. Il pittore fa quello che può, con la luce delle sue forme cancella le forme del mondo visibile, le dissolve, ma non vuole un mondo altro da quello che sente e che vede dentro e davanti a sé.
Lo scacco di de Staël è la luminosa  autorità che lo spinge verso un’opera fedele alla luce che la assorbe e la pervade e l’oscura esitazione che gli fa sentire quella stessa opera come inadeguata. Non c’è corrispondenza fra il possibile, che si realizza, e l’impossibile, che si cerca. Georges Braque, venerato da de Staël, scrive: «Se dovessi cercare di vedere qual è il cammino dei miei quadri, direi che dapprima c’è un lasciarsi impregnare: poi – la parola non mi piace ma si avvicina alla verità – ne segue un’allucinazione, che a sua volta diventa ossessione e per liberarsi dall’ossessione bisogna fare il quadro o si muore».

De Staël, non ha saputo liberarsi del quadro. «Lo spazio pittorico» – scrive – «è un muro ma tutti gli uccelli vi volano liberamente». E ancora, in una lettera al poeta René Char, scrive: «Solo un poeta può mettersi lui stesso ai piedi del muro, peggior nemico e miglior amico di se stesso, e non esitare, semplicemente». Il pittore preferisce morire dentro quel «muro» ben sapendo che non potrà mai vibrare della sua folle utopia: il libero volo di tutti gli uccelli che lo hanno attraversato.

Si potrebbe dire, di Nicolas de Staël, ciò che Bernard Noël afferma di Artaud: «Artaud non scrive e non disegna come si scrive e si disegna: lo fa così eccessivamente e così costantemente che ne consegue un espandersi della vita fisiologica nella grafia che la raccoglie e la registra. È come un getto verbale. Un getto dove si distinguono serie di assonanze che si chiamano, si succedono, si completano».

A Pierre Courthion il pittore scrive: «È troppo facile definire assurdo ciò che essenzialmente è organico, vitale, ciò senza cui non si può vivere, e che forse sarà l’equilibrio di base per tutto ciò che verrà. No, è grave pronunciare una parola come questa, quando il punto più acuto di tutta questa bella storia è un’illuminazione senza precedenti».

La “malattia” del pittore è la ricerca, implacabile, di questa “illuminazione” che gli sfugge. La verità della pittura contemporanea è mostrare il cuore organico delle cose investite dall’aria e dalla luce. De Staël afferma perfino che quell’”assurdo” e quella verità saranno in futuro l’equilibrio dell’arte e del mondo.

Matisse, negli ultimi anni della sua esistenza, dipingeva con gli occhi bendati, benché non fosse cieco; voleva che la mano scorresse fluida sul foglio, guidata dalla matita o dal carboncino, perché lo tormentava essere schiavo del mondo che non avrebbe più visto. De Staël, invece, vivendo la sfida tra vedere e non vedere, considera la sua opera inadatta all’oltre luminoso di cui deve essere segno. Già il suo viaggio in Sicilia, in cui le forme trovavano simultaneamente una visibilità perturbante e un’abbagliata astrazione, è un flebile ricordo. Quadri come Route d’Uzès, Grand nu orange, Port de Marseille, Agrigente, – in cui la densità della materia pittorica si attenua per dare spazio a macchie colorate più ariose, più fluide, – sembrano  un’illusione del passato. L’impulsivo atto finale è imminente: il volo in cui il corpo si solleva, si innalza e, libero dalla vita e dall’opera, si schianta. 


Marco Ercolani nasce a Genova nel 1954. Tra le sue ossessioni il tema dell’apocrifo, il nodo arte/follia, la poesia contemporanea. Narrativa: Col favore delle tenebre, Taccuini di Blok, Vite dettate, Lezioni di eresia, Carte false, Il mese dopo l’ultimo, Taala, Il demone accanto, Discorso contro la morte, A schermo nero, Sentinella, Turno di guardia, Camera fissa. Poesia: Il diritto di essere opachi, Si minore. Saggistica: Il tempo di Perseo, L’opera non perfetta, Nottario. Con Lucetta Frisa cura i “Libri dell’Arca” per le Edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci e Il muro dove volano gli uccelli. Ha vinto il Premio Montano, il Premio Morselli e il Premio internazionale per l’aforisma Torino in sintesi. Sua ultima produzione la plaquette Prose buie e l’ebook Preferisco sparire. Colloqui con Robert Walser. Sito web: www.marcoercolani.it

Lucetta Frisa nasce e vive a Genova. Attrice, poeta, traduttrice. Opere poetiche: Modellandosi  voce, La follia dei morti, Notte alta, L’altra, Se fossimo immortali, Ritorno alla spiaggia, L’emozione dell’aria, Sonetti dolenti e balordi. Narrativa: Fiore 2103, Sulle tracce dei cardellini, La torre della luna nera. Ha tradotto opere di H. Michaux, S.J.Perse, A.Borne, B. Noël, P.Quignard, S.Durbec, J.Sacré, C.Esteban. Ha collaborato con i suoi racconti per ragazzi al quotidiano “Avvenire”. Con Marco Ercolani cura i “Libri dell’Arca” per le edizioni Joker e pubblica: L’atelier e altri racconti, Nodi del cuore, Anime strane, Sento le voci e Il muro dove volano gli uccelli. Vince nel 2005 il Premio Lerici-Pea per l’inedito e nel 2011 il Premio Astrolabio per l’opera complessiva. Suoi testi sono tradotti in antologie, riviste e libri collettivi. È presente in diversi blog letterari.


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