Polaroid stile impero (Raffaelli, 2013), di Veronica Tinnirello, è un viaggio nella memoria e nella crisi industriale, raccontato attraverso il filtro della poesia, intesa quale campo di forze tensive, nel quale paesaggio, soggetto e temporalità si danno in una sintesi estrema. Il diritto di essere opaca, la giovane Tinnirello se lo gioca del tutto e con perfezione architettonica, nella quale micro-asimmetrie si ricompongono in una voluta più ampia, che le giustifica, e distillando immagini metaforiche, spesso inesauribili nel loro segreto (“abito l’ingranaggio / e lascio appassire / ai miei piedi / le code piombate / del cecchino”), o perfettamente chiuse nel proprio scrigno (“una cagna dal perimetro / rabbioso ci accorcia”), con grande attenzione all’uso degli aggettivi, non di rado usati in modo originalissimo: “vento pastoso”, “corpo domenicale”, “pelli liturgiche”.
L’ossimoro del titolo, rilevato ma non approfondito da Francesca Serragnoli nella Prefazione, diventa emblema dell’intera opera, ne cuce i due lembi: da un lato la fugacità del presente, l’effimero succedersi degli istanti, degli scatti, dall’altro il desiderio di rifondare l’antichità imperitura, il potere degli uomini sul tempo. Ma è un desiderio che la crisi contemporanea ha spazzato via in Occidente, e se n’è accorta molto bene la poetessa, figlia di operai in una città, Prato, cresciuta intorno al tessile ora in crisi, sostituito dal prêt à porter cinese. Fabbriche dismesse, spazi testimoni di un impero che non tornerà (se non nella sua veste di illegalità diffusa e clandestina), qui raccontate non con piglio realistico bensì, appunto, nella deformazione onirica della lingua poetica, in cui l’identità spaesata e memore di un passato operoso cerca di rifondarsi a partire dagli affetti familiari, recuperati come foto da un baule, e dallo spazio industriale ormai vuoto, come nella poesia “cancelli di perle ruggini pagode”.
La seconda parte del libro ci porta nella Cina moderna, ospiti forse di un funerale. È un breve viaggio in Oriente, con i suoi ideogrammi estetizzanti e custodi di radici arcaiche, dove tuttavia i riti antichi non possono far nulla nei confronti dello squallore moderno: “Gli oracoli non avevano ossa / per predire l’abbaglio indimenticabile”, quello sfruttamento della forza-lavoro già tutto realizzato nella Muraglia, “con i morti dentro / morti sordi che urlano” e ora globale, da Prato a Pechino.
Veronica Tinnirello fotografa per noi una globalizzazione all’insegna delle macerie, ci dice quanto i sogni di dominio imperiale (vedi l’espansionismo napoleonico, cui rinvia lo stile del titolo) cadano appena un sistema va in crisi, quando un equilibrio vacilla. È il messaggio della Ginestra leopardiana, ed è lo scenario in cui ci colloca la poetessa fiorentina, in una commozione trattenuta, asciugata come le pietre ungarettiane, come il bianco e nero dello Schindler’s list di Spielberg, dove una bambina in rosso si consegna al passare, e che riusciamo tristemente a seguire fino allo sterminio, proprio in grazia di quel rosso, filo tessuto anche in Polaroid stile impero, dove rosso è il sangue, la passione, la fortuna e la gioia nella cultura tradizionale cinese, ma anche l’orrore delle persecuzioni maoiste, e rossi – fuori dal libro, ma implicitamente richiamati quali preziosità perdute, forse non per sempre (“il cielo neanche l’acqua / dei santi lo lava via”) – sono i tessuti nelle corti rinascimentali, e rosso è il colore del sacro già nei Fenici, e degli eroi, come testimonia l’Agamennone omerico.
Bene ha fatto dunque Raffaelli a dare fiducia a questa autrice, ora attiva a Bologna nel settore attoriale e radiofonico, con una trasmissione sulla poesia italiana contemporanea molto seguita, intitolata Il Rubino presso Radio Città del Capo.
da POLAROID STILE IMPERO, Raffaelli Editore
Un corridoio rosso
mi costrinse
a camminare
tutta la vita
il cielo neanche l’acqua
dei santi lo lava via
***
i lupi appendono le ultime grinze
al buio secco delle gore, alveari miracolosi
col cibo dipinto dietro le facciate
l’operaio incide uno spartito
telaio, casa, cassa e a metà
punta un silenzio che interrompe la linea
gli oracoli non avevano ossa
per predire l’abbaglio indimenticabile
***
è intorno a questa testa
questa vena dipinta
dalle stravaganze di un rossetto
che i fantasmi costruiscono sul marmo
un senso che rovina
si somministra una reggia di vie vuote
***
: Ofelia dormi?
vedo la tua ombra, martirio miniato taglia 38
difficile metreggiare questa buca sgonfia
la pelle va, un fondale senza incroci e riga
di confine, privo di pensieri al suo sangue
: non lasciarmi lontana
da questo mio fondo
appena accennato
coinvolta nel tuo perimetro rosa
aspetto che il corpo ritrovi
i piedi del suo spirito
***
storce le gambe il nervo cattivo
occupa e incrina tutti i confini verticali
incrina i cavalli, il paese
le criniere si spandono, restano immobili
tracciano migliaia
migliaia di righe bianche addosso
al vento pastoso, le tracce
sono geometria vinta in battaglia
code di sposa in disordine
***
il proiettile preme
sulla bocca, lì dove
il vetro, con il filo nemico
e gli occhi di retro dipinti
s’incrina
INEDITI
sono ore queste spalancate
sull'improvviso mistero umano
le ombre inclinano le forme in tagli
d'ala, incidono il blu dove si divarica
e fa la spaccatura infinita, cosparsa
l'orizzonte ci prende gli occhi
li traduce in voli
case cose operose operosi volti
tu splendi pacificata sulla linea del mare
e il disastro era ieri
***
le materie intarsiate dei nostri
corpi organizzano pensieri
- chiudersi in fretta le ferite
per non morire mai
fa freddissimo e non c'è il cielo
i piedi di lana saltellano sul parquet
intontiscono i fantasmi
è giorno di festa e la casa ospita
un seme per sempre riparato, vestito
di nostro sangue lontano
***
i fari spenti dei nostri avi, timidi,
non suggeriscono lo sfogo azzurro di una via
eppure
un'alba scuce bocche
splendenti, si sente dello scavo solo
il silenzio d'amore
sfila via lo scheletro diabetico
della notte
e intorno un collare di cose sante,
senza lacci
come il maculato progetto dei cromosomi
organi, ossa caparbie e traiettorie del tempo
qui restiamo, noi specie, rigenerata
da nessuna parte finiamo
da nessuna parte
finiamo
***
una neve sconsacra il buio
poco fuori città, fa al mondo
un pelo bianco e lontano
con un corpo d'oro dentro
dall'orbita regolare che muove
ogni suo pezzo, imbeve il tappeto
di passi, suoni che fanno solo
una luce chiara sullo schermo
taciturno del cellulare
insistente tra le righe in disordine
del divano
e infinite mani prima e dopo le nostre
avvitate tra loro a dire di non lasciarsi
mai sole, a ripetere l'incanto stanco
sempre umano
***
Tra le inferriate del ventre domestico
si scopre un giro di compasso per aria
il progredire disilluso di un tramonto
è stata una bella giornata - un peccato
bianco sulla scapola di una donna
femme metropolitana
seguiamo la scia dei suoi tacchi, eleganza
senza rumore in una terra crudele,
tutte le notti si disegna un sesso diverso
e anche io ti dico: oggi mi dipingi i baffi
domani li hai tu
Veronica Tinnirello è nata a Firenze nel 1980 e risiede a Bologna. Si è laureata in Scienze umanistiche all’Università La Sapienza di Roma e successivamente diplomata presso la scuola per attori di prosa “Alessandra Galante Garrone” di Bologna diretta da Vittorio Franceschi. Ha pubblicato: La voce che disegna l’orizzonte (Editoria&Spettacolo, 2006); e Gli angeli vanno a dormire presto (Coniglio editore, 2009).