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Valeria Rossella

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Arrivo un po’ in ritardo a recensire La città di Kitež (Aragno, 2012), il bel libro di Valeria Rossella, barocco nella complessa trama dei motivi e del sentire filosofico eppure intimo nel farsi racconto familiare, confessione per lampi crepuscolari, di quella luce tenue che anima gli affetti anziché l’intelletto. Le due anime convivono felicemente, pur con la prima dominante, come se cultura e stile, tradizione e presente chiedessero con maggior urgenza una parola pubblica, che invece la biografia tende a negare, per farsi sussurro agli amici, confidenza da tenere segreta.

La presenza della koiné barocca è chiara: la metafora mariniana dello specchio (e più avanti della polvere e della piuma, come sottolinea Giovanni Tesio nella “presentazione”), la percezione shakespeariana del famelico tempo che tutto divora, l’attenzione alla natura metamorfica degli enti, i preziosismi lessicali, il fondersi di realtà e finzione, l’idea che il mondo sia un teatro, la costante presenza della morte sono tutte forme che il barocco ci ha lasciato in eredità e che Rossella combina per esempio in “Kitež”, che appare “rovesciata in fondo al lago”, tutta luce tremula e riflessi, come nella fiaba russa chiarita in epigrafe. E in questa cornice mitologica, archetipica, lei ci colloca l’amore dei suoi avi, lui annegato prima dei trent’anni, lei fedele sino alla morte, avvenuta in tarda età, “tra i lampi azzurri delle ghiandaie” che inevitabilmente attraversano la carne delle giovani vite. E sta qui la forza di questa poesia: nell’incontro fra tensioni epocali, fra passioni e miserie di un occidente già tramontato (il poemetto “Roma – Vascello” ne è l’allegoria più disincantata) e, dall’altro lato, il tremori di una vita vissuta, dove l’amore “parla la lingua della rondine” e di altre cose leggere e vaganti, direbbe Saba. Un amore qui raccontato in due momenti dolorosamente esemplari: sulla soglia della fine per malattia del marito e in una memoria (recuperata anche attraverso la scelta del dialetto del caro estinto) che cerca un dialogo con lui, attraverso un luogo caro a entrambi.

Anche la musica del testo agisce sul doppio tasto: i ricami sopraffini e altisonanti dal vago sentore pascoliano (le “aguglie le telline”, “le stelle del Camelopardo e la Volpecula”, lo “sgonnare insonne di campanule”) stanno in bella mostra su una rete semantica zeppa di fruscii, brusii, vagiti “e altra materia germinale e germogliante” come sottolinea il curatore, a ulteriore testimonianza di un doppio registro, intellettivo e emotivo, che attraversa tutto il libro; così come doppio è il capitolo dedicato alla pittura, “Ut pictura poesis”, citazione oraziana che combina pittura e poesia in una somiglianza governata dal silenzio e dalla parola. La visione di Valeria Rossella, come negli altri capitoli, anche qui riconosce “lo sciupio di ciò che sta nel tempo”, ma non fugge terrorizzata né esorcizza questa consapevolezza con cattedrali imperiture; in lei la poesia non è per sempre, non consola l’anima; segue invece il corso rugoso degli eventi, accetta che il cosmo si espanda e si diradi all’infinito, il fatto che, come scrisse Van Gogh al fratello Teo, non siamo “che terriccio trasmutato”. Verità già presente in Petrarca quando parla di Laura come di “poca mortal terra caduca”, ma nella modernità resa radicale dalla morte di Dio, che nella poetessa torinese ha le sembianze delle cose che mutano, la lucentezza del sogno, l’esaltazione della promessa all’eternità dell’attimo e della memoria, di qualcosa insomma d’imprendibile, al quale stare in prossimità con la parola che aduna famiglia e paesaggio, bellezza e mito, salvandoci dall’oblio, che è “slavina” e “sepoltura” di ogni cosa.

 

 Kitež



La poesia si riferisce alla leggenda russa della città di Kitež, situata sulle rive del lago Svetlojar, che per sfuggire all'invasione dei Tartari si era resa invisibile, ed appariva solo in immagine, capovolta nell'acqua. Molti pellegrini partivano alla ricerca della città miracolosa, sperando di vedere il suo riflesso sul fondo del lago o di sentire il suono delle sue campane. Si diceva che taluni vi avessero soggiornato, che circolavano delle lettere, e che mettendosi in viaggio il pellegrino non avrebbe mai dovuto rivelare la sua meta. Nel testo compare lo zio Alfredo, un fratello della mia nonna paterna annegato nel lago di Garda all'età di ventinove anni, e la sua fidanzata Amalia che senza sposarsi invece visse sino a tarda età. Per questo motivo un verso dice "lui giovane come rimase, lei come lo fu".



Apriti, porta dell'insonnia. Città
che appari rovesciata in fondo al lago
non darmi pace nel tempo della veglia,
la tua luce latente mi sia guida.
Candele si accendono sui tigli
fra tetti e strade maculati. Vedo
aironi ed anatre svolare
da campanili e finestre, e mani frastagliate
offrire pasticcini su una tavola
stile Rinascimento. Dammi appuntamento
con le creature che guizzano
dentro il tuo specchio sfigurante.
Nella camicia inamidata
che dà loro una forma, Amalia e Alfredo
passeggiano furtivi lungo i viali
oscillanti in firmamenti di foglie,
lui giovane come rimase, lei come lo fu,
tra i lampi azzurri delle ghiandaie.
Alfredo tra i vivi non l'ho conosciuto,
ma lui sì, mi conosce. Ricevo le sue lettere.
"Molto ti abbiamo pensato. Tu ci pensi?"
Un placido volo di colombe si leva
nel mio occhio destro - in quello sinistro,
grembiulini bianchi: sui vecchi banchi
mangiati dai tarli, le bambine di Terza
sono ritornate. Frusciano penne e foglie.
Lingua che non conosco, fa' che io ti parli.



Abbecedario  2003



Mie figurine focomeliche, mostratevi. Ombrine
e ghiozzi nel gran mare dell'essere
non più declinato, risalite il flutto nella vostra
forma bidimensionale,
senza profondità, senza dolore. Ora
che i destini del mondo ci sovrastano
e parlano attraverso lunghe criniere.
Maestra Rina, non uscire
dalla fotografia della quinta D,
per venire qui dove si muore.
La maestra china
metà del suo volto sfrangiato sui miei compiti. Scrivi
c di castagna, g di ghianda, poi lascia
solo gli oggetti, senza chiamarli più.
La vita ha un suo segreto abbecedario.
A di abbandono o amore. F di fondamento o fine.
Faccine sconosciute della quinta D,
uno sgonnare insonne di campanule.
P di passero e pettirosso. Li voglio ritagliare
via da questo cielo, li voglio incollare
sul mio quaderno. Perché non possano
volare via per sempre, perché non possano
muoversi più.



Evaristo Baschenis


Lunghissime mani affilate si affacciano allo stipite
e suonano strumenti afoni.
Dallo spiraglio penetra un sudario
di luce porpora e avorio spento, membranosa.
Fra catafalchi rossi e tavoli da cucina,
possiamo origliare lo sciupìo di ciò che sta nel tempo.
Saturno alita gelido
su pollame e cipolle,
trote e lumache, musicisti e servi. In bilico sui piani
mele bacate e volumi con pidocchi dei libri
e pesciolini d'argento fra le pagine.
Unica traccia delle dita, le impronte sulla polvere
che copre i liuti e le mandole, gretole di una gabbia vuota
da cui volata via è la musica, a cinguettare
nel puntaspilli di velluto nero, con capocchie di luci
dai nomi arabi: Deneb, Aldebaran. Alphecca.



Campi di grano


Cipressi belli come un obelisco egizio
contro un cielo impetuoso che scrolla
processioni di stelle enormi

Cascine di Auvers e stradine fra oceani di grano
squassato, i campi di Arles ordinati dal règolo della luce
ad Auvers invalicabili nel volo ossuto dei corvi
                                                                                                           
nell’ultimo quadro ho dipinto rami fioriti
scrisse in una lettera al fratello
che all’orecchio sanguinante gli frusciarono
non sei che terriccio trasmutato



La stanza dell’artista


Solo nove colori per la finestra schiusa
i quadri storti, un tavolo, sul tavolo una brocca,
un catino e certo canfora nel cassetto,
due sedie vuote e un letto dove
non si può dormire ma morire sì.
Ah sì morire, per troppa pienezza
di tutti quei campi assolati, per la crudeltà
di quel giallo ancora caldo,
quando Vincent l’ha messo sulla tela.



Scendo nella reception in cerca di Mercurio



Ecco, ha iniziato la stagione della muta.
Era erba ed è fieno, era foglia ed è frutto,
era seme ed è polpa, era polpa ed è spoglia.
Ora non sono più certa di trovarlo.
Chi controllerà adesso l’andirivieni delle forme.
Gli manderò una mail, può darsi che risponda,
gli spettri parlano la lingua del computer.
Lingua di formichiere, spacciatore d’ombre,
non so che farmene della tua erma mutilata,
un busto senza testa, il guscio vuoto della tartaruga
che ci ricorda come armonia e bellezza
nascano da un sacrificio sanguinario.
Il vecchio Argo è morto, ma ti fiuta e fruga.



La servitù rigoverna


Gli dèi non usano stoviglie, mangiano
con le mani ovunque imprimendo avide
impronte digitali. Infelici
perché impalpabili, invidiano le farfalle che
a dispetto del nome
ebbero due corpi e nessun’anima.
Acqua e sangue. Sguatteri alacri sgombrano carcasse
irrispettosi delle norme per la raccolta differenziata.
Ma ora cacciatori e prede abitano
le costellazioni come insetti l’ambra
o lattaie di Delft il loro sommesso putiferio di luce. Ebe,
domestica dai robusti avambracci, sparecchia
la mensa celeste galleggiante tra nuvole e anime che sono omozigoti.
Scuote la tovaglia e ci lascia cadere, briciole
dal banchetto degli dèi.


                                   (Lago Maggiore, agosto 2004)
                                                                    

Anzolo de sti loghi calmi, verdi, de aqua,
vien a sentarte al Circolo Velico de Ascona
indove ciogo un toco de torta, come
co ierimo insieme, solo poco fa, epur tuto
xe tanto remoto. Tegno de parte per ti
el bocon più dolze, ti  generoso
sempre te fazevi con mi l'istessa roba.
Zighime cocal, che te son là,
fame veder anco se no ghe credo
como soto de ti svola la tu' picia ombra.
Un'ombra blu, un'ombra
de aqua e de luse (ma la pol luser un'ombra?
- la pol) che la me parla del bel,
del ciaro sconto nela piera che se specia
e no pesa, e nel tu' corpisin bianco
e zeleste co' le zime dele aluze negre
ma cussì lustre, che al sol che le careza,
le fa falische. Falisca de la mi' vita,
como te sparissi nel scuro dela magnolia
e ti, ombra de cocal, ne l'ombra che te ciama.                      
Ma mi so che l'ombra la esisti
perché ghe xe la luse e ti, ti te ieri la prova, como i disi
filosofi e scienziati, fisica e ontologica.



[Angelo di questi luoghi calmi, verdi, di acqua,/ vieni a sederti al Circolo Velico di Ascona/ dove prendo un pezzo di torta, come/ quando eravamo insieme, solo poco fa, eppure tutto/ è tanto remoto. Tengo in serbo per te/ il boccone più dolce, tu generoso/ sempre facevi con me la stessa cosa./ Gridami gabbiano che sei là,/ fammi vedere anche se non ci credo/ come sotto di te vola la tua piccola ombra./ Un'ombra blu, un'ombra/ d'acqua e di luce (ma può mandar luce un'ombra?/ - può) che mi parla del bello,/ del chiaro nascosto nella pietra che si specchia/ e non pesa, e nel tuo corpicino bianco/ e azzurro con le punte delle alucce nere/ ma così lucide, che al sole che le accarezza/ fanno scintille. Scintilla della mia vita,/ come sparisci nello scuro della magnolia/ e tu, ombra di gabbiano, nell'ombra che ti chiama./ Ma io so che l'ombra esiste/ perché c'è la luce e tu, tu ne eri la prova, come dicono/ filosofi e scienziati, fisica e ontologica.]


Nota
La poesia è dedicata a mio marito, il poeta triestino Fabio Doplicher, scomparso nel 2003. “loghi calmi, verdi, de aqua” è un verso della sua poesia Ascona




Valeria Rossellaè nata nel 1953 a Torino, dove è tornata a vivere dopo un lungo soggiorno romano. Ha pubblicato sinora alcune plaquettes e cinque raccolte di poesie: Discanti e incanti (Genesi, Torino 1981), L'usignolo meccanico (Edizioni del Leone, Spinea-Venezia 1991), L'anima del violino(Galleria Pegaso Editrice, Forte dei Marmi 1996), Il luminaio (Crocetti 2003), La città di Kitež (Aragno 2012). E' presente su varie riviste e antologie. E' anche traduttrice dal polacco, ha curato tra l'altro la versione di un'ampia scelta dell'epistolario chopiniano (Il Quadrante, Torino 1986), e di Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, un’antologia di poesie (La fodera del mondo, Fondazione Piazzolla, Roma 1996) e il Trattato poetico (Adelphi, Milano 2011).

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