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Guglielmin, Maybe It's Raining (Chelsea Editions)

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Fra qualche settimana uscirà, per le edizioni newyorkesi Chelsea, di Alfredo De Palchi, una mia selected poems dal titolo Maybe It's Raining, con traduzione di Gray Sutherland.

Questa che segue è l'autopresentazione.


Dopo le due prove giovanili (Fascinose estroversioni e Logoshima), ancora debitrici verso lo sperimentalismo italiano degli anni sessanta, sono passati quindici anni prima che uscisse il mio terzo libro, Come a beato confine, nel quale ho cercato di raccontare l’esperienza dell’identità nel suo passaggio da struttura forte a sostanza dialogica, aperta al prossimo. Se la poesia vuole davvero parlare agli uomini, ho pensato (anche sulla scorta di tante buone letture), essa deve mettere ai margini l’identità autoritaria, quella che sa sempre tutto e impone le proprie scelte agli altri. Per questa ragione, in Come a beato confine l’identità sceglie di essere debole per salvare lo spazio, il confine, che ci tiene vicini e ci permette di parlare, ciascuno con le proprie difficoltà. L’ultimo capitolo del libero, “Dappertutto”, mette in scena un mondo spaventato, dove i più deboli soccombono e la storia è governata dal terrorismo e dalla finanza internazionale. Il motivo ispiratore è la catastrofe del World Trade Center del 11 settembre 2001.

La distanza inmmedicata, attraverso l’allegoria dei fiumi, il loro differente modo di essere, è un libro che indaga l’impossibilità di essere stabilmente felici, di ricomporre la ferita originaria, indipendentemente sia dal luogo in cui si vive e dalla qualità degli affetti. C’è l’idea che l’origine sia perduta per sempre, anche se il desiderio di tornare nell’armonia dell’inizio ci spinge costantemente a scontrarci con le cose, con le persone e con noi stessi. La lotta è violenta e può portare alla morte oppure, quando ci va bene, a produrre un’opera d’arte, qualcosa che custodisce per noi quella separazione e la rende feconda di bellezza. È una bellezza moderna, figlia del terrore, del desiderio e della malattia, come in Baudelaire.

C’è bufera dentro la madre uscì in plaquette autonoma ed è stata poi ripresa tale e quale in Le volpi gridano in giardino. Quest’ultimo libro è diviso in due parti: la prima affronta, per la prima volta in modo così esplicito nel mio percorso poetico, il tema amoroso; la seconda parte continua la riflessione etico-civile sulla società contemporanea, in particolare su quell’area italiana industriale e culturalmente piena di pregiudizi che è il Veneto e la Lombardia. C’è bufera dentro la madre dice appunto la bufera che tormenta l’economia e la morale di queste terre, piegate dalla crisi economica attuale, ma già devastate in precedenza rispetto all’idea di solidarietà e di salvaguardia della natura. Al centro del testo c’è l’imprenditore, la sua famiglia, la fabbrica, l’ambiente, tutti macinati nel ventre della Madre, ora moribonda. Un altro testo esemplare, in questo senso, è “Voglio dire”, poemetto che parte dalla crisi culturale del’occidente, per poi fare i conti, anche attraverso giochi linguistici credo intraducibili in altre lingue, con alcuni maestri del canone italiano del novecento e con la possibilità stessa della poesia di essere significativa dentro un sistema che non crede più alla parola autentica.

Gli inediti non potevo che scriverli ora, che ho un’età in cui fare i conti con la mia giovinezza. Ciao, cari sono i testi più autobiografici che abbia mai scritto, sono un saluto affettuoso ai miei morti, a quei ragazzi e ragazze con i quali ho condiviso quasi tutto, e a qualche adulto, amico, che non è riuscito a vivere in questo freddo.



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