È uscita oggi, su "Il Giornale di Vicenza", la prima recensione al mio Le vie del ritorno, scritta da Fabio Giaretta. Eccola.
Con la nascita e con il conseguente allontanamento dal grembo materno, da “quell’Inizio che è principio stabile e protetto, ma già da sempre perduto”, l'uomo sperimenta la dimensione dell'esilio e della finitudine in quanto essere mortale. Si sente spaesato e questo lo spinge a cercare incessantemente una comunione con il “centro del mondo” inteso come terra abitabile “in cui situarsi se non altro da nomade, da viandante” e in cui ricercare la pienezza del senso. Partendo da queste considerazioni, Stefano Guglielmin, nel suo ultimo saggio intitolato Le vie del ritorno (Moretti&Vitali, pagg. 135) indaga come questi temi, che il poeta e critico scledense chiama “tensioni aurorali della caducità”, ossia esilio e morte, vengano sviluppati in due generi letterari opposti, il comico e il tragico, e in tre autori dell’illuminismo francese quali Diderot, Voltaire e Rousseau.
Per quanto riguarda il genere comico, Guglielmin compie una scelta controcorrente: decide cioè di mettere al centro della sua analisi le “Rime” di Cecco Angiolieri con l’intento di smontare la visione di Pirandello che considerava i versi del poeta senese delle facezie prive di profondità e drammatizzazione. I versi dell’Angiolieri, invece, mostrano una profonda tensione drammatica legata per l’appunto al tema della caducità declinato sotto forma di un duplice esilio: dalla società e da Becchina, la donna amata dal poeta. A livello sociale, Cecco cerca accoglienza e riconoscimento tra gli uomini subalterni al potere e/o in conflitto con esso, in nome di una marginalità che diventa condivisione e da qui, dalla necessità cioè di essere accettato, nasce la volontà di usare il registro del comico. Becchina, invece, si pone come unica fonte di gioia, madre terribile che potrebbe salvarlo dall'esilio e che invece, con il suo rifiuto, lo getta in un immedicabile stato di mancanza.
Per quanto riguarda il genere tragico, Guglielmin si sofferma su “L’Orestea” di Eschilo in cui il tema della caducità si manifesta sia in chiave individuale, in quanto tutti i singoli personaggi, soprattutto Agamennone, Clitemestra e Oreste, sono degli esiliati nel senso già specificato, sia in chiave sociale. In questa seconda accezione, “L'Orestea” permette di fare i conti con il momento della nascita della società e di dare una forma simbolica al suo inizio-esilio che nasconde sempre l’indicibile violenza da cui la civiltà proviene. In questo modo la comunità può guardare in faccia la condizione ferina, fatta di sangue e violenza, insita nella sua nascita e legata ad uno stato di natura, ergendola a monito di una nuova infanzia - lo stato di diritto - frutto questa volta dell'unione della sapienza umana e della sapienza divina.
La seconda parte del libro, invece, si concentra sul tema dell'altrove analizzato in Diderot, Rousseau e Voltaire. Altrove inteso come altra possibile via attraverso la quale rifondare una nuova nascita, caratterizzata da una pienezza individuale e sociale, da una verità insomma che scaturisce dal confronto con l’irrazionale e le culture dell’oriente, oltre che dall’istinto e dell’esperienza del corpo nello spazio. Secondo Guglielmin, infatti, “la verità illuminista non nasce né da un concetto astratto né dalla rivelazione divina; è invece l’incontro di forze molteplici e incontrollabili, che convergono verso un centro mai definibile a priori che spetta alla parola tenere nell’aperto del dialogo politico, là dove le scelte hanno luogo”.
In questo saggio molto denso e acuto, Guglielmin, facendo interagire differenti saperi, da quello filosofico e psicoanalitico a quello antropologico, dalla storia delle religioni alla critica letteraria, e usando il tema della caducità come grimaldello, ci offre un importante e originale contributo capace di aprire nuove prospettive critiche all’analisi delle opere e degli autori trattati.