Ranieri Teti, in questi inediti usciti nel n.89 di “Anterem” (dicembre 2014), punta sulla forza estrema della parola, sul peso che ogni parola può avere quando la si organizzi in una sintassi essenziale, al fine di delineare l’impalpabile, che qui ha la forma del soffio sotteso al dire, del senso tra il grafema e il seme, della “luce terminale”, del margine.
Fuori dalla piazza che sbraita o che si contende il primato sull’impegno, lontano dal culto del quotidiano, scevro da tentazioni neoromantiche, questo poeta riservato (per quanto sia promotore dell’importante premio letterario “Lorenzo Montano”) prosegue una ricerca che coniuga l’irrinunciabile dialogo con il silenzio – irrinunciabile da quando Mallarmè e Ungaretti lo hanno semantizzato, rivelandone la carica metafisicamente espressiva – con un materialismo teso a tenere i segni nello spazio terrestre della creatività umana, dell’artigiano che, pur organizzando la sua struttura con sapiente consequenzialità degli elementi, dialoga e lotta con l’imprendibile silenzioso di ogni progetto, con lo scarto che ogni fare ha rispetto al pretesto e al contesto che lo ha generato. In questo modo, il misticismo implicito in ogni operazione simbolista si attenua, per lasciare alla scrittura, concepita nella sua natura di artificio, ma anche di struttura non arbitraria, un non-detto che pare nascere dal corpo dello scrittore, dall’esperienza diventata sua materia biologica, prima ancora che dalla sua scienza. Tale profondità viene a galla tramite la memoria che, per frammenti semantici e ritmici, per agglutinazioni di senso e di suono, ci racconta un presente che avrebbe bisogno di un’attenzione sottilissima verso i dettagli laterali, verso quei luoghi fondanti eppure poco illuminati dal sistema della comunicazione, pena l’angoscia che un tempo gramo come il nostro trasmette. siamo in presenza di una poesia che disturba, dunque, nella misura in cui ci invita a un viaggio senza paesaggio e privo di cornice, a una navigazione a vista. Una poesia che ci chiama “dall’oscuro senza custodia” per riflettere sulle lacune alle quali ogni a-capo rinvia, per toglierci dall’inganno che l’esperienza davvero universale sia quella comunicabile. È invece nella riserva di senso, nell’esser-possibile del non-ancora (stilisticamente reso qui nell’a-capo) che l’umanità riconosce il proprio legame con l’assoluto, che non è pienezza, bensì interrogazione continua alla quale ciascuno, dalla propria dislocazione, è chiamato a rispondere. In questo senso la bellezza non è data dalla forma stabile, dall’equilibrio atemporale del vero, bensì è la risultante mai risolta di interrogazione e determinazione, di desiderio e limite, di arte del fabbro e natura indomabile. Lo si capisce anche dal lessico, che deve molto al romanticismo europeo, non ultimo Baudelaire. E ciò non perché sia inattuale la scelta poetica di Teti, bensì, al contrario, perché l’oggi ci trasmette sussulti simili a quell’età di passaggio: quando Schelling, nel necrologio a Kant (1804), parla del proprio tempo come di “un’epoca spiritualmente e moralmente decomposta e liquefatta”, possiamo non sentirci solidali con lui?
Doxa
*
dove si incide
il soffio riproducibile
nel rivelarsi della voce
dal costato alla gola
l’ingranaggio del respiro
il prensile dell’aria
dove erano suoni
a sillabate distanze
possono essere cenni
frammenti dispersi
numerosa presenza
nello stesso nome
*
tra materia e verbo
insonne l’inchiostro
la china contraria
come si inietta
il dire l’infettarsi
tutto quello che trema
nella veglia della frase
*
non ogni bagliore
è analogo giorno
la terra interiore
di ossa indifese
ogni presa di fiato
è placenta che assorbe
la notte dalle rive
la luce terminale
*
dista nella parte
esposta alle piene
la cerchia dei gorghi
la muta dei relitti
tra onde straniere
e prove di abbandono
in continuità di fuga
l’acqua tornata vena
vigilia dopo vigilia
*
dove sta per cadere
arreso al moto il fiume
proseguire è solo
cosa si diventa
nello sguardo prolungato
da un silenzio corrente
la parte più profonda
origina affioramenti
introduce in disparte
il dire nei capoversi
*
restituite alla trama
decimate alla meta
le ore che portano
rifugi dove ognuno
è lontano sul limite
di bosfori e colonne
che in un varo di foci
nel finimondo legano
la lingua al taciuto
di orfane cose erme
spogliate in tenebre
*
dall’oscuro senza custodia
l’azione dell’alba destina
una congiura di margini
l’argomento trapassante
un altro a capo della vita
Ranieri Tetiè nato a Merano nel 1958.
Ha pubblicato: La dimensione del freddo, prefazione di Alberto Cappi, Verona 1987; Figurazione d'erranza, prefazione di Ida Travi, Verona 1993; Il senso scritto, prefazione di Tiziano Salari, Verona 2001; Controcanto (dalla città infondata), immagini di Pino Pinelli, nel volume collettivo Pura eco di niente, prefazione di Massimo Donà, Morterone 2008; Entrata nel nero, prefazione di Chiara De Luca, Bologna 2011.
È presente nelle antologie: Istmi. Tracce di vita letteraria, a cura di Eugenio De Signoribus, Urbania, Biblioteca Comunale di Urbania, 1996; Ante Rem. Scritture di fine novecento, a cura di Flavio Ermini, con premessa di Maria Corti, Verona 1998; Akusma. Forme della poesia contemporanea, a cura di Giuliano Mesa, Fossombrone 2000; Verso l'inizio. Percorsi della ricerca poetica oltre il novecento, a cura di Andrea Cortellessa, Flavio Ermini, Gio Ferri, con premessa di Edoardo Sanguineti, Verona 2000.
Fa parte, dal 1985, della redazione della rivista “Anterem”.
Collabora a riviste, cartacee e on-line, italiane e straniere.
Per conto delle Edizioni Anterem cura la collana "La ricerca letteraria".
Fondatore e responsabile del Premio Lorenzo Montano, ne cura il periodico on-line “Carte nel Vento”, presente nel sito www.anteremedizioni.it
Vive a Verona.