E se Antonella Anedda degli ultimi anni altro non fosse che l'epigona senza resto di una tradizione che va da Celan a Jacottet, dalla Cvetaeva alla Rosselli, dall'ermetismo luziano al trago-orfismo di Milo De Angelis e Roberto Carifi? Epigona anche del meglio di se stessa, ossia di quando, negli anni Novanta, sapeva coniugare, con uno scarto di originalità sui maestri, l'aspro dell'isola di Maddalena con l'angoscia verso il non senso della Storia, ma anche era capace di trovare l'epifania là "dove il legno segretamente / cede"? Ipotesi provocatoria, forse, eppure non del tutto pellegrina (e già condivisa da Manacorda quando stroncò Catalogo della gioia) se si legge Salva con nome (Mondadori, 2012), volume che tiene strette le tematiche e gli stilemi dei suoi libri migliori (Residenze invernali e Notti di pace occidentale), ma al quale non mancano le cadute, i versi scialbi, le poesie senza lampi né fuochi.
Si prendano le prime tre: sono deboli non perché, come scrive in un altro contesto la stessa Anedda ne Cosa sono gli anni (Fazi, 1997), nascano dall'intenzione di "usare il linguaggio per bisogno, come si usa un oggetto quotidiano" – con tutto l'assoluto che comporta questa operazione nella sua poesia più felice – ma, direi, per semplice fiacchezza d'ispirazione. Per esempio: "Mette in fila i ricordi" è un verso mediocre perché la metafora è usurata, punto. E come questo ce ne sono altri nel libro. Si veda inoltre la scansione paratattica della prima poesia, piatta perché priva di quel guizzo ritmico e/o fonetico e/o immaginativo che dovrebbe renderla interessante, come invece risulta la più sintatticamente mossa e orfica Cucina 2005, a p.16. Poesia che però convive con altri testi poco lievitati, asciutti non perché celanianamente densi, ma in quanto poveri tout court di tremori; e se ci sono, li abbiamo già letti in altri autori di quella tradizione: veri dunque, ma più di testa che di sentire, più costruiti che nati da una voce in dialogo con il proprio spaesamento. Non si vuole negare la sofferenza, lo ribadisco, bensì la forza di tradurla in stile, "nell'orizzonte di una traiettoria accesa dallo scatto di un grido" come ebbe a dire la stessa Anedda a proposito delle sue variazioni ai versi di poeti da lei amati e raccolti in Nomi distanti (Empiria, 1998). Qualche perla non manca, altissima; tale da salvare il libro e persino da farle vincere il Viareggio: "Dicevano che le morti sognate", "Spazio dell'invecchiare", "Spazio dell'acqua domestica" I e II, "Corsica 1980", alcuni "cori" della sezione Concerto per paura, coro e voci, e la poesia che apre Terra: "se devo scrivere poesie ora che invecchio". In tutti questi versi si respira la grande tradizione che da Hölderlin arriva a De Angelis, e la scuola romana (dalla Cavalli a Paola Febbraro) e si sente il passo creaturale della Anedda che tutti amiamo.
In definitiva: per quanto il libro riesca a trasmettere il sentimento drammatico della perdita, dell'evanescenza, del tempo rapinoso e senza perché, dei legami familiari quali risorse per sopportare la desolazione contemporanea e il gelo delle relazioni ordinarie, Salva con nome esce talvolta claudicante dalla lettura, non all'altezza di una poetessa giustamente entrata nel canone della poesia italiana contemporanea. E lo è entrata per la sua capacità, come scrive Andrea Afribo in Poesia contemporanea dal 1980 a oggi(Carocci, 2007) parafrasando Roberto Galaverni, di "rendere assoluto il rasoterra di partenza e trasfigurarlo nei termini di una lingua enigmatica". Salva con nome talvolta lascia invece il nome per terra o decolla appena, non trasfigura il dato, tanto che il reale della parola, a tratti, è meno reale del mondo, meno profondamente tragico.