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Ercolani sul "Rilke" di Flavio Ermini

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UN LINGUAGGIO ULTERIORE

 […] l’essere si può pensare anche come abbandono. Ciò fa emergere l’esperienza dello smarrimento come valore costitutivo del canto [...]

Ermini 




In un libro di circa dieci anni fa, Il moto apparente del sole. Storia dell’infelicità Flavio Ermini scriveva un trattato poetico-filosofico sull’uomo e sulla parola, sulla magia dell’inizio e l’ineluttabilità della fine, dominato non tanto dal nichilismo della finis quanto dalle strategie che l’“uomo immaginoso” (Leopardi), l’uomo delle “illusioni”, contrappone all’inevitabile e comune mortalità inventando attraverso l’opera artistica i segni originali della sua lotta.

Quel discorso ora si riapre nel nuovo libriccino Rilke e la natura dell’oscurità. Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti, AlboVersorio, 2015, breve saggio in cui l’autore scandaglia alcune opere di Rilke, dalle Elegie duinesi a Worpswede, con una particolare concentrazione sulla consapevolezza, centrale nel poeta, di essere-per-la-morte: attento a fissare il punto in cui “la scrittura accetta di celarsi nell’ombra”, nel “gesto incompiuto della scrittura”, Ermini perlustra il tema dell’oscurità rilkiana, che non esige illuminazione ma sottomissione. L’illuminazione sarebbe come un tradimento della notte del linguaggio: sottomettersi a questa notte è un gesto più sovversivo. Non opporsi al destino naturale dell’uomo; trovare la vita necessaria non nella prima nascita, dalla quale siamo lontani, “modello plasmato da mani estranee”, voluta da altri per noi, ma nella seconda nascita, nel nostro vero “inizio”, quando ci inoltriamo nell’indicibile della scrittura e lì lavoriamo con pazienza la nostra morte, entrando in colloquio e non in opposizione con la fine.

“Poeta è chi oltrepassa (colui che deve oltrepassare) la vita” scrive Marina Cvetaeva a Rilke, che proprio su questo tema dell’andare oltre incentra alcune delle pagine più intense del suo Malte. Ermini sottolinea la necessità di un “terzo spazio”, fra vita e morte, dove tutto si compie, dove il visibile viene varcato, dove alla fine è il linguaggio a trovare il suo vuoto e non l’io a soddisfare i suoi desideri. E lo scrittore si trova a essere sentinella e custode di questo passaggio.

Ermini, da sempre, continua a scrivere il suo libro ininterrotto, dove  linguaggio poetico e filosofico, inestricabili l’uno dall’altro, si generano uno dall’altro, in un moto di costante avvicinamento. E qui affiora la verità inseguita dal poeta: “l’essere si può pensare anche come abbandono. Ciò fa emergere l’esperienza dello smarrimento come valore costitutivo del canto”.  Un canto che è ora e qui, frammento del nostro abitare poeticamente la terra anche in assenza di canto, come testimonia la lacerante esperienza dell’ultimo Orfeo contemporaneo, Paul Celan, maestro di oscurità e di dolore.

L’analisi di Ermini dell’oscurità rilkiana, coerente con la sua ricerca di poeta e di critico, non ci guida verso un nulla indifferenziato, da cui la vita è assente, ma verso un nulla da assecondare docilmente, cercando sempre nuovi inizi. Questa docilità, gentile ma inflessibile, non è forse la stessa che ha generato le pagine migliori di Robert Walser? O, per restare a Rilke, è la docilità dello sguardo, quella da cui si fa totalmente pervàdere: «Ma di Cézanne volevo ancora dire: mai si era visto prima quanto la pittura sia da sola in mezzo ai colori, come la si deve lasciare sola, perché quelli si spieghino a vicenda. I loro rapporto reciproco: ecco tutta la pittura». Un rapporto, ma anche una solitudine: su questo contiguità riflette Rilke. E la scrittura, in modo non dissimile, è, e resta, ossessione e pervasione. “Con l’avvento della seconda nascita la scrittura emette un grido liberando insieme la sua passione e la sua fatica”.

Il tema centrale di tutto il libro è l’accettazione della morte e della necessità fondante e mitopoietica della scrittura. Si scrive per continuare a vivere, per lasciare tracce che sconfiggano l’orrore della nuda mortalità, oppure si scrive perché la scrittura è, rilkianamente, la morte al lavoro dentro la lingua e chi scrive non è abbastanza vivo e conosce, più di questo mondo, l’“altra parte” del mondo? Ermini sceglie una via intermedia: scrivere per lasciare sì delle tracce, ma tracce lievi, che non dureranno mai troppo a lungo, perché la strada resta tracciata e non tracciata. L’arte della parola è sempre un orizzonte aperto, un linguaggio vivente, metamorfico, ulteriore, nonostante la certezza della finis terrena.

La penultima pagina dello Zibaldone leopardiano (4525) ci orienta verso le ragioni più segrete del suo pensiero: “Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”. Trasformare questa certezza, che può sprofondare lo scrittore nell’afasia creativa, in un silenzio fertile, carico di digressioni, domande, aforismi, interrogazioni, parabole, è il progetto utopico e ossessivo di Ermini. Che in quest’ultimo libriccino, dedicato allo spazio intermedio fra i vivi e i morti, raggiunge un acme di illuministica chiarezza. Lo scrittore ha proprio questo compito di traghettatore: di aiutare a colloquiare, dal mondo dei vivi, con filosofi e artisti.



Flavio Ermini,Rilke e la natura dell’oscurità. Discorso sullo spazio intermedio che ospita i vivi e i morti, Alboversorio, Milano 2015.


Incipit del libro


Con la sua scrittura, Rainer Maria Rilke si assume il compito di posare lo sguardo sul lato umbratile dell’anima, al fine di nominarne la natura. Ciò avviene grazie a una nominazione che non pretende luce, bensì sottomissione.
Scrive Rilke nel 1907 all’amata Clara: «Dove persiste oscurità, là è un’oscurità del tipo che non esige illuminazione, ma sottomissione». Così Rilke rifletteva durante il suo pellegrinaggio quasi quotidiano – durato almeno due settimane – al Salon d’Automne, a Parigi, nelle sale che esponevano i lavori di Cezanne.

Proviamo a darci anche noi questo compito, aderendo con il nostro sguardo allo sguardo cui Rilke si affida con la sua scrittura. Noi stessi, dunque, nell’accostarci all’opera di Rilke non richiederemo illuminazione, né seguiremo vie maestre, bensì sentieri obliqui, laterali, in ombra. Probabilmente correremo in tal modo il rischio di smarrirci; di inoltrarci per strade senza uscita, per sentieri che d’un tratto potranno assumere un volto diverso o appariranno ingannevoli oppure minacceranno di scomparire. Correremo forse il rischio di cadere in un pozzo, com’era un tempo accaduto a Talete di Mileto, mentre camminava osservando il cielo stellato.
Accogliendo la “sottomissione” all’oscurità, inevitabilmente passeremo tra terre ignote o non riconoscibili. Per lunghi tratti ci avventureremo in spazi comunemente inaccessibili. Sarà faticoso; ma la vera fatica sarà in fondo accettare di perdersi senza tornare in vista di Itaca.
Va riconosciuto che il pensiero non potrebbe addestrarsi a pensare l’impensabile se, a sua volta, non si educasse alle tenebre. È quindi possibile che ci riservi delle sorprese questo modo non convenzionale di accostarci alla poesia di Rilke. In fondo un mutamento prospettico non può lasciare inalterata l’indagine.

Facendo nostra questa prospettiva, inizieremo da un dato biografico estremo, prossimo alla morte del poeta e segnalato da una data: maggio 1926. Marina Cvetaeva scrive a Rilke: «Poeta è chi oltrepassa (colui che deve oltrepassare) la vita». Ovvero, poeta è colui che nella sua opera apre uno spazio che non è più vita né è più morte, ma una «nuova terza cosa», che entrambe – la vita e la morte – comprende e in pari tempo supera. Ciò che risulta stupefacente, come evidenzia Franco Rella nella sua introduzione alle Elegie duinesi, è che quando Marina Cvetaeva scriveva queste righe ancora non aveva letto i Sonetti a Orfeoe nemmeno le stesse Elegie duinesi; libri che avrebbe ricevuto solo successivamente. Cvetaeva, dunque, leggendo le prime opere di Rilke aveva subito individuato ciò che il poeta avrebbe compiutamente scoperto solo dopo anni di ricerca, quando sarebbe giunto a nominare questa «nuova terza cosa»; quando sarebbe giunto finalmente a respirarne lo spazio, accogliendo in sé lo spazio stesso, quale dimensione interiore dell’aria in movimento; apprendendo che la realtà esteriore si aspetta sempre qualcosa da noi, tanto che – quando noi oltrepassiamo la vita – il nostro dimorare nello spazio ulteriore può trasformarsi in un esistere nella sua essenza. Qui i vivi e i morti, infatti, convivono gli uni di fronte agli altri; si guardano, si osservano, si affrontano, si scontrano.




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