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Daniele Poletti

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Foto Silvio Pennesi

Daniele Polettiè un operatore culturale di sicuro interesse: studioso di Augusto Blotto, del quale porta avanti una poetica dell’irrapresentabilità del mondo, gestisce il blog Dia-foria, uso alla sperimentazione dei linguaggi e a studi sui padri delle avanguardie contemporanee (collaborai nel 2014 con un articolo su Gianni Toti, che divenne libro collettaneo – Totilogia, edizioni cinquemarzo – a cura della Casa totiana di Roma e, appunto, di Dia-foria).

Come accennato, Poletti è anche poeta, controcorrente per scelta, attore della parola che converge nell’idea che il genere lirico attinga a un fondo emotivo niente affatto gestibile con l’acrobazia della metafora secreta dall’io; piuttosto, parte dal principio che alla parola spetti d’essere metonimia del corpo stesso, inteso come pluralità di funzioni e disfunzioni, di fisiologie e patologie, prive di ordine gerarchico quando, appunto, diventano testo, texture, rete luminosa o smangiata, coagulo di tensioni e distensioni prodotte dal corpo. Il corpo orina, defeca, scrive; gli è vitale non per dare ordine allo spirito, bensì pulizia al sistema. Quasi come l’haiku per un buddista. Non sembra un haiku, infatti, il “crepuscocita” n.104? “Nell’acqua lercia del lavacro un timido pezzo di merda mi saluta timidamente”? Si provi a dargli la ieraticità della terzina, l’esperienza dell’apparire improvviso e la bellezza del particolare naturale (qui capovolta): “Nell’acqua lercia del lavacro / un timido pezzo di merda mi saluta / timidamente”.

La vicinanza all’haiku è ovviamente una forzatura, ma non troppo. La differenza sta soprattutto nel contesto: qui siamo alla fine dell’occidente, nella sfiducia piena verso la riorganizzazione dell’esperienza e nella credibilità del vettore storia; siamo in una condizione postuma, come direbbe Giulio Ferroni, ma non solamente della letteratura: del mondo così come lo abbiamo conosciuto, come ci è stato tramandato, in particolare dalla cultura umanistica e dei suoi altarini. Rovesciamento che talvolta diventa ostinazione compiaciuta verso il disgustoso: “Sei una vacca / lamentosa soprapparto uno stupro / non stuprato / che rigurgita le sue frattaglie” (Defixiones, crepuscociti, n.43); oppure l’incipit dell’inedito “Ipernova”: “Alluminato di cancro fluoro, piscia / del sole nuovo pompata nell’ano fuoriuscita / dalla boccale in un vomito di sera”.

Nella sua poesia convivono queste due anime: una sovradeterminazione espressionista, che carica l’evento di valenze escrementizie (ed è la parte che meno mi convince), e la scelta di una poesia appunto come organismo autonomo, come sistema che va indagato nelle sue strutture logico-formali che diventano strutture materiche del testo-corpo. Daniele Poletti non è solo in questa ricerca d’oggettività: l’avvicinamento alle scienze di molta poesia novecentesca attesta la volontà di uscire dalla palude sentimentale e approssimativa con cui l’occidente ha guardato alle cose dell’anima, distinguendole da quelle, considerate sudice, del corpo (lasovradeterminazione espressionista-escrementizia agisce sul capovolgimento del “sudicio” in metafora universale con la quale descrivere la fisiologia dell’umano).

Poletti, dal suo bunker, parla a raffica e si fa attraversare dalle raffiche di tutte le avanguardie immaginabili, ma anche fuggendolo l’illusione economicista secondo la quale disperdere energie sia l’esatto contrario della verità, da leggersi come sinonimo di profitto. La sua poesia, quella per esempio di Ottativo, non conduce in nessun luogo, in “gnessulogo” direbbe Zanzotto, doesn’t working, in apparenza ma, appunto per ciò, porta con sé i germi della rivoluzione, della destabilizzazione, e inquieta il lettore convinto che nella poesia la macchina dei sentimenti funzioni come un orologio svizzero: “Vasca vorticosa di girini portico l’orecchio del torace camera del plesso / dove amplessicaule rimbombano memoria di voci”. Significa qualcosa questo distico? Volendo sì, funziona, ma succede probabilmente come nelle macchie di Rorschach della psicodiagnostica, dove la forma tocca i nostri fantasmi e li chiama all’appello (questo tuttavia succede sempre, anche nella lirica, se ben riuscita).  Che cosa vedo in questi due versi? Una vasca con i girini e delle foglie attorcigliate a un fusto (“amplessicaule” significa appunto questo); per analogia: due corpi in amplesso, ma di questi riconosco solo un orecchio e un torace. E se invece fosse la parte curva di un torace, l’esterno, il suo “orecchio” che vedo? Il corpo è uno, solitario, masturbatorio. Sì, probabilmente il corpo è solo, con in testa uno sciame di memorie (l’Annetta montaliana vi sosta irrequieta?), la camera come una vasca vorticosa, e il corpo che sceglie di stare nel buio, dove memoria e desiderio salvano, forse. Vedo anche la desolazione di Corazzini dentro questa stanza, e i vetri non detti sono di cattedrale. C’è tutto il novecento, ma bisogna cercarlo. E questa fatica, non sempre piace al lettore.



Passer domesticus, Linnaeus, 1758


Gli occhi di tutti gli animali
da imbalsamazione, gli uccelli
occhi neri
hanno gli occhi neri tutti gli uccelli non nominati…
occhi bruno-chiaro
Pernice rossa, Ottarda, Rondine di mare maggiore…
occhi gialli
Basettino, Storno, Fagiano…
occhi rossi
occhi azzurri
occhi grigio chiarissimo o bianchi
Gli occhi di tutti gli animali
da imbalsamazione vengono forniti dal commercio.
Per il passero dell’ebreo si usa un ferro quattro.
Si racconta del passero di un ebreo.
Si tagliano e si sfoderano le zampe fino al torso
lasciando la tibia e le ali fino all’omero.
Nella piccola gabbia solo un trespolo
le cose travestite di luce vengono
è l’idea precisa dell’ossido sul torso
della mela lasciato sottratto l’abbaiare
è nel meccanismo delle ore viene
sui vetri la condensa dei fiati va.
Forse tornerà, ossalato e urato d’ammonio, fosfati,
sali minerali, nitrati sul fondo della gabbia
altri due giorni, avvertire il negozio in via Nazionale
che sto bene. Raccolto nel canto non piove.
Altri due. Tremito del piumaggio.
La presenza determina le possibilità dell’assenza.
Misurazione degli animali in carne
Lunghezza della coda (dall’uropigio alla penna più lunga) +
lunghezza del corpo = lunghezza totale.

                              

                                                                                    per Giuseppe Biagi



Marzacotto


La mattina a letto.
       Il male riserva sorprese.
       Un altro passero sbattuto.
Tutto becco giall’arcuato           :        ricordatelcom’era.
  Chiurlo casca secco in campagna.
  Il palleggiare contro il muro.
Continuo                                       variato
la crosta la scialbatura il mattone. Un anno.
Dietro di una giornata confusa fittile
       non fĭctus
                     mancata la solerzia
del sole poi ce ne sarà fin troppa.
Il soave dei bidoni degli scarichi a detonazione
di ottani denotano casa rassicurazione.
Pini e lecci piovono freddo lo staglio
        contro il cobalto nero.
                          Rotula e pietra
                          gomito e pietra
                          alluce e pietra
                          coccige e pietra
                          occipietra. C’è bassa resilienza.
Venti centigrammi di tartaro stibiato
in centocinquanta di tilia tomentosa
destano l’espettorazione delle immagini.
A onor di cronaca stasera proverò
a tagliarmi la gola, catturerò
un numero esiguo di zanzare, massimo nove.
               Erano vie a ritorno incerto.



Bada


Confuse negli occhi sgranano resina con l’approssimazione
dei denti. Il risveglio all’occidentale è un angolo retto di cosce
e tibie, l’uomo comune, fulcri di rotule pesi del sonno sterzati
sui due remiganti più lontani dalla fronte. Quale fortuna sia
che il terreno su cui stai ritto non può essere più largo
dello spazio coperto dai tuoi piedi. Due piedi di tutto due
di traiettorie certe e diverse col fiato nottoso, il primo ingoiare
e rimettere aria a mandibole slegate, caverna il respiro.
Aruspicina del cesso, fresco in faccia rimando degli anni
intravisti, il rosario di bottoni e cerniere, chiavi, meccanismi
due spazi due temperature. Il rosaio immemorabile radice
nodosa filipendula erba perenne bulbacee quasi quasi
d’uccelli quasi qualsivoglia quiqui quel quali quasiquell. Glossite.
I lampioni hanno perso di luna con l’eclissi del giorno ancora
ipotesi sconnessure vibrati, vista del cono di luce che tracima
la macchia, ma debole che cercarlo tra i tetti
e il verde mattino presto, il faro sta e starà di sette in sette
nel giro, negli intervalli nascondimenti distratture e frutti decidui.
In questa ora i luminelli sul muro giallo del canale sono tenui.




Comio


Il gancio serra nel legno
il battente, digradante vetro
che ottunde il grasso disegno
del colle già rammutito, metro
del salire lieve tra muraglione e platani sacellosi.

Denso di torba lo sputo
e conferente con la gravità
per poco in aria poi muto
sboccia in terra perduta levità.
In cima la via di fronte al feudo ventre il conflitto è conflato.

Giù e su per le antiche scale
ambulato troncone d’agnello
corpo pellucido male
che fienato seguita il modello.
Le vesti scorporate ammucchiate sono stracci da spolvero.

Empìti i laveggi enormi
migrazioni delle acque e clamori
di lavoro sui contorni
sul vetrato alto buio e lucori.
Nei fuori le densità non allentano si mangia si muore.

Le coppelle sui muretti
del chiostro, le carte i quadrigliati
la cura la doccia i letti
in spazio deroga il tempo in fiati.
Tutto ciò che occupa non rimane solo uno sciamito d’api.

Maggiano, gennaio 2012


(canzone, ottonari e decasillabi alternati con verso ipermetro di somma (18 sillabe) con schema ABABC
rime alternate)



Di cenere e d’ombra


Trasudano le domeniche ambulanti
i lunedì distratti ventricoli
della deflazione inflazione d’alberi
malati come di filossera ma è solo
inverno. Sul fumigare mattino
innervata di rami l’aria soffre
ipertenuse pazienti e sconsolate.
Ci hanno tolto o forse non siamo
riusciti a mantenere l’opportunità
di mangiare il sole, le costruzioni a colpi
di squadra popolare, loculi per i morti
nidi ingrommati di nevrosi.
Non tutto rimane
sono cambiate anche le ombre la filotassi
del tuo volto è diventata scalena
nel mio sono rimasti gli occhi.
Non ancora
un tributo alla notte labbra
scottate dal mozzicone quale resistenza
hanno opposto i capillari
del fumo
un tribuno del niente




Sui Quaderni in ottavo di K. (Ottativo)


I.

Tentennio di un non fissato a muro, passo svelto in specie di notte
sotto annuvolati limpidi tacchi tintinnaboli.
Vasca vorticosa di girini portico l’orecchio del torace camera del plesso
dove amplessicaule rimbombano memoria di voci
voce sconosciuta la tua ispessita dal callo, prece d’altare vespero
verbera verba, pregresso di voci che si accavallano dentro una camera.


II.

Nonostante la cura si consumano troppo in fretta sul mio stesso corridoio
calda sera in un’unica stanza che dà sul mio stesso corridoio, con porta
antelucana, la tromba, scalea ricca di libecci abita nell’andito di quella
porta che dà sul corridoio androne un rammendatore
e nonostante la cura si consumano troppo in fretta.


VI.

Conoscere per se stesso afferrandosi ai propri capelli su dalla palude
dalla legge di gravità abolita senza volo, gli angeli non volano
le creature impregnate di terra vedano terra ovunque misera
è la conoscenza che ho della mia stanza dove sostano rispecchiamenti
della terra, ovunque ci volgiamo le coordinate di permanenza
di un posacenere incertano il dentro dettato non dettabile.



Daniele Poletti nasce a Viareggio nel 1975. Poesia e performance sono le attività che da più di quindici anni si intrecciano nella sua ricerca. L’esperienza performativa parte da letture pubbliche per arrivare a veri e propri progetti di teatro del corpo.
Sul finire del  1995 pubblica, in edizione privata, la raccolta di poesie lineari Dama di Muschi, con i testi introduttivi del poeta visivo Arrigo Lora-Totino e dall’artista Antonino Bove.
Sue poesie e lavori concettuali sono apparsi su varie riviste e contenitori d’artista (Offerta Speciale, Risvolti, Geiger, l’immaginazione, BAU tra le altre).
Nel 2003 è presente nella raccolta collettanea di poesie L’ora d’aria dei cani, per i tipi di Mauro Baroni. Sempre per Baroni ha pubblicato il racconto breve Una giornata particolare.
Sul finire del 2005 pubblica la raccolta di poesie “Ipotesi per un ipofisario”, Marco Del Bucchia Editore.
Nell’aprile 2010 escono 10 sue poesie sulla rivista “l’immaginazione” (Manni editore) con una nota di Edoardo Sanguineti.
È presente ne La vetrina dei poeti del blog Il fiore del deserto con una silloge presentata da Lorenzo Mari;
su Poetarum  Silva con un’introduzione di Natàlia Castaldi, su Rebstein e su Trasversale blog con un testo di Rosa Pierno.
Ottobre 2013 testo dedicato a Emilio Villa, pubblicato nel volume collettivo PARABOL(ICH)E DELL'ULTIMO GIORNO. PER EMILIO VILLA Dot.Com Press.
Fondatore e promotore del progetto culturale [dia•foria: www.diaforia.org,  che all’inizio del 2013 ha inaugurato un nuovo spazio dedicato alle scritture di ricerca: f l o e m a - esplorazioni della parola (http://www.diaforia.org/floema/)




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