L'invettiva è un genere alto, che attraversa la poesia latina e italiana. Per esempio un epigramma di Marziale, nella modernissima traduzione di Mario Fresa (L'Arca Felice, 2011), recita: "Fefe, lo vedi, è rachitico, è palliduccio: / perciò si crede poeta. Povero ciuccio!" (VII, 4). E Pasolini, due millenni dopo, ne La religione del mio tempo, chiama il critico cinematografico G. L. Rondi, "ipocrita", e "spie" gli "apostoli" di Luzi, oltre che accusare i letterati italiani d'essere tardi di comprendonio e ammanicati con i poteri costituiti. Per non dire di Alfredo de Palchi la cui voce, nell'ultimo capitolo di Foemina tellus (Jocker, 2010), prorompe senza timori "in accuse verso il mio paese di nascita, i suoi piccoli uomini grondanti di malvagità, e le vicende grandi e piccole che hanno fatto la mia storia". "Il rigurgito – aggiunge – mi è venuto spontaneo". E spontaneo è giunta la nausea anche a Roberto Bertoldo in Pergamena dei ribelli (Joker, 2011), nella cui nota egli sottolinea la provenienza della poesia non "dal nostro gusto ma, piuttosto, dal disgusto". Già ne L'archivio delle bestemmie (Mimesis, 2006), la posizione conflittuale era chiara e rivolta, frontalmente, ai poeti italiani contemporanei: "Le vostre divine parole sono da rotocalco, / le mie, così blasfeme e plebee, / le affiggo sulle porte delle cattedrali". Come un epigono luterano, la sua Wittenberg ha invero due porte: i libri di poesia e la rivista "Hebenon", che dal 1996 conduce una militanza autorevole sul fronte del "rifiuto della menzogna e la resistenza all'oppressione", come affermò Albert Camus alla consegna del Premio Nobel, discorso ampliamente citato da Bertoldo in esergo del suo ultimo libro.
Voglio essere chiaro: questa mia non sarà un panegirico a un poeta la cui lirica "si è affrancata dalla civiltà del post-simbolismo consegnandoci uno degli esiti più alti della poesia contemporanea", come scrive Giorgio Linguaglossa ne La nuova poesia modernista italiana (Edilet, 2010), sbilanciandosi più per coincidenza con la propria tesi, piuttosto che per chiare evidenze testuali. Preferisco restare un passo indietro, fuori dalle graduatorie, e descrivere anziché giudicare, almeno nella prima parte di questo saggio. Un primo passo l'ho fatto: Bertoldo prosegue una tradizione importante, che si aggancia direttamente, per sintonie e amicizia, con De Palchi, del quale "I quaderni di Hebenon" pubblicarono una raccolta di saggi nel 2000. Lì, Bertoldo riconosce "lo stile" dell'italo-americano "rabbioso" e "collerico" (esattamente quanto è riscontrabile nella Pergamena) perché "condizionato dallo scontro del poeta con se stesso, con la propria nevrosi". Qui tuttavia la somiglianza finisce perché all'io rancorso, Bertoldo, sostituisce il "noi" agguerrito, i "prediletti" che hanno "abbandonato la vita" per le sue troppe "clausole", che prendono "la poesia per il manico", un "noi" che sanguina, che piange, che vuole "il foglio dove scavare trincee". Una prima persona plurale vestita da guerra, dunque, senza pietà verso un voi che sfuma i contorni, un voi pusillanime, fatto di "uomini mediocri", "infami", servi del potere, contro i quali il poeta si fa martire, scrivendo – a suo dire – la verità. Ossia, appunto, sostenere che il mondo è sotto il controllo di esseri meschini, che, per dirla in un solo colpo, mafiano "la spina dorsale / dei popoli bigotti e sornioni". Una verità certo non nuova, e probabilmente condivisibile, ma che qui assume i tratti di una dichiarazione di guerra simile alla crociata ("vogliamo una poesia che sdruccioli sui pavimenti insanguinati"), che dovrà sterminare il capitale e le sue mosche, poeti di regime compresi. Il disgusto, che pervade l'emozione e precede la scrittura, diventa prassi dell'odio, lotta aperta con l'inchiostro contro un nemico-monstrum, macchia esso stesso, lotta che in Bertoldo s'incanala anzitutto nel conflitto con la società letteraria nostrana, in un'azione non individualmente nevrotica, come in De Palchi, perché condotta invocando altri poeti-guerrieri. Poesia infatti "attende alla rivolta", nel senso che la prepara, con un fare creativo che ricorda il progetto dell'uomo in rivolta camusiano. L'autore franco-algerino costituisce non per caso un caposaldo della formazione bertoldiana, così come Leopardi: entrambi, ci ricorda, "sono alle radici della cultura nullistica" di cui egli religiosamente si è fatto teorico fondantore, intendendola quale "lotta contro la morte e contro chi, in un modo o nell'altro, asseconda tale morte. Tutto consiste in questo: vivere e aiutare a vivere, mitigando le sofferenze il più possibile, nonostante la certezza della morte" (R. B., Nullismo e letteratura, interlinea, 1998, p.29). Evidente che l'elemento del dono (“aiutare a vivere”) manca del corrispettivo cristiano del perdono, nella misura in cui il nemico, per Bertoldo, va annientato. A meno di non pensare a un cristianesimo nel quale il sangue degli infedeli garantisce un credito nell'aldilà, a una sorta di medioevo della Chiesa, potremmo dire, che in Bertoldo assume tuttavia l'anarchico respiro di una fede tutta terrestre, un dio-felicità a tutti accessibile, a patto che sia prima condotta una guerra contro i barbari e quanti detengono ora il controllo dei mari. Coniugando Bakunin e Rousseau, il paganesimo e Voltaire, Pergamena dei ribelli incita i soldati, usando il registro epico (immagini plastiche, militaresche, nitide, spartendo gli eroi dai codardi, i giusti dai malvagi), calcando la funzione linguistica persuasiva di una forte carica emotiva, il cui perno è l'aggettivo.
Le mie perplessità sono tra le righe, ma voglio renderle esplicite. La prima è di natura ideologica: scegliere la violenza (anche solo verbale, senza alcuna sordina ironica), sceglierla non occasionalmente, per eccesso singolare e sfogo o rabbia, ma per strategia operativa, per sistema, significa assimilare il metodo del potere, accettarne la logica e, dunque, perpetrarlo. Comunismo, cattolicesimo, capitalismo, anarchia sono identici da questo punto di vista. La seconda osservazione, chiama in causa l'intenso lavoro critico che sta facendo Giorgio Linguaglossa contro la "parola poetica del moderno", rea d'avere rimosso la "carica energetica" tramandataci dalla grande tradizione mediterranea prima della destrutturazione dei linguaggi. Destrutturazione, non dimentichiamolo, che è anche delle categorie gnoseologiche, dell'idea stessa di unità e di verità; l'esaurimento è dunque ontologico, non soltanto storico e psicologico. Io credo perciò che si possa uscire dal tardo simbolismo contemporaneo non per reazione alle poesie addomesticate o troppo esposte sul significante, come pare suggeriscano Linguaglossa e Bertoldo, bensì dando ascolto alle incrinature della contemporaneità. Se da decenni parole come frammento, lacuna, faglia, traccia, soglia– quando sono praticate consapevolmente – vivono fecondamente nella poesia italiana, ciò è dovuto all'appello stesso del vero, che dal Romanticismo ha trovato questo modo d'incarnarsi, in una differenza sia dai saperi positivi, che lo hanno irrigidito in una visibilità solida, monolitica, asfissiante, sia dal chiacchiericcio mass-mediatico, ma anche dal discorso ideologico. Diffido perciò di una parola poetica che pronuncia il vero frontalmente, senza titubanze, tanto più se in quella pronuncia si salva la violenza e si divide, in modo manicheo, chi ha torto da chi ha ragione. Moderno è proprio questo modo di procedere: da un lato i ribelli dall'altro i dominatori, senza distinguere le responsabilità individuali. Non sto difendendo sistemi di potere, ma semplicemente invitando ad una postura differente in merito alla definizione di verità condivisa, altrimenti i vincitori avranno sempre l'ultima parola. Questo soprattutto nel mestiere del poeta, che non può diventare educatore senza sventolare bandiere. I più bei versi di Bertoldo sono, per me, quelli in cui l'io lirico si lascia andare a metafore che trascendono la contingenza, senza perdere carica eversiva: "le stelle litigano sulla carcassa del mare, / spezzano l'appello dei gabbiani" oppure "Noi siamo l'altra fisionomia / dove i tigli agevolano le ombre". Versi nati da un respiro italiano, dove la scrittura scarta dall'oralità, dalla retorica, agendo sul metro, versi culturalmente in debito con la tradizione tardo-simbolista ma non per questo lontani da certo immaginario, anche bellicoso, dantesco e omerico, precedente alla koinè modernista e comunque efficace. Certo questa trasfigurazione potrebbe non bastare. Ci sono urgenze che cercano il grido, la bestemmia o, appunto, l'invettiva, ma credo che essa vada misurata e integrata con altri registri, altri toni, al fine di tenere la scrittura fuori dal proclama, fuori dalla cronaca più evidente, e perciò capace di parlare anche ai posteri e, per paradosso, agli antichi.
Lettura critica uscita con il titolo La militanza poetica nella tarda modernità: la linea bellicosa di Roberto Bertoldo ne "La clessidra" Anno XVII - n. 1-2 - novembre 2012
da Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011
Voi, uomini mediocri…
Voi, uomini mediocri, che rubate
i miei versi cantati a calce,
indubbiamente voi siete la storia
e incutete la miseria sulle porte,
quando la nube lastrica i ciottoli
di impronta umida e fraseggi di luna.
Fate della pena vostra l’inganno
che penetra con le sue dita disciolte
nella bottega dei miei occhi,
orsù padroni delle piaghe,
ci sono nate addosso le credenziali.
Sappiatela la verità…
Sappiatela la verità,
è sufficiente effondersi nello squarcio,
lo spacco della carne gelata
lungo le strade, contro i muri.
Chi occupa l’amore, per venti leghe
di giorni e notti, antec’a l’è
il nullificante, la bestia, carta straccia,
‘na rovina che impilo davanti ai
vostri visi grifagni, e che dico?
anche il ventre che fa vendemmia,
ch’eppure di monete è la vostra
intelligenza, vostra miseria,
la vendita dell’anima –
non c’è che la materia lì,
un po’ di roba da crespelle,
giù sino al foro, ancora,
vi voglio dire, che artisti
vedervi fare l’architettura della Convenzione.
A cosa hanno portato…
A cosa hanno portato quei tagli
nelle pareti della Palestina
e gli oliveti disfatti
come se la religione fosse un frantoio?
Quali germogli avrete
israeliani dall’occhio amaro
dove la terra è reproba
e la luna sempre calante?
La vostra sola fratellanza è da faccendieri
come per il muro di cemento palestinese,
il resto sono le case abbattute
di cui le coperte correggono il vuoto
sulle gambe dei bimbi intirizziti.
Tutte le poesie che accantonano il male
sono il suo crudele risvolto.
Noi vogliamo l’impoetico
se la vostra avidità di gazza
è sottaciuta dagli inni,
si faccia incetta di questo sale immenso
affinché i poeti urlino con le loro ferite
finalmente ecumeniche!
Urlano le tombe di Troia…
Urlano le tombe di Troia
sui figli di Sharon,
il ventre di Palestina ha aperto rose
nel capitale dei corpi,
abbiamo visto le ennesime pupille cadute,
sbriciolate le mani senza più carezze,
e uomini col sedere grosso
fare spazio alla propria sedia.
Tutti i popoli hanno i loro orchi
che declamano la notte
come fosse divisa in sillabe.
Avete appeso…
Avete appeso i colori dove il cielo era nero,
queste che vedete sono mani imperiture però,
macchiate, sia pure, con vernici d’oltre,
ma pronte alla battaglia contro tutti gli dei
che possa la vostra boria.
Anche le nostre labbra sono imperiture,
mica di pusillanimi poeti col cuore in ciabatte,
pure da seduti siamo sfrontati noi operai della parola,
noi vere bestie in agonia sulle greppie,
nelle mense per sfollati. Il parlamento è per i vostri poeti,
noi vogliamo il foglio dove scavare trincee,
anche chi scrive si prende le pallottole
quando trova la bellezza e la innalza
come una baionetta.
Ci sono giorni…
Ci sono giorni in cui le labbra luride cantano,
allora lavorano ai fianchi le parole, escono di merda –
e per noi la prova è l’infimo,
chiazze di lungimiranza infettano i sensi,
non c’è cazzo di vita nel vivere!
e ci fa paura prendersela con i venti
che scuotono sulla palpebra la notte dormiente,
come quando gli aerei ci passano sulla testa per andare a colpire
e sentiamo noi la scheggia che spezza i bimbi degli altri,
il peccato è anche questo essere risparmiati
perché le nostre mani non sanno fermare la disgregazione
di un paese, delle primavere, della paternità.
Non voglio fare il poeta ma amare sí, cristo!
bruciatemi le pergamene all’atto finale,
ma questo cuore lo rispetterete fino all’inferno.
Butterete ostie…
Butterete ostie sui carri allegorici
e le mani dei vecchi si perderanno
dove il buio è fugace, rosa nera,
in camice di nuvole, falsate dal vento.
Il polline della vergogna si posa
sulle pietre e i quadrifogli,
la luna, stipata, cancella la corteccia
degli amori infilzati dalle parole.
Voglio portare altri felici al regno del mondo,
gesù cristo era un bambino down
e sorprendeva i raggi del sole
con il suo sorriso d’ocra.
Disprezzerete anche questa pergamena
che snocciolo con la protervia
delle mie mani piantate sui muri
con contorni di sangue sanscrita.
Roberto Bertoldo nasce a Chivasso il 29 aprile 1957 e risiede a Burolo (TO). Laureato in Lettere e filosofia all’Università degli Studi di Torino con una tesi sul petrarchismo negli ermetici fiorentini, svolge l’attività di insegnante. Si è interessato in particolare di filosofia e di letteratura dell’Ottocento e del Novecento.
Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura "Hebenon", che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri.
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia stranieraHebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
Nel 1996 ha fondato la rivista internazionale di letteratura "Hebenon", che dirige, con la quale ha affrontato lo studio della poesia straniera moderna e contemporanea. Con questa rivista ha fatto tradurre per la prima volta in Italia molti importanti poeti stranieri.
Dirige inoltre l’inserto Azione letteraria, la collana di poesia stranieraHebenon della casa editrice Mimesis di Milano, la collana di quaderni critici della Associazione Culturale Hebenon e la collana di linguistica e filosofiaAsSaggi della casa editrice BookTime di Milano.
Bibliografia:
Narrativa edita: Il Lucifero di Wittenberg – Anschluss, Asefi-Terziaria, Milano 1998; Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia 2002; Ladyboy, Mimesis, Milano 2009; L’infame. Storia segreta del caso Calas, La vita felice, Milano 2010;
Poesia edita: Il calvario delle gru, Bordighera Press, New York 2000; L’archivio delle bestemmie, Mimesis, Milano 2006; Pergamena dei ribelli, Joker, Novi Ligure 2011;
Saggistica edita in volume: Nullismo e letteratura, Interlinea, Novara 1998; nuova edizione riveduta e ampliata, Mimesis, Milano 2011; Principi di fenomenognomica, Guerini, Milano 2003; Sui fondamenti dell’amore, Guerini, Milano 2006; Anarchismo senza anarchia, Mimesis, Milano 2009; Chimica dell’insurrezione, Mimesis, Milano 2011.