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Beppe Salvia

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La competenza e la meticolosità critico-documentaria di Pasquale di Palmo nel curare I begli occhi del ladro (Il Ponte del Sale, 2004), ci permettono finalmente di avvicinare in modo esauriente la poesia di Beppe Salvia, autore che scelse la morte poco più che trentenne e che ebbe la fortuna di crescere artisticamente entro l’alveo materno di “Prato pagano” e di “Braci”, riviste dal confine inaugurale e fondativo, consapevoli entrambe nel celebrare, come scrisse Salvia, «le giovani parole! / rosa come i fiori di pesco, bianche come i fiori / del mandorlo», sorridenti e «allegre come belle fanciulle!». Un progetto, questo, maturato appunto nella koinè romana sul finire degli anni Settanta, che aveva in Gabriella Sica la fresca pizia esule dall’etruria, e in Salvia il giovane randagio che rallegrava le sue quiete stanze con poesie e disegni: «Suonava all’improvviso a casa mia – ricorda la poetessa in un saggio del 1994 – e mi faceva leggere le sue poesie, o faceva un disegno sul mio terrazzo». Poesie che ancora non possedevano la limpidezza di Cuore, frutto maturo in cui, per dirla con Claudio Damiani, la lingua «dice la cosa, ma seguendola, amandola, accarezzandola, con affetto schietto, netto», secondo la lezione pascoliana poi forse resa al meglio da Saba, Penna, Bilenchi e, fuor di confine, da John Keats, poeta molto amato da Salvia e, per singolare coincidenza, sepolto nel cimitero degli inglesi, alla Piramide di Roma.
   Le prime poesie di Salvia, pubblicate postume con il titolo Estate nel dicembre 1985 presso i "Quaderni di Prato Pagano" con l’eteronimo di Elisa Sansovino, mettono in scena un io femminile che pare gemello, per humor nero, alla Becchina di Cecco Angiolieri, però manierate retoricamente secondo il petrarchismo di un Bembo disposto a soprassedere al decoro ma non alla levitas. Un singolare connubio di classicità ed energia bassa, tellurica, quasi, scuote i versi giovanili di Salvia, capace di attraversare una tradizione complessa e di lontana radice, sino a fare incontrare Penna («Il mio Garibaldino s’è assopito / tra le colme ceste del bucato/ un sole ora l’abbaglia e l’ha destato») con l’arzigogolo barocco («Una di pilastri in riga muta teoria/ fa vagarmi tra rami falbi / ricordi, amici pensier di bella briga»), per ottenere ad effetto la temperie stratificata della calda estate della vita, che infiamma i sensi e tuttavia immalinconisce. Al centro sta la grazia popolaresca della Sansovino, «aspra e meticolosa giovinetta»immaginaria nonché controfigura di un poeta-albatro per caso caduto fra i marmi di una Roma che già aveva lapidato Pasolini, un albatro temporaneamente al sicuro nel cenacolo pagano governato dalla Sica.
   Salvia tuttavia ha un’inquietudine che niente riesce a placare, qualcosa che Saba curava con la morfina e altri con l’alcool. Siamo negli anni in cui, giovane, qualcuno s’illudeva di vincere l’arido vero infilando l’ago nelle vene affinché brillasse «una febbre sul braccio» capace di scaldare l’anima e di chiudere «i begli occhi del ladro», quelle «vene che furono marea» (Milo de Angelis), viatico della prima generazione davvero orfana del mito, ritratta nella sua angosciosa umanità da Pier Vittorio Tondelli in Altri libertini. Eppure, ciò che a prima vista sorprende in Salvia, come bene rileva Di Palmo, è proprio «quella specie di dicotomia che si manifesta tra la vicenda biografica... e la serenità, quella rassegnata accettazione degli eventi che pervade molte delle sue liriche più autentiche».
   A guardar bene, tuttavia, nella tradizione cui la “scuola sicana” fa riferimento, la biforcazione evidenziata da Di Palmo si dissolve, essendo già intrinseco al Petrarca o, più indietro ancora, ad Orazio, sublimare nella bellezza il dolore, facendone superficie franta eppure armonicamente in equilibrio, in un gioco di rimandi sonori, ritmici e semantici capaci di distrarre il sentire del lettore dal buio che li fonda. E davvero le liriche migliori di Cuore stringono «morte sensi mente bellezza» in un abbraccio d’uomo solitario eppure sabianamente immerso nella calda vita, in quelle vaghe «voci/ giù nella via» che gli si slargano «in petto» per condurlo all’umanità tutta. Come il poeta triestino, anche Salvia non riesce tuttavia a fondersi con essa, a diventarne parte, e per questo cerca «il sommo di un colle», o l’ovatta delle stanze chiuse (entrambi topoi petrarcheschi), fino talvolta a trasformare questa necessità esistenziale in costrizione metrica, in esercizio claustrofobico che aduna lessemi omofoni in cui l’ariosità del verso rischia d’incepparsi, di tornare ai tic propri a Elisa Sansovino. Ma più spesso - specie in "cieli celesti", "Cuore" e "Sillabe", sezioni forti del libro – Salvia mostra d’essere di mano sicura, intrecciando a maglia larga variazioni infinite del sonetto, così che per quegli spazi respirino le cose del creato, tra loro vicine grazie all’amicizia, valore centrale della cultura greco-latina e che appunto in Cuore si coniuga classicamente con l’ozio, con lo stare insieme in un dolce far niente, che tolga dal gelo dei giorni, dall’incubo, dalla scissione e dall’angoscia evocati, poi, in Elemosine eleusine, «un’autobiografia definitiva» in versi e in prosa, scritta tra il 1982 e il 1984. Quest’ultimo libro porta sulla scena la morte, ma anche i Beatles, i Japan, Andy Warhol: insomma, la musica e l’arte quali farmaci alla solitudine, con quella doppia valenza intrinseca nell’etimo di pharmakon, che tiene insieme balsamo e sostanza letale, medicina salvifica e veleno.
   In effetti, le tre raccolte poetiche antologizzate ne I begli occhi del ladro oscillano di continuo fra la certezza della parola quale medicamento che toglie dai peccati del mondo e la consapevolezza che niente potrà guarire dal male oscuro, né l’amicizia, né la poesia, né la forza interiore, che si scopre incapace di aderire naturalmente alla vita: «nessuno / dell’ordine dell’universo m’ha insegnato / ad amare la sua natura grande / e umile. Ho offeso con la mia stupidità / la legge della vita...».
   Il libro che Pasquale Di Palmo ci presenta contiene in conclusione tre racconti brevi, il più bello dei quali è Casa, storia decadente, a mezzo tra l’estetismo dannunziano e lo Schnitzler del Doppio sogno, dove mistero, aristocrazia, oppio, sensualità e gelosia sono i demoni reali dell’iniziazione alla morte del protagonista, a quell’incontro con l’ombra che sempre innerva i luoghi più intensi dell’aldiqua, restituendoceli nella loro natura doppia, conflittuale e amorevole ad un tempo, passiva e attiva, morale e immorale, secondo quell’idea taoista, che altrove Salvia racchiuse nell’immagine del cuore concavo e convesso, aperto e aprente, in una circolarità di luce e ombra in cui la poesia s’immerge per rinasce, come ad incipit vita nuova.


Recensione uscita, in versione ridotta, ne “La Mosca di Milano”, n.12, maggio 2005 e, ancora più sinteticamente, in Stefano Guglielmin, Senza riparo. Poesia e finitezza, La Vita Felice 2009
           



LETTERA

Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.
Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.
Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.
Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire
salvi quasi per caso, e in questo prodighi.
I baci sono bellissimi doni.



PRIMAVERA

In strada come una greppia gli amori,
l’acero festoso salirlo averne
prova, maldestro rampicarsi e i cori
fanciulli che si dan briga, saperne
l’errore novissimo che speranza
rinnova, ed altro coro è allegra danza
nel cuore mio che ammira, l’amore, tra
questo ardire bello ch’è prossimo
ad ogni età fanciulla e là dentro
fanciullezza del corpo acerba e lieta,
unisono splendente l’arco, corda
d’un suono solo, tende ad origine
e scocca vertigine d’un raggio ov’è
fida malìa accorgere mestizia
splendente



ESTATE

Di morte m’ha destato il sordo vanto
quel traversar pallido e stanco
il seno d’un prato bruciato, rosse
le ferme corolle segnano i fossi
come volesser, stralunato manto,
il disegno astrale suggerir, ecco
or nel secco vento la curva stanca
della luna al vanire s’affanna,
bruciano le corolle un fuoco vcchio,
al sole ed alla luna opposti astri
fan specchio, immillano quell’altera
vicenda dei due lumi l’ale affannate
terse d’uno sfex ch’ora s’aggrava,
va, sullo stelo d’uno di quei pesti
fiori del prato che sembrano i sitri
sopiti dell’egro strumento dell’anno.



AUTUNNO

La posa d’un abito spento e di quel
bianco vestito accanto della sposa
m’innamora; davanti la chiesetta
fanno festa, fan le fotografie,
fugge un bimbo quelle malinconie,
corre allo staccato e già s’affretta
a tornare spaventato dalla rossa
coda d’un galletto che grida or quel
suo strido molesto; è che s’è fatto
nero un nembo di tempesta, rotola
il lombo, la festa malinconicamente
sotto la fredda quercia un vento
ha spenta; piove, fa scuro,or cola
una lacrima lesta; quell’unica
festa il piovasco ha rubata alla sposa.


***

E non rapida foglia scende ove
è rapita la veglia, fiocco lento
bensì s’appresta al volo, lieve neve,
misterioso duttile bianco manto
che rende chiarità serena come
specchio ove posi l’abile libertà
d’un cavallino nero, e poche bave
di fronde su neri stecchi, novità
belle è quella bella gronda soffice
dove la taccola tace e gli occhi miei
fissano il lume che mescola luce
a quelle piume rapite d’un soffio
di freddo, come il disegno sprezzato
il volessi schizzar d’un sogno doppio
che sdegna luci ombre che riposa
in un pianto nevoso e senza voci.



Poesie inedite 

La notte è lunga a chi non può dormire
E frutta il sonno di nessuno sotto le ciglia
Se posso pensarti mancina come vieni
E racconti non smetti mai di dirmi -
Non smetti mai di sciogliere le voci
Il bianco sonoro il rosso odoroso
Dell’autunno, la mia vita prima che sia l’alba
La tua bocca inzuccherata di sangue -
Allora non fa davvero così male, rapimento
Dei sensi smagriti, in confidenza al loro rossore
I turbinii dei nomi e dei cognomi
Rapimento puro come un occhio puro
Come il semplice ascolto quando cadono le immagini
Il nodo della rete che accalappia il cacciatore.



***

Io ti invito allo sguardo calmo, quello
Che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
Anche se povero di mezzi, pensa agli acquazzoni
Di primavera che illuminano il verde.
E alle radure che si dilatano le ore
Nelle vasche che il cervello ruba al sonno
E restituisce, in globi trasparenti di veleno -
La morte scalpita a cavallo in questo paese – come da sempre
Io ti ascolto rinascere per la china dei giorni
Giorni e giorni come un alacre contadino ed un
Archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume
La nivea contrazione che mi assorbe, i nudi
Ricordi che mi assalgono, la casa che si squarcia, infine
Mi arricciolo in capriola mi addormento e faccio un sogno.



***

Di qui si vede finalmente il cielo
muto ed eterno e poi di luce chiuso
esso è l’intero aere che racchiuso
l’eremo austro del mistero
lo spande a lacrime e luce e luce
ancor piana ancor grande, anche felice
d’ombra inaccessibile, per tutte chiare
cose e qui nell’intimo cuor del glicine,
che verdeggiando su muri, tacito
e odoroso, chiude l’orto conosciuto
e quasi sol col suo nudo profumo
apre all’immensità d’un volto d’uomo
che di lontano da noi sorride, dio
dell’eterno, con occhi pii e ciglia
ridenti, astratto quasi futuro



***

Dilaga la tua fronte bianca e sento
Infrangersi e seguire il crollo
Di una diga i lunghi
Affanni, ed un colore acuto nelle vesti:
La fronte d’alito vento e chiome e fronde
Apparsa in sua natura chiara e tanto
Lindi gli occhi che il mio bene accoglie
E inganna, e la stanchezza di quei tenui drappi,
L’occhio piroscafo – in essa i nidi calici – e
Rimuove aurorali alte tempeste
E aurore boreali che esplodono in guazzi di
Dolore i cervi, e le anguille, il mondo intero
Posati – Rimani ancora assorta – Rimani ancora un’ora
Noi siamo i gusci vuoti e secchi
Rumori che non osiamo ascoltare

Allontana da me questo fuoco.



***

da Cuore

Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.


Qui alcuni suoi libri

Beppe Salvia nasce a Potenza il 10 ottobre 1954. Dopo essersi trasferito con la famiglia a Roma nel 1971, studia entomologia e si dedica alla scrittura. Nel 1979 fonda, insieme ad altri scrittori, la rivista “Braci”. Collabora a “Nuovi Argomenti”, “Prato Pagano” e altre rivista. Muore a Roma il 6 aprile 1985. Escono postumi i libri Estate, pubblicato con lo pseudonimo di Elisa Sansovino (Il Melograno-Abete, Roma 1985), Cuore (cieli celesti) (Rotundo, Roma 1988), a cui viene assegnato il Premio Leonardo Sinisgalli, ed Elemosine elusine(Edizioni della Cometa, Roma 1989).


                                    

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