In occasione della serata di poesia Traversi incontra Pordenonelegge (Ca’ dei Ricchi, Treviso, 26 ottobre 2016), alla quale sono stato invitato, Marco Scarpa ha letto questa nota, che pubblico con piacere, essendo chiara e puntuale.
Sono passati trent’anni dalla prima pubblicazione di Stefano Guglielmin, un percorso di scrittura che ha attraversato diversi orizzonti, diversi scenari, diversi argomenti. Queste venti righe non sono dunque che un accenno di alcune linee della sua poetica. I suoi versi hanno attraversato il linguaggio della poesia, i suoi limiti e i suoi meccanismi, la sua storia e le avanguardie che l’hanno disinnescato e si incuneano tra i meandri della forma e del fare poesia oggi. Le prime raccolte sono maggiormente immerse in una scrittura di pensiero, densa, meditante, fagocitante per poi farsi via via più aperta.
Non è una scrittura descrittiva quella di Stefano Guglielmin ma piuttosto allusiva, rintraccia ma non espone chiaramente, dirada, sfuma, riporta l’idea dello spaesamento dentro le persone, riporta vuoti di certezze e di identità. E questa dote di analisi avviene spesso grazie a una ironia sottile, grazie a citazioni, grazie a richiami di immagini e figure umane.
Alcune novità di questo percorso emergono poi forti nell’ultima raccolta, Ciao cari, edita proprio quest’anno da La Vita Felice. La poesia mette in scena il privato, tra ricordi e lutti. Elabora la distanza storica ed emotiva con i cari affetti, siano essi familiari o letterali, poco cambia. Dove prima si procedeva per gradi di consapevolezza, ora la via è verso una riduzione, una sintesi, una trasparenza. Se prima scrivere era per capire o per esemplificare/spiegare ora l’obiettivo primario è accorciare le distanze, ricondurre a casa il vissuto. E questi molteplici ritratti di persone, alcune riconoscibili alcune più sfumate, tracciano una costellazione di possibilità dell’umano, una galleria di esistenze che da pochi particolari delinea una visione singolare e insieme globale.