Ho appena letto l’ultima delle 651 pagine di Works di Vitaliano Trevisan edito da Einaudi Stile Libero. Era da moltissimo che non mi succedeva: un dispiacere, come dall’aver salutato un carissimo amico, rimanere da sola con il vuoto che ha lasciato.
Pochi autori mi sanno entrare a bomba così.
Vitaliano Trevisan da oggi è a gran diritto uno dei miei scrittori diletti. Un libro *forte*, Works, tanto forte e coraggioso è l’autore da spiattellare tutta la sua variegata e faticosa vita (e quello che gli ruota attorno), comprese fragilità e debolezze oltre che sue, delle persone che incontra lungo la strada. Attraverso il filo conduttore dei tantissimi lavori assunti, Vitaliano Trevisan racconta la propria difformità dal mondo che – malgrado gli innumerevoli sforzi – non gli permette di mettersi mai in condizione di conformarsi, di adeguarsi, di entrare nel “giro”. Un uomo distante da quasi tutto, eppure enormemente dentro tutto.
Fra i molteplici impieghi, muratore, lattoniere, operaio di magazzino, commesso di gelateria, giardiniere, portiere di notte e altri fra i più disparati, faticosi, umili, sottopagati mestieri che piegano e piagano corpo, mente e anima, oltre ad altri meno faticosi fisicamente, ma non meno prostranti mentalmente, soprattutto per un uomo che non rientra in nessun schema, che non si adatta se non per necessità, che non può stare alle regole se queste vogliono dire venir meno a principi di una sana (più o meno, a seconda dei punti di vista) ribellione, che contraddistinguono una personalità complessa, solitaria, libera, e forse soprattutto per questo, quasi incapace di trovare un suo ruolo nella società.
Leggendo il libro, a tratti, ho sentito anche una specie di imbarazzo, quello che viene dall’origliare da una porta socchiusa. Ma la porta di Works è spalancata e bisogna metterci interi se stessi per poterne percepire il rumore fondo, assordante.
Una persona vera all’estremo, Vitaliano Trevisan, dove per estremo si intende il rischio di non riuscire a darsi un posto nel mondo. Un mondo che sappiamo essere impregnato di sovrastrutture, di ipocrisia, di miseria che Trevisan mostra spudoratamente con fatti alla mano, attraverso la sua mente accesa, spugnosa, ferocemente onesta nel guardare e nel guardarsi. Un uomo schivo, sconfinato. Una intelligenza che nutre leggendo e facendo, suo malgrado, esperienza di ogni cosa, dall’ambiente più degradato a quello più raffinato; in entrambi ha a che fare con un’umanità dove la meschinità non manca. E dove raramente incontra la purezza. Una persona dalla scorza durissima, eppure sottilissima; la trasparenza di uno sguardo che si contrappone ad un estremo distacco. Un uomo esposto, sempre in bilico, al limite della vita lungo la quale lui sembra non abituarsi mai a camminare.
Un lavoro (l’ultimo in termini di mestiere, mi auguro) – questo di Works – che è durato 5 anni, dal 2010 al 2015 - ma che in realtà gli è costato tutta la vita, fino all’ultima frase “Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione.”.