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Mahmud Darwish

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Per comprendere meglio Il giocatore d’azzardo(Mesogea, 2015, trad. it. di Ramona Ciucani), poesie postume di Mahmud Darwish (1942-2008), conviene tener conto della radice politica della sua ispirazione originaria, condensata nella famosissima Carta d’identità, vero manifesto identitario del popolo arabo. La lucida introduzione di Elisabetta Bartuli a Una trilogia palestinese (Feltrinelli, 2014) ci illumina in tal senso, riconoscendo alla poesia di Darwish tre tempi: il primo (1964-1973), corrisponde alla “fase rivoluzionaria e patriottica”, che ha fatto di Darwish il poeta palestinese più amato; il secondo atto coincide con la fine egli anni Ottanta, dove epica e lirica, tradizione e innovazione si giocano nel medesimo spazio testuale; l’ultima fase è pervasa dalla metafisica e dall’interrogazione dell’uomo, inteso, per dirla con Ungaretti, quale “docile fibra dell’universo”.

In questo terzo e definitivo periodo, si inscrivono i sei poemetti che compongono Il giocatore d’azzardo, segnati, specie i due più lunghi, da una frammentarietà non occasionale, ma fondata, mi sembra, nell’aver tolto la temporalità dal racconto, dalla messa in sospensione della Storia quale ordine diacronico e ideologicamente fondato dei fatti. Ne consegue il germogliare degli eventi, il loro succedersi atemporale, tenuto insieme dall’idea che sia il caso a guidare ogni cosa, non solamente le vicende umane, ma anche “fattezze, caratteri / e malattie”. Non quindi la responsabilità o l’impegno quali determinazioni causali di un essere senziente ci distinguono dalla natura, bensì la consapevolezza di stare in balia di un tempo-reticolo nel quale ci incanaliamo casualmente, senza averne cognizione preliminare.

Una prospettiva, questa, molto simile a quella di Wislawa Szymborska (cfr. “Ogni caso”, in Vista con granello di sabbia), anche lei figlia di una forte appartenenza nazionale e ideologica (il comunismo stalinista), dal cui vincolo culturale si staccò, appunto, concependo un universo privo di senso e governato dall’assoluta casualità. Mentre tuttavia la poesia dell’autrice polacca, come scrive Pietro Marchesani nella postfazione al Granello, “non dà risposte, perché ogni domanda può solo generare altre domande” spesso di carattere ironico, Darwish tenta la via della comunicazione sapienziale e della narrazione allegorica, partendo, come ci dice nel primo poemetto, “Qui, ora, qui e ora”, dall’evidenza storico-ontologica che “viviamo / ai margini dell’eternità”, abitando le “macerie”. L’invito che egli fa, non più solamente al popolo palestinese, ma all’umanità tutta, è di evitare risposte stereotipate, che vedano per esempio nell’intifada l’unica soluzione all’ingiustizia, per avvicinare invece lo stesso problema da un livello superiore di consapevolezza, ossia partendo dalla condizione ontologica dell’uomo, dalla sua marginalità esistenziale, dalla sua contingenza infondata. Viene in mente la Szymborska, ma anche si sente una vicinanza con Edmond Jabès, ebreo egiziano, che sempre lottò contro la territorializzazione israeliana, riconoscendola radicalmente contraddittoria con la cultura ebraica, che è nomadica, scritta sulla sabbia, in un viaggio che chiede ospitalità in una terra dove Narciso oscuri lo specchio. Darwish segue la stessa traiettoria, negando all’autoreferenzialità di Narciso, al disconoscimento dell’altro, la via della pace. Ce lo dice sia nel primo e sia nel poemetto che dà il titolo al libro: “Se avesse potuto vedere qualcun altro, oltre sé / si sarebbe innamorato della ragazza che lo fissava / […] / se fosse stato un po’ più intelligente / avrebbe frantumato quello specchio / e visto quanti sono gli altri”.

Il tema dell’altro è decisivo ne Il giocatore d’azzardo e piace sapere questa convergenza con un filosofo ebreo, pur tenendo conto che la cultura araba possiede già questa nozione. Penso al Sufismo e, fra i contemporanei, penso ad ‘Ali Ahmad Sa‘id Isbir, conosciuto in Europa col nome di Adonis, quando scrive, in Sul dialogo culturale euro-islamico: “L’io esiste solo attraverso l’altro. L’altro, nella costruzione dell’essere, non è soltanto un elemento per il dialogo e l’interazione, ma è un elemento costitutivo. Attraverso l’altro, l’ioviaggia verso se stesso”.

Lo stesso Occidente nel Novecento ha elaborato una precisa riflessione sull’alterità, basti pensare al decostruzionismo di Jacques Derrida, Gilles Deleuze, Michel Foucault e Jean-Luc Nancy,  all’ermeneutica di Paul Ricoeur e all’ontologia etica di Emmanuel Lévinas. Tutti autori che, con Darwish e Jabes, hanno riconosciuto nella scrittura la loro patria: “Persino nel vento – si legge ne Il giocatore d’azzardo– sono tutt’uno / con alfabeto”. Una patria che fa dell’instabilità identitaria, del confine quale soglia del contatto, la sua ragion d’essere, l’unico qui e ora – storico, non astratto – capace di tenere passato e futuro in una scommessa di sopravvivenza.
Benvenuti quindi a questi sei poemetti i quali, come ci ricorda Ramona Ciucani in postfazione, rappresentano la parte iniziale della  raccolta Non voglio che questa poesia finisca, di cui ci auguriamo presto la traduzione integrale.


Stefano Guglielmin, in "Semicerchio" 1/2016






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