Rosa Salviaè cugina di Beppe Salvia, del quale ho parlato un paio di settimane fa. La tentazione è metterli a confronto, ma non sarebbe corretto e non gioverebbe a questa poetessa, che ha un bel curriculum alla spalle e che in Mi sta a cuore la trasparenza dell’aria (La vita felice, 2012) riceve le giuste lusinghe critiche sia di Gabriela Fantato e sia di Luca Benassi. Entrambi rilevano la meraviglia tonale dello sguardo e l’ascendenza classica del suo versificare. Ascendenza che Daniele Santoro riconosce «da alcuni aulici lemmi (“agape”,“cinereo”); da certe costruzioni superlative (impreziosite da enjambement come in “bianchissimo buio”); da talune citazioni latine (“amica silentia lunae”); dagli espliciti richiami alla mitologia greco-romana (“nottola di Minerva”, “canto di Orfeo”); da certe descrizioni del paesaggio che non si risolvono mai in semplice bozzetto naturalistico, bensì invece in sintonico luogo dell’anima, come in questa strofa, per esempio: “uccelli d’anima che incidono / il pensiero / piegato al vento sacro della bellezza” dove l’isolata parola “pensiero” è incastonata efficacemente tra due quadri naturalistici». Verissimo. Tuttavia è altrettanto evidente in questo libro l’inquietudine moderna, la percezione che l’equilibrio classico sia per sempre perduto e ora si viva in una dimensione di sofferenza, di prigionia (“una voglia di liberarmi dalle catene / che la vita mia ha prestato»; “non reggo più questo mondo che c’incalza / dentro la furia della sua agonia”). L’io lirico canta il desiderio di liberarsi per raggiungere non tanto la perfezione atarassica, con la quale il neoclassicismo ci ha fatto conoscere gli antichi, bensì l’immersione bruciante nell’attimo, nella vertigine dell’evento che non dura, sino a sperimentare la tensione degli opposti, quel “bacio che sboccia tra la neve / e il sole”. La sensibilità è romantica, e quindi lo scarto versale risulta imprevedibile, dovendo assecondare, prima che le regole metriche, il guizzo dell’anima ribelle. Sotto questo profilo, i richiami alla classicità di Rosa sono di natura intellettuale prima che esistenziale, com’era invece in Beppe; lei sa che l’equilibrio è perduto per sempre (Beppe lo sente sulla pelle), e tuttavia cerca di ricomporlo nel nido pascoliano degli affetti (la seconda metà del libro aduna madre, padre, amici e persino il cane, che una nota ci ricorda “morto nella mia casa di Roma il 16 aprile 2009 al’età di diciassette anni”, quasi fosse un umano), nelle maestre di vita e di penna (“Cammino in un ronzio di versi / verso la casa di Simone, Cristina, / Emily ed Antonia”), quasi tutte figure tragiche, dalla vita drammaticamente intensa. E lo cerca, infine, nella fede, che qui non si mostra dottrinale e nemmeno in un orizzonte misticheggiante ma, ancora romanticamente, quale altrove di cui sente la mancanza. Nido primo perduto.
L’originalità di questo libro sta nel combinare la pulsione verso il superamento del finito con la definizione di immagini nitide, spesso sostenute dall’analogia (due esempi: “Vedo la morte per un istante / che chiama a nuova vita / come una campana che suona a distesa / sul frutteto sotterraneo”; e: “Aspetto che la luna rossa / scoppi tra le foglie / come un gong gigante”). Qualche debolezza la si deve all’uso di frasi idiomatiche (“E le stelle stanno a guardare”) o scontate (“chiuse nella loro vanità” e “ti scrivo nelle notti insonni”) e talvolta stucchevoli: “Affondiamo la bellezza nel sangue / dello stupore”.
Un passo ulteriore potrebbe venire dall’assimilare la levità di Beppe Salvia, accentuando la relazione fra i suoni nei versi ed evitando il demone seduttivo del discorso pienamente compiuto, che rende chiaro il concetto, ma appesantisce il dettato, la musica che governa la buona poesia, nella quale il lettore ha margine per muoversi e per far proprie le vibrazioni che il poeta lascia sospese.
La parola è un’argentea coppa:
intatti, precisi gli attimi
si posano –
è un movimento d’acqua cui è stata
data forma,
un diagramma,
un disegno d’aria sottile –
E’ armonia dei contrari,
alchimia della somiglianza –
oltre, il pensiero muore,
e tuttavia resta incorrotto
come un animale pietrificato, o meglio,
come il cristallo
corpo luminoso che brilla,
fermo orizzonte dell’immagine,
all’incrocio del tempo e dell’eterno,
enigma del vero.
…
LA FORMA DELLA SORTE
Corre, corre,
la forma della sorte,
stordisce il rumore del tempo
e mi trascina con sé nella corsa
volto di cera nel centro d’ una giostra
concentrato sul vuoto che senza morte
mi riempie,
benda di neve sugli occhi
lingua di incandescenza e pudore,
oltre le scienze esatte,
nell’attesa di sedere all’ombra d’un albero d’olivo
e restare sospesa
in un bianchissimo buio che raggiunga la pace
con le parole e i gesti di coloro che amo.
…
Spira il vento e non dà frescura –
le piante si mutano in molluschi,
l’arenaria si sbriciola,
un gabbiano morde il fumo coll’ala
e s’inabissa,
una biscia strisciante lecca l’acqua –
all’ombra d’uno scoglio vaneggio,
qui può stancarsi la malinconia
perché mi sono dispersa e il mio grido
s’agghiaccia nella calura estiva,
mi conduce come un fuoco fatuo
in cale senza via d’uscita.
Adagio, verso il mare, una madre
col bambino al petto
sventola il pareo bianco della sposa.
Tra il mio viso e il suo viso quella forma
di bimbo tenera si profila e si cancella.
…
Fuggire in un vuoto del tempo
fra atomi d’essenze
in un vortice alato senza senso
finché il cielo regga al tuo peso
poi si chiuda alla notte e t’abbandoni.
Tornare alla vertigine dell’acqua
scindendo il desiderio in due
come una mela,
grano di muschio invisibile
nei pori della pelle,
vigna, seminato, orto.
Sposare la vita con la morte
col pensiero vicinissimo a ciò
dove il suono si mescola alla luce
al bacio che sboccia fra la neve
e il sole
…
Fra merletti di pietra
il mare
ingovernabile nella sua
mutevolezza
cola come un filo di sangue
e lambisce i miei piedi nudi
che calcano il tuo sonno in
quell’altra vita ora sommersa
…
DUE PICCIONI ARGENTINI
Sotto un angolo del mio balcone
due piccioni hanno fatto il nido
due piccioni argentini
battito di vena viva
fra mura di silenzio.
Quando li sento tubare
scandire il ritmo dell’aria
in un fruscio
una mano di luce
mi trascina sulla scia
di memorie di talamo
nella balugine
del bacio fino al cuore
puro
come il canto di Orfeo
che nelle terre di Tracia
ammansiva le fiere.
…
ISABELLA
Alla poetessa lucana Isabella Morra
Là dall’onda arrabbiata i pescatori tornano a riva
con le loro vele gonfie di vento
i volti arsi dal sole.
Tirano in secca una barca che si chiama
Isabella,
la corda bagnata scorre fra le loro dita e cade
sulla sabbia lambita dalla schiuma
formando misteriosi disegni che fissano lontano
come lo sguardo di Isabella simile
all’aria senza respiro accesa dalle stelle
che il mare mescola alla matassa della sua penombra.
Rosa Salvia, lucana di origine, vive a Roma dove insegna Storia e Filosofia in un liceo. Ha pubblicato due romanzi brevi: La parabola di Elsa e Fermagli, e il lungo racconto Nihada, nonchè le raccolte di poesia Intemittenze, Aletti, 2003; Luce e Polvere, Aletti, 2005; Le parole del mare, a LietoColle, 2007. Ha ricevuto riconoscimenti in numerosi concorsi letterari e fra le poesie qui presentate A tutte le donne del mondo e Il mio corpo senza utero sono state premiate nella sezione inediti rispettivamente al Premio Internazionale Nuove Lettere, 2008 e al Premio letterario Le donne raccontano, legato alla Fondazione medica del prof. Umberto Veronesi, 2009.