Nel segnalare la scelta oculata degli autori da parte della Marco Saya Edizioni, mi soffermo su Certe cose, certe volte di Andrea Donaera, giovanissimo pugliese, già al sesto libro di poesia. Il registro basso, d'impianto narrativo, mette al centro un inetto goffo e grasso, che ha letto Montale, ma parla come un analfabeta e che ha la netta percezione di stare svanendo. L'effetto è tragicomico; il grado di realtà, denso. Personaggi così li abbiamo già incontrati, soprattutto nella narrativa, da Luigi Malerba ad Aldo Nove, ma è un bene che entrino anche nell'alveo della poesia (lo aveva fatto benissimo Matteo Fantuzzi in Kobarid): la riportano per terra e soprattutto rimettono in questione quell'alto tasso di egocentrismo che sporca la creatività contemporanea. Danaera è un giovane colto, per questo usa l'arma dell'ironia. Non è un tragico che racconta la propria inattualità sofferta né un naif che improvvisa una lingua fuori dall'accademia: l'anacoluto, lui, lo sceglie quale sintomo di una civiltà – anche nella sua parte istruita – che non sa comunicare; lo prende in prestito per darle la parola e così mostrarla nella sua nuda inconsistenza. E tuttavia, si dimostra pietoso verso gli uomini persi. Ce li fa amare attraverso questo personaggio dominato dalla tenerezza, che aderisce ai cliché mass-mediatici (la finale dei Mondiali, le scommesse al "Fantacalcio", Dylan Dog), ma soprattutto che cerca affetto in una donna che non lo vede ("Dunque mentre facevi ritorno non vedesti / la macchia nera sul muro bianco che ero io") e non potrà mai raggiungere, tanto da suggerirle: "Dai / fa un bambino", fatti mettere incinta dal tuo uomo, "e chiamalo come me".
Certe cose, certe volteè una dichiarazione d'amore fatta a cuore aperto, dopo aver svuotate le viscere dal sentimentalismo e messo in pari idiozia e purezza; ed è un punto d'arrivo anche sotto il profilo stilistico: lo si capisce dalla dichiarazione di poetica de "il giorno del compleanno, per esempio", dal sublime che ancora contiene. Tutte le altre poesie sembrano passate con la verichina per toglierlo, per stare quanto più possibile vicino alla vita psichica del personaggio. Poesia, qui, significa mimesi emotiva e, nel contempo, sottile distacco ironico. La funzione poetica la dà il secondo termine, difficilissimo da governare, da tenere attivo proprio per la sua effimera consistenza.
Io l’altro giorno stavo affacciato al balcone
e la ringhiera del balcone traballava,
mi faceva paura quel traballare,
e niente, e allora ho guardato di sotto,
c’era la strada, un gatto
investito, e niente, sono rientrato.
e la ringhiera del balcone traballava,
mi faceva paura quel traballare,
e niente, e allora ho guardato di sotto,
c’era la strada, un gatto
investito, e niente, sono rientrato.
*
Il giorno del compleanno, per esempio
L’idea per una poesia
che parli di quei baci che si danno sulle guance –
il giorno del compleanno, per esempio –
ma non dire nulla
delle labbra che si appoggiano sulla barba,
non dire nulla
del piegarsi verso un volto e lasciarsi raggiungere,
dire invece molto – molti versi –
sul passaggio
da una guancia all’altra
rapido, rapidissimo,
e della folata di respiro
che mi hai seminato sulla bocca
nel passaggio
da una guancia all’altra
rapido, rapidissimo,
la sera del 20 giugno.
*
Poi hai iniziato a lavorare e il lavoro,
si sa, disabilita l’uomo, rende
distanti due come noi che mai sono
stati uno, mai tipo Montale e Mosca,
ma che ci vuoi fare, che ci vuoi fare,
adesso che sei un’impiegata a tempo
determinato, che non leggi più
i miei versi ma soltanto scartoffie
da firmare, contratti da redigere,
e porti i soldi a casa e porti lui
a cena, lui che affitta case, lui
che magari ti mette incinta e poi
la smetti di fare questo lavoro
che mi rovina, mi rovina i versi,
questo tuo lavoro è la mia rovina,
mi fa sembrare un narratore che
narra cose senza pubblico. Dai,
fai un bambino e chiamalo come me.
*
Io da te voglio che stiamo su una panchina
Io da te voglio che stiamo su una panchina,
ridere di certe cose che dici,
certe cose che dico,
non lo so, cos’è?, una pretesa?, dimmi,
senza alzarti, resta ferma seduta,
dimmi, che così mi ricordi il mare
d’Olanda, agitato, freddo, stai ferma,
io da te voglio che stiamo così,
che mi guardi e prendi bene la mira,
le cose che mi dici non voglio che mi manchino.
*
Poi è venuta mia nipote, mi ha chiesto:
«Ma è vero che quando uno muore vola?»,
«Non lo so, tu che dici?»,
«Ma io non sono mica morta, ancora,
che ne so? Tu lo sai? Tu sei mai morto?»
*
Il Bar della rabbia
E brindo a chi è come me
al Bar della rabbia.
[Alessandro Mannarino, “Il Bar della rabbia”]
Al bar, dietro di me, c’erano due,
che questi due si baciavano forte –
facevano quei rumori che fanno
i baci, quei rumori –
e niente, mi sono voltato, ho detto:
«Abbiate pazienza, eh,
ma è meglio se coi baci la smettete un pochetto,
che insomma, per favore, dai», ho detto a quei due al bar,
e loro niente, loro continuavano, loro,
che si amavano, è chiaro, pure molto
si amavano, quei due, secondo me,
ma io non li potevo mica capire,
che io di certe cose non ne capisco,
no: io i baci, l’amore, non ne capisco.
Andrea Donaeraè nato il 20 giugno 1989 a Maglie (Lecce), da padre sardo e madre salentina. Vive a Gallipoli, dove studia Filosofìa presso l'Università del Salente, e si occupa di teatro, musica e poesia. Ha pubblicato: De atra Lacruma (Premio Barocco Editore, 2009); Sfoglia me — con Antonio Brunetti (Autoprodotto, 2009); Ombre e Quesiti (ApprodoSalento Edizioni, 2010); Additato (Edizioni II Papavero, 2011); II latte versato (Sigismundus Editore, 2012). Diversi suoi testi sono stati pubblicati e segnalati su riviste web e cartacee nazionali, ed è presente in numerose antologie.