Dai primi di ottobre del 2012, Marco Scarpa manda una mail a un centinaio di lettori, dentro la quale, sotto un breve cappello introduttivo, si possono leggere alcune poesie. Ciascuna mail contiene un autore, come tanti piccoli messaggi in bottiglia. Ha chiamato questo progetto Poesia condivisa. A dire il vero, il primo autore, anzi autrice, non aveva introduzione: il progetto era in fieri. Gli ho chiesto di scriverla, così che i primi dieci autori del suo canone personale che qui pubblico siano tutti accompagnati dalla sua parola affettuosa.
Il poeta di questo primo appuntamento è Anna Maria Carpi. Profondamente ancorata al vivere quotidiano, alle sue vicende più pratiche ed al contempo più interiori, passa da comuni situazioni come la spesa al supermercato, una mostra, una visita ad un bookstore, passeggiate per le vie cittadine fino al vissuto ed i pensieri che nascono tra le mura domestiche. Le cadute e gli appigli sono spessi aghi nella bilancia. Le voglie di morire che poi rinsaviscono. Anna Maria Carpi riesce a rimanere chiara, trasparente, facilmente comprensibile ma al contempo trattiene la profondità, unisce punti sparsi della vita e apre scenari in cui le domande più ardue dell’esistenza trovano riparo nei gesti quotidiani, nel vivere giornaliero. E poi l’amore, spesso epicentro, ed il rapporto con la verità e con Dio e con noi tutti, la gente, i “compagni corpi”, come lei li definisce. Tutto questo in una poesia onesta, diretta, che si concede con spirito di condivisione al lettore.
SE TU MI AMASSI come io amo loro,
i piccoli di casa che non sanno,
se mi chiamassi come io li chiamo
coi più teneri nomi ed insensati
dal nonsenso del cuore,
e come io faccio con loro
mi raccogliessi tutta fra le braccia –
perché tutto verrà, niente è perduto.
Tu invece quando parli m’inviti alla ragione
e se dico futuro mi sconsigli
di sperare in qualcosa.
Tu non capisci:
non mi devi parlare come a un comune umano,
amore è dire all’altro non hai fine.
O io sono immortale oppure niente.
da L’asso nella neve(Transeuropa, 2011)
Il poeta di questo secondo appuntamento è Umberto Fiori. Attento al quotidiano e alle sue dinamiche, alle abitudini degli uomini, alla (spesso mancata) condivisione, alle città, alle strutture e ai suoi mutamenti, alle difficoltà e semplificazioni dei rapporti umani, alle banalizzazioni e ai minimi gesti. Ed altro ancora tra i versi. Ecco tre sue poesie scelte da tre raccolte differenti.
Visioni
Vetrine, macchine:
è tutto così liscio, così lucido.
La gente in giro,
appena può, si specchia.
Ma fuori, ai capolinea
dove finisce il comune
e più avanti, nei campi, in mezzo al verde,
solo le cose si vedono.
Nel fango oppure lassù, nel cavo
dell’alta tensione, uno
riflessi non ne ha più. Manca, si perde.
Allora viene la paura
di apparirsi di colpo. Come ai bambini,
nelle cantine, il diavolo.
Da Chiarimenti (Marcos Y Marcos, 1995)
Il poeta di questo terzo appuntamento è Edoardo Sanguineti. Poeta non allineato, parte attiva nel panorama delle avanguardie letterarie del secondo novecento, scrittore inesausto, insegnante e politico. La ricerca, la sperimentazione, l’ironia, la concretezza di piccoli gesti o micro situazioni, i giochi letterari, le citazioni colte, questi alcuni dei tratti distintivi delle sue poesie. Un uomo che non si è mai posto il limite del poetico o impoetico e ha sempre rigettato nei versi la sua vita senza preoccuparsi dei canoni, delle regole della lingua, sempre tenendo uno sguardo “diverso”, ricco di guizzi e asperità, tentativi e tracce. Ho scelto due brevi testi che mi sembrano comprensibili, diretti, iniziatici per un curioso della sua scrittura, pertanto sicuramente non esaustivi della sua poetica.
vengo, con la presente, a te, per chiederti formalmente di esentarmi d’urgenza
dal comunicare, con te, per telefono: (io non posso battere zuccate disperate,
contro il primo muro che mi trovo a disposizione, ogni volta, capirai,
appena mollo giù il ricevitore):
(perché, mia diletta, io non saprò mai
separare, stralciandole, le tue parole, a parte, dai tuoi gomiti, dai tuoi alluci,
dalle tue natiche, da tutta te): (da tutto me):
sola, la tua voce mi nuoce:
dalla raccolta Scartabello (1980)
Il poeta di questo quarto appuntamento è Giorgio Caproni. Poeta essenziale del secondo novecento. Ho scelto tre testi di tre raccolte diversi in cui si possono riscontrare alcune caratteristiche della sua poesia: linguaggio chiaro, limpido, quotidiano ma mai banale che fluisce tra i versi con gran ritmo e estrema musicalità. E poi il tema del viaggio, spesso presente e la descrizione della città e delle sue micro situazioni. Descrizioni che svelano l’ambiguità e le difficoltà dell’esistenza, divisa tra forze e interessi che divergono ed estremi opposti entrambi presenti nella varietà dell’esperienza umana.
Ottone
A Giuseppe Cauda
Ottone è il nome
Dopo Gorreto, a nord
della Liguria, il primo
grosso borgo emiliano.
Paese di bestiame,
un tempo, e di mercato
grande. Oggi
- dell’antica opulenza –
resta vasto il piazzale
coi suoi tre alberghi, un verde
d’ippocastani, e a picco
sulla Trebbia il mulino
che ancora con la sua ruota
macina acqua.
È là,
in quella conca dove
(raro) il fagiano appare
nel bosco, che ora
vorrei finir la partita.
Là dove la vita stagna
(o sembra) senza
spinta di tempo. Il tempo
senza spinta di vita.
Da Il Mulo della terra (1964-1975)
Il poeta di questo quinto appuntamento è Giovanni Raboni, fondamentale figura nel panorama poetico del secondo novecento sia in veste di poeta sia come curatore di importanti collane di poesia e traduzioni. La sua poesia pesca dal parlato e dalla prosa, ha un andamento narrativo e ad essere messe in scena sono sia situazioni e figure tra le più normali del quotidiano sia quei ripensamenti mentali attorno alle più varie questioni. Durante il suo percorso ha adottato sia forme più libere sia metrica più tradizionale ma sempre usando parole limpide, chiare che sono testimonianza sia di ricordi e opinioni personali sia delle pulsioni e delle percezioni corporali. I temi toccati dai versi di Raboni sono assai vari: si passa da poesie sulle città e sui luoghi (Milano soprattutto), a riflessioni attorno all’esistenza e alla morte, ai versi guerrieri e amorosi (come lui li definisce in un raccolta) sino a versi che scoperchiano il degrado sociale e politico degli ultimi dolorosi anni.
Essere … essere, sì, intimi, nel cuore
nel midollo, con chi è noi, con chi
d’altro noi siamo – forse è tutto qui
il segreto, è così che si fa onore
alla vita se è solo per ardore
che le duecentosei ossa non si
dissaldano innanzi tempo, se è di
estraneità alla vita che si muore
con minima pena, come lasciamo
una casa senza fuoco. E forse, ossa
dimenticate, una provvida mente
ci penserà, due amanti! E nuovamente
vivi, traslocheremo dalla fossa
all’apparirci, all’esserci che siamo.
da Ogni terzo pensiero, Mondadori, 1980
Il poeta di questo sesto appuntamento è Ivano Ferrari. Ci ho pensato un pochino prima di darvi in pasto alcune sue poesie ma sono arrivato alla conclusione che sia necessario. Necessario per capire fin dove un poeta può restituire con i suoi versi squarci, densità e veemenza del quotidiano. Ivano Ferrari è un poeta “estremo”. La sua lingua taglia, fa male, scoperchia, mette a nudo situazioni e primitivi sentimenti. Sono poesie senza mezzi termini le sue, dure da digerire, pugni nello stomaco. Mi riferisco soprattutto alle poesie di “Macello”, edito per Einaudi, da cui ne ho estrapolate tre. Ivano Ferrari lavorava nel macello cittadino e ne narra le vicissitudini, le asprezze, i dettagli più crudi, le conseguenze sugli uomini. Magari qualcuno potrà obiettare sulla bontà di queste poesie tant’è che se ne sente parlare pochissimo anche tra gli appassionati ma secondo me Ivano Ferrari è stato finora uno dei pochi a togliere l’eccessiva letterarietà e ad accorciare la distanza facendo sentire pulsare la vita tra i versi con la stessa intensità di un cuore che batte. Lui ci ha messo testa e corpo e a noi questo binomio arriva intero. Non ho scelto apposta alcuni dei testi più “forti” perché vuole essere un invito ad approfondirlo e a qualcuno potrebbe anche dar fastidio quanto scrive.
Per i problemi dell’anima
la sala stoccaggio:
coi quarti e le mezzene senza sangue
i cartellini del sesso
l’etichetta di destinazione
la delazione cosciente della bilancia.
Ci si confessa pestando reni di scarto
schegge d’ossa e strati di grasso.
Più liberi, dopo, divoriamo
fettine di carne cruda (dei quarti più belli)
appena un po’ di sale
e tanta devozione.
da Macello, Einaudi (2004)
Il poeta di questo settimo appuntamento è Mariangela Gualtieri. Autrice e attrice di teatro il cui percorso avanza parallelo con la poesia e innalza vette figlie di questi ambiti che si intrecciano. Il ritmo del teatro confluisce nei versi e pure quel mettersi a nudo, corpo a corpo con il pubblico, si
ritrova nella scrittura. Mariangela Gualtieri sembra che chieda non solo alla vita ma pure alla lingua, alla parola (testa) ed alla voce (corpo) risposte, lampi, squarci. Sonda, esplora, si lascia trasportare da alcune intuizioni/visioni e si fa largo tra la ragione e l’incanto, cercando un riscontro, sintonie che ci sfuggono, provando a scardinare i dettagli che ci confondono. Io ci ritrovo un forte senso di unione degli opposti, una voglia inesausta di avvicinare gli estremi, facendo confluire tutto sotto un unico tetto, la ragione e l’istinto, la vita e l’oltre vita, il naturale ed il sovrannaturale. Denudare dunque la complessità, sporcare le teorie, affidandosi a quel senso inconscio che schiarisce le questioni non per forza spiegandole.
Noi tutti non siamo solo
terrestri. Lo si vede da come
fa il nido la ghiandaia
da come il ragno tesse il suo teorema
da come tu sei triste
e non sai perché. Noi
nati, noi forse ritornati,
portiamo una mancanza
e ogni voce ha dentro una voce
sepolta, un lamentoso calco di suono
che un po’ si duole anche quando
canta. Te lo dico io
che ascolto
il tonfo della pigna e della ghianda
la lezione del vento
e il lamento della tua pena
col suo respiro ammucchiato sul cuscino
un canto incatenato che non esce.
Ascoltare anche ciò che manca.
L’intesa fra tutto ciò che tace.
da Bestia di gioia (Einaudi, 2010)
Il poeta di questo ottavo appuntamento è Silvia Bre. Per introdurre brevemente i suoi versi potrei dire che il suo canto, le sue parole tendono a cogliere tra i dettagli, tra i minimi accadimenti le risposte o, meglio, le linee strutturali su cui poggia la dimensione umana. Sono sia piccoli segni e piccoli gesti a essere presi in considerazione sia visioni alte, di cieli, di stelle, di mondi aperti, rilevando l’insieme di reale e di immaginazione che compenetra ogni attimo. L’attenzione è puntata alle somiglianze, alle attese, alle abitudini che sono riferimenti chiari e nel contempo mostrano come la vita a volte accada e lasci una distanza tra il nostro destino e il nostro volere/potere. La sua poesia ha le forme di un’occasione, un tentativo teso tra liberazione e volontà di comunicazione, uno sforzo di parole per eliminare limiti di tempo e di spazio e mettere in vetrina una sorta di armonia che la vita nasconde e in cui l’autrice vuole ritrovarsi in questa casa-corpo letteraria.
Angelo vuoto della somiglianza
spingi le nostre mani nella terra
come qualcosa pieno di qualcosa:
e noi su questa labile regione,
nell’ombra di remota parentela
che le tue piume gettano qui intorno,
dedicheremo all’immaginazione
le rose aperte al chiuso dei pensieri.
Noi siamo i soli a poter gioire
del segno che ci lascia una mancanza –
la somiglianza è tutto il nostro regno.
da Le barricate misteriose (Einaudi, 2000)
Il poeta di questo nono appuntamento è Milo De Angelis. Considerato uno dei maggiori poeti contemporanei, questo poeta si è distinto sin dal suo libro d’esordio, Somiglianze (1976) per poi proseguire un percorso di sempre maggior respiro e volontà di comunicazione. Il punto di partenza si aggira attorno all’obiettivo di restituire l’esperienza dura della vita, con i suoi dolori, macerie, difficoltà, attraverso una lingua diretta, partecipata, stretta al quotidiano ed ai suoi personaggi e luoghi che spesso si chiede del senso degli avvenimenti, delle azioni, dei pensieri riducendone e sintetizzandone la portata. La scrittura, negli anni, è poi mutata, pure con ripiegamenti su prose brevi, arrivando, per il sottoscritto, all’apice con il libro Tema dell’addio (2005) che ruota attorno alla prematura scomparsa della moglie Giovanna Sicari. Con questo libro Milo De Angelis apre cuore, scrittura, ricordi e concede ai versi di essere liberazione e tentativo di ultimo approdo e distacco definitivo. La domanda vaga, priva di rassegnazione, sul perché di quest’avvenimento e le parole diventano minime distanze che concedono al lettore di immergersi in una vicenda tanto personale quanto aperta alla condivisione.
V
Ed è Milano: silenzio che chiama le cose,
nostro diritto naturale, la stessa sensazione
degli occhi che cercano un’orbita
finché un passaggio obbligato tra le macerie
ci porta il battito
oltre l’Idroscalo, all’ombra dei reattori
ci divide in memoria e mandragola
ci sprofonda nel sangue senza musica.
tratta da Biografia Sommaria (Mondadori, 1999)
Il poeta di questo decimo appuntamento è Franco Arminio. Il focus delle sue scritture sia in prosa (di cui segnalo l’ottimo Terracarne) che in poesia è la paesologia, come lui la definisce, una sorta di riversamento su carta delle sue molteplici osservazioni dei paesi che continua a visitare e dei quali restituisce sprazzi minimi, puntuali, concreti che racchiudono storia, tradizioni, paesaggio e critica sociale. L’epicentro è la Lucania e parte del sud Italia. Partendo dal piccolo, dai luoghi in cui il progresso è ancora un passo indietro e dalle persone che ancora hanno dentro un passato perso altrove, traccia una geografia umana, rurale e autentica, semplice nelle modalità di scrittura ed essenziale nelle scelte di cosa ritrarre. Resta una sorte di pastore errante d’altri tempi che guarda al disfacersi e ne prende nota, non senza indignarsi. Il tarlo che però accompagna Arminio dovunque è l’idea della fine, della morte e frequenti sono in lui gli attacchi di panico che lo costringono ad un’aspra lotta con l’incedere dei suoi passi. Conseguenza di ciò è il libro “Cartoline dai morti”, sorta di Spoon River, raccolta di mini cartoline inviate da chi se n’è andato, ora ironiche, ora lancinanti, ora amare. Qui di seguito alcune poesie paesologiche ed alcune di queste cartoline.
Questo mio paese ha nelle vene
sangue di mulo
ma nessuno sa mettergli ai piedi
il ferro che serve a camminare
e allora si sta fermi
dentro un dolore cattivo
dentro una gioia piccola e sottile
come gli asparagi di bosco
da Stato in luogo (Transeuropa, 2012)
Marco Scarpaè nato a Treviso nel 1982. Conseguita la laurea in Ingegneria Biomedica, comincia ad occuparsi di chirurgia vertebrale come Product Specialist.
Per quanto concerne la poesia ha collaborato con il teatro Comunale di Vicenza, inserendo sue poesie collegate alla musica, nell’ambito della stagione di musica sinfonica 2011/2012.
Per quanto concerne la poesia ha collaborato con il teatro Comunale di Vicenza, inserendo sue poesie collegate alla musica, nell’ambito della stagione di musica sinfonica 2011/2012.
Mac(‘)ero (Raffaelli Editore, Rimini, 2012) è la sua prima raccolta poetica.
Tra i riconoscimenti, si segnala la menzione al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “Bailamme” nel 2010 e la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “MacEro” nel 2011.
Si dedica inoltre all’organizzazione di incontri di poesia in luoghi spesso inusuali, gravitando tra Treviso e la sua provincia.
Tra i riconoscimenti, si segnala la menzione al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “Bailamme” nel 2010 e la menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano per la raccolta “MacEro” nel 2011.
Si dedica inoltre all’organizzazione di incontri di poesia in luoghi spesso inusuali, gravitando tra Treviso e la sua provincia.