Articolo, di Gianpaolo Resentera, uscito in un quotidiano locale nel 2002. Lo riporto perché è l'unico a riprendere la mia biografia delle origini, sconosciuta ai più.
GUGLIELMIN. NON SI È MAI DOVE SI È
[...] Forse la poesia non ha oggi che uno scopo negativo, in un mondo in cui le parole son troppe: di infondere malessere, di suscitare disorientamento nel casuale e distratto lettore, instillandogli il dubbio che le cose non stiano così come le gazzette bugiardamente assicurano ogni giorno con perseverante malizia. Ma farlo non in una prospettiva ideologica, o, peggio, politica, come pare facessero Nanni Balestrini o Elio Pagliarani, quasi si trattasse di una lotta contro il sistema. No, niente sistemi da abbattere, solo servire modestamente la verità dell’uomo e dire le cose sgradite che ormai nessuno dice più. Per esempio: «S’invecchia, si muore, sai? Intendimi: non gli altri soltanto, ma noi, ma tu…»; oppure: «Le passioni, eh, caro, svaniscono, e spaesata parola è l’amore, oggetto feriale e disadorno in un paesaggio oggi più che mai dominato dall’estetismo di Krizia e compagni…».
Forse allora le cose stanno anche peggio. Non è la scarsa leggibilità dei poeti d’oggi a togliere lettori alla poesia. Infatti non è che la riforma liturgica abbia fatto ritornare le folle alle chiese. È che sono parole sommamente sgradite quelle sillabate dal poeta, il quale è solo un prestavoce: c’è chi dice all’inconscio, c’è chi dice all’Assoluto…
Quale sia la verità, questi pensieri, davvero poco allegri, mi ha prodotto l’incontro con Stefano Guglielmin, pur più giovane di me. Mi è parso infatti di capire assai bene la posizione senza sbocchi del suo essere poeta. E tuttavia egli mi è parso ben determinato a perseverare nella quotidiana operazione della testimonianza.
2.
Nato nel 1961, originario di Magrè, da ragazzo o poco più Stefano Guglielmin praticava il mezzofondo con l’Emar di Mirko Gresele e voleva inserirsi nel mondo dello sport: un diploma qualunque e poi frequentare l’“Istituto Superiore di Educazione Fisica”. Ai geometri però, quando già la sua adolescenza spingeva all’involuto e alle letture che t’illudono spiegare gli enigmi con lo svelamento dell’inconscio, trovò un’insegnante che lo indirizzò a letture anche più costruttive. Fu così che per merito di Lilia Pino, finite le superiori, Guglielmin seguì i corsi filosofici del “Liviano”, fino a laurearsi con una tesi sul pensiero debole in Nietzsche ed Heidegger.
Ormai però da tempo le scuole s’erano assiepate d’insegnanti. E dopo la laurea egli non ebbe il coraggio d’insistere. Invece di attendere il suo turno pur d’insegnare filosofia, si adattò ad entrare nelle graduatorie di lettere. Ne derivarono i passati 9 difficili anni, mandato a insegnare lontano da casa, in sedi diverse ma sempre disagiate e di poca soddisfazione: ogni ottobre assunto, ogni settembre licenziato.
Abbandonato lo sport, per socializzare gli restava la musica, studiata per merito del nonno, Piereto Guglielmin, il quale si era fatto un nome suonando il violino nelle orchestrine e il violoncello nei matrimoni. Il nipote invece suona il pianoforte, ma da 6 anni fa anche parte del “Danny Rose”, un gruppo rock nel quale suona il basso elettrico.
Prima ancora però ci fu la poesia, un modo forse più nobile ed elitario per sciogliere o sublimare i propri nodi esistenziali. Debitore com’era delle sue letture freudiane e degli studi sul rapporto linguaggio-essere, non poteva che scrivere in modo illeggibile, anche perché c’erano già dei modelli, ammiccanti dalla loro marginalità, a professare l’affascinante (per un giovane solitario) avanguardismo della poesia come lotta al linguaggio istituzionalizzato, profeti disarmati ma ben determinati a combattere il sistema con la pratica di un trobar clus tra i più serrati. Forse qualcuno ricorderà i Novissimi e il “Gruppo 63”.
Marginale alla cultura “dominante” in città, Guglielmin vide in quel tipo di militanza la sua strada, sicché anche quando entrò a far parte degli “Amici della Poesia”, circolo animato da Danilo Faccin, non poté che restarci pochi anni, collaborando però, oltre che ad alcune antologie (Certo la pioggia, 1986), a qualche attività pubblica. Sua è l’organizzazione di una mostra delle riviste italiane di poesia, di cui nell’87 riuscì a portare a palazzo Toaldi Capra un centinaio di esemplari. Mostra andata deserta, com’è immaginabile…
Guglielmin, il quale nell’85 aveva pubblicato la sua prima raccolta (Fascinose estroversioni), accettò l’isolamento, cercando fuori di Schio qualche contatto, qualche colleganza, anche partecipando ai premi letterari, selezionati tra quelli dalle giurie di valore. Nel ’90, dopo aver pubblicato Logoshima (1988), colse il successo più significativo, vincendo con una silloge di 10 liriche il premio “Poesia” di Cologno Monzese che aveva in giuria, insieme con i più giovani Milo De Angelis e Roberto Pazzi, Giancarlo Majorino e Maria Luisa Spaziani. Subito dopo una sua poesia sonora, costruita insieme con Giacomo Bergamini di Arzignano, fu accolta nel n. 21 di Baobab, rivista diretta da Adriano Spatola.
Oggi Guglielmin ha momentaneamente detto basta alla poesia. C’è nel cassetto una raccolta (Le parole che al vento) con gl’inediti di un quadriennio (89-93) che Jolanda Insana gli ha promesso di pubblicare. L’autore me ne ha parlato come dell’opera più matura, più importante. Divisa in 3 sezioni (Dell’angelico, Dell’erotico, Del dolore) è una storia d’amore esposta da 3 voci, narranti in 3 stili diversi. Abbandonata ormai la ricerca linguistica dell’avanguardia, Guglielmin è convinto di aver superato la frattura tra lingua materna e italiano attraversando in modo sperimentale i linguaggi della nostra letteratura. Così, senza riecheggiamenti ma per via allusiva, ha trovato la propria voce.
Nell’attesa della pubblicazione, da 3 anni Guglielmin si è intanto indirizzato alla prosa ed ha già scritto 2 romanzi. Il primo, completato nel 93 in 110 pagine, s’intitola Buon Natale, bambini!; il secondo - Il giardino di Shaiho-Jo [finalista al premio Calvino del 1996, n.d.r.] - è appena finito ed è lungo una trentina di pagine in più. Di entrambi ignoriamo la trama e la scrittura; sappiamo solo che ora l’autore sta dandosi da fare con le case editrici per “collocarli”.
Lasciandolo, gli abbiamo augurato buona fortuna: per i figli, c’è, alla peggio, l’orfanatrofio: ma per gl’inediti?
3.
L’idea che sta alla radice degli studi raccolti da Stefano Guglielmin sotto il titolo di Scritti nomadiè chiara ma niente affatto allegra: è la solitudine la caratteristica intima dell’uomo. La differenza tra il passato e la modernità (o la postmodernità, cioè l’oggi) è che nel passato Dio non era ancora morto nel cuore e nella mente dell’uomo, per cui l’uomo trasferiva il proprio senso, la ragione della propria esistenza in Dio e a lui faceva sempre riferimento, col rischio che il fideismo annullasse razionalità e responsabilità. Posizione decisamente difficile da sostenere, se non con un forte equilibrio tra cuore e ragione, tra fede e ragione (Agostino, Pascal). Cresciuta patologicamente la ragione (Umanesimo? Illuminismo?), le lamentele del cuore sono state tacitate, in quanto l’uomo tentava di farsi dio a sé stesso. Da qui invece le tragedie dei vari totalitarismi otto-novecenteschi. In fondo, il dramma dell’uomo moderno è che, avendo dissociato la libertà dalla verità, si è trovato in mano un attrezzo inservibile e nel cuore il totale spaesamento: perché mortale era prima e mortale è rimasto anche dopo. Insomma, come aver gambe e non aver terra sotto i piedi.
Il merito del libro però non deriva solo dall’utilità che se ne può ricavare per una interpretazione sistematica, quantunque univoca, di vari autori del Novecento sia italiani (Campana, Fenoglio, Calvino, Volponi, Sanguineti, Giuliani, Porta, Balestrini, Zanzotto ecc.) sia stranieri (Camus, Beckett, Ionesco, Borges, Trakl ecc.). Questo vale per chi s’interessi di letteratura in senso professionale. No, c’è un altro merito, che per me vale di più ed è che il libro è legato da un resistente filo d’oro, fatto ad un tempo di coerenza e di nobiltà. Voglio dire che nella ricerca di Guglielmin - personaggio socialmente defilato - c’è stretto rapporto tra esistenza e coscienza: egli vive coerentemente la propria condizione, non importa se ad essa è arrivato passo passo, oppure per folgorazione agnitiva (quasi una Damasco all’incontrario, così ben descritta da Montale in Forse un mattino andando).
Dalla drammatica e immedicabile scoperta di essere «un altro» perfino a sé stesso, ecco le quotidiane lacerazioni, vissute sotto il profilo esistenziale (solitudine, spaesamento) e sotto il profilo creativo (il “più in là” della parola) e analitico, sezionando l’arduo simbolismo della letteratura dell’oltranza. L’altra cosa che apprezzo di Guglielmin è che non per questo sente ingiustificata l’opportunità del dialogo e dell’attenzione, perfino della compassione. Lui lo dice in modo meno semplice, ma il concetto è chiaro: essere «un altro» col desiderio di essere «in altro», avendo cioè in sé stessi una propensione ai compagni di strada e di pena.
Va da sé che, eliminato il postulato/pregiudizio dell’esistenza di Dio, niente più si potrà mai assolutizzare, se non - paradossalmente - la relatività. Pensiero debole? Altroché, visto che non c’è più centro, né noi siamo centro a noi stessi; ma anzi siamo periferici e spaesati, per cui niente di ciò che avviene davanti ai nostri occhi c’interessa davvero. Stranieri, dunque. Eppure…
Eppure c’è nell’intimo di tale disposizione “disperata” al vivere una incongruenza grande e misericordiosa: lo dimostra lo stesso Guglielmin quando cerca sinonimi alla «erranza» del sottotitolo e di sé: dice di volta in volta «straniero» «spaesato», «viandante», «nomade», «pellegrino». Sì, dice anche «pellegrino», a significare che il perenne nostro camminare in ricerca di un senso che non abbiamo, ha - forse - una meta, o la speranza di una meta: una umile, pascolianamente patetica o leopardianamente eroica («e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni») aspirazione all’arrivo, all’accoglienza e, infine, al riposo.