cerco la nota distorsiva - quella - capace di cancellare il nesso
l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo
[non spero]
scrive Doris Emilia Bragagnini in una delle prime poesie che aprono questo suo libro, a testimonianza di un fare poesia che è soprattutto scrivere della poesia e, per il suo tramite, indagare gli interstizi sottoluce dell’esistenza, scandagliarne un senso, o sperarvi. Claustrofoniaè un’opera che si potrebbe definire metalinguistica in divenire se è l’essenza stessa del poetabile ad essere messa in continua discussione, ora come necessità di fare riaffiorare una sua natura ctonia, un che di imperscrutato che cerca voce
Splendeva una stele sotterranea e
fu talpa farsi sorda di clausura
tremando poi – tellurica– nel raggio d’oltremondo
ora come la riappropriazione di un linguaggio altro, tale da consentire l’escissione di tutto ciò che vi è di falso, il canone stesso di una poesia che deve prima sapersi negare per ritornare a un balbettio, una lallazione che sia all’origine del suo ruolo fondativo
ne ho abbastanza di metafore seriali
- catenazione - degli oggetti presi in prestito
il vuoto manca almeno quanto il pieno
Siamo allo stadio zero del dire, quel nulla impresidiato e incubatore di ogni voce possibile, quello dove può esservi concepimento, poesia. Ma quest’ultimo non è un territorio definito, quello di una visione chiara e strutturata che lo sa dire, ma piuttosto uno sfarfallio, intermittenza della parola che cerca di svelare occultandosi, sottoluce dunque, emendandosi dall’inflazione del linguaggio, e così può intraprendere la guerra per la riappropriazione del senso, quasi in un polemos eracliteo dove è necessaria la sintesi fra divergenti prospettive, affermare ed omettere insieme, armati nel rapportarsi con il mondo. Non si può non pensare alle Variazioni Belliche della Rosselli, e sicuramente il fare poesia della Bragagnini, tutto fondato sul conflitto, sulla strozzatura della voce (claustrofonia per l’appunto) che si esplica con una versificazione ordinatamente sovversiva, quasi senza punteggiatura, per accumulazione successiva e dissezione semantica, deviazioni improvvise e deragliamenti logici, crea delle possibili analogie fra le due scritture.
il silenzio chiama tutte le connotazioni belliche
le convoglia in feroci passerotti duri di becco
il miglio perso sulla strada e nel piumaggio goffe vettovaglie
Il linguaggio cessa di essere “la casa dell’Essere” come vorrebbe Heidegger, la poesia è il guardiano di una casa dove ”il muro tace, non risponde più / si lascia guardare angolandosi”, “le parole mancanti quelle – vere - / si fingono morte di uso e consumo”, “resta uno spazio sempre / fra l’essere di ora e la parola”, ed è in questo interstizio, in questo “mondo stretto”, che la poesia può farsi strada, incunearsi nel varco, nel “dispetto conquistato d’alfabeto”. Si tratta di estirpare le inutili stratificazioni corrosive del linguaggio, iniziare il viaggio dalle macerie della Genicht– la nullesia di Celan –, per restituire la poesia a un suo spazio per quanto precario ed equivoco. È affascinanteil percorso che la Bragagnini ci propone: la poesia si mette sul banco degli imputati, certa di una colpa che le è già stata imputata, con l’insufficienza delle prove che sa offrire, l’incapacità di ritrovare pur anelandone la strada “un luogo dell’ascolto indisturbato”, la sua impossibilità di dare evidenza al corpo del reato.
Resta la coscienza dello scacco e, insieme, la coerenza del cammino: poesia come etica formale, fede nella dignità della parola, sperimentazione ma senza lo stereotipo di certi sperimentalismi, che hanno tutta la sostanza della retroguardia. Ecco allora che la Bragagnini ci dice: “evito parole così a me uguali da risultarmi ovvia” e ancora irride a certa ostentazione delle parole eclatanti definite “le non comuni porcelle dell’aia” perché non sanno dire “niente del niente che tiene”, proprio quando questo Niente inteso come categoria esistenziale ha messo radici nell’albero stesso dell’Essere, lo ha compromesso fino quasi a renderlo indicibile. Ecco ancora la Bragagnini a certificarlo in questi versi altrettanto espliciti: “continuo a spergiurare di non avere nulla da dire / è così falsa la diceria dell’intelletto / che tento il crederci per volontaria ambientazione”, qui e altrove, dove sembra ricordarci che il male della poesia è in sé stessa, nel tarlo di certa poesia di maniera, anchilosata nei suo stilemi, nella falsità del linguaggio, verosimilari versi per asporto. La poesia di genere è essa stessa un inganno, il corpo diventa feticcio, si svilisce in topos letterario.
Sfuma anche la rabbia parole come stillicidio dei giorni
chiaroveggenze figurate di: vene, slabbramentiagli orli
e silenzio - ombra - vuoto - anima - grumo come
stelle - luna - cattedrali - gabbiani sì, anche loro
mi fanno vomitare
gli spalancamenti sgocciolati, non per voyeurismo di misura
ma nel ventre ripetuto così tanto, oh tanto di tanto in tanto
da perdere diritto di dimora gli organi interni {*femminili*}
Il compito della poesia è invece rivoltare le zolle, azzardare l’assurdo, inarcarsi fino al massimo della tensione deformatrice e necessaria della parola: per questa via si possono avvicinare le nascoste storie cifrate, consapevoli però che le “parole non dette / valgono più di un’aurora di maggio”, e che si fa poesia “come un foglio sulla bocca spinto dal vento / incollato al posto delle sillabe inevase”. Allora la strada è forse la regressione allo stadio primordiale della parola, prima ancora della sua alienazione in significante, nel suono stesso (si veda in tal senso anche il ricorso all’onomatopea e al bisticcio fino al divertissement), lì dove essa si forma e dove il significato autentico vi resta imprigionato, proprio quello che la poesia sa restituire alla sua musica primigenia, al fiato singultato.
Picchio il rumore dentro l’orecchio
e prego ancora un altro colpo
_ho creduto a Dylan Thomas, all’ordine del topo delle cose
un rumore in costruzione nell’orecchio antecedente il verso
ora – crollo – senza stordirmi valuto il nome, orgia del suono
È significativo infine che l’autrice abbia scelto di affidare la chiusura del libro a un poemetto in frammenti quale “nonnulla da tenere”, ben definito dal prefatore Perilli come un breviario in versi e che noi preferiamo chiamare un libro d’ore a rovescio, un diario sull’inanità del vivere, che non è più un mestiere - con tutto l’affanno che questo termine comportava - come in Pavese, quanto piuttosto un contratto interinale, “ho un’ora di tempo per darmi tempo”, come si denuncia al suo avvio. “Avevo un corpo un tempo lo sentivo contro il vento”, dice ancora l’autrice, alludendo con questo imperfetto al fatto compiuto della vita come vicolo cieco, come se il futuro fosse un passato che abbiamo dimenticato essere già accaduto: ecco allora alcuni termini sintomatici come sinopia, lontananza, inascoltato, kamikaze, che denunciano questo sentire traumatico al quale solo la parola sa dare una sponda, arginare.
Affidiamoci dunque alle parole dell’autrice, ad alcuni di questi ultimi versi per concludere questa nota a un libro senz’altro difficile, a tratti lessicalmente aspro, dissacratorio, mai accomodante e sempre pronto a gettare il proprio guanto di sfida: insomma un libro per coloro che sanno che la poesia è soprattutto ferita aperta da condividere, che il valore sta nella salita più che nella attingibilità della cima, per sua stessa natura aguzza, subdola.
mendico di me le pause tra i pensieri fatti a imbuto
sulla pioggia dei nonnulla da tenere per domani
domani saprò vederli sentirli nominarsi
domani saprò vederli sentirli nominarsi
e si sapranno dire, in questo inesauribile fragore
in fondo sono così belle le stelle
nel blu solare di un giorno che non può vederle
dalla sezionesfarfallii - armati - sottoluce
Sol_a Gratia
cerco la nota distorsiva - quella - capace di cancellare il nesso
l’ordine cruento mille volte verticale rinnegato con lo sguardo
[non spero]
giù nel basso declivi imbarbariti e calmi
una luce così tonda da cingermi nei passi del novembre eterno -
sbaragliando bianconigli facile spogliare il mondo di sentori d’erba
ruminata viva, senza muovermi di un giorno [o suono]
L’amaca fenice
nulla chiama forte da farsi udire, è un movimento sotterraneo
il dispetto conquistato d’alfabeto e ho un piccolo lobo d’orecchio
o forse meglio un lobo piccolo
c’è sempre un modo migliore di dire le cose per esempio
c’è un posto che non so quando dovrei dire quello che c’è
ma che non trovo - lo faccio scomparire
vorrei trovarlo per intero mi manca almeno quanto l’aria
tutta intorno se ci si sveglia nei giorni come crisalidi abbozzate
in un futuro pocket che pesa d’eterno
piccole dosi di massiccia confettura è limacciosa la sostanza
congetturalestringe sugli arti come carta moschicida
ti dondola sul nulla il palinsesto della vita, a favore di vento
il gancio - sospeso - al diritto d’uscita
La banchina
Se penso la piccola soglia quando fingo di credere vere
le scuse battute come piste, sentieri verso il mio nome
quanto ignorante e infetto suturare la striscia smarrita
come Pollicino ho tentato di filo perduto
smangiucchiato scomposto in percorsi più sciapi
Consegno al tratto il rio del fosso
il salto nel pantano, ho estratto dal fodero la penna stilo
(quella feticcio partoriente pensieri) ho inciso di punta
sperata capace invece era secca, sillabe asciutte
senza solco peso dimora - e - sei tornata nella mente
nell’espressione nella voce nel gesto nel polso piegato, la mano
che mormora il dire la tua voglia di stare quel buio profondo
lo sguardo ritorto all’interno, cieco di chi non crede altro lato
qualcuno
Settima pagina
si procede con i sandali di gomma
occhi alle chele del passato
passi indietro del continuo pungolare
ne ho abbastanza di metafore seriali
- catenazioni - degli oggetti presi in prestito
il vuoto manca almeno quanto il pieno
di contrappeso vedo le gambe /tagliate/ nella foto
[un quadrettino] unico tassello
di una vita respingente nei polpacci grossi
i figli come spere smessi ai lati
ma quella con la bocca chiusa già lo grida
di quante amputazioni parallele mantenga la soffitta
dei cipressi - fuori l’estate sigillava i contorni
dalla sezione nonnulla da tenere
certi pomeriggi sono cortine di pioggia dentro un bavero slavo
*
cosa potrei pungere di me
che non abbia già estirpato il senso fin nella più antica cellula
il silenzio chiama tutte le connotazioni belliche
le convoglia in feroci passerotti duri di becco
il miglio perso sulla strada e nel piumaggio goffe vettovaglie
*
desiderio la parola da dire
o bramosia di parole mancanti
questa inutile leggerezza dei pensieri
il vuoto è in alto in basso ai lati e in un dentro
che mi assopisce ogni vivere intatto. pressappoco
*
sinopia disgregandomi
al contrario essere traccia
transitorio è il mare come berbero
assordato dall’azzurro teme il giorno
*
mendico di me le pause tra i pensieri fatti a imbuto
sulla pioggia dei nonnulla da tenere per domani
domani saprò vederli sentirli nominarsi
domani saprò vederli sentirli nominarsi
e si sapranno dire, in questo inesauribile fragore
Doris Emilia Bragagnini è nata e vive in provincia di Udine. Suoi testi sono presenti in alcuni periodici on line e cartacei. Ha partecipato ai poemetti collettivi “La Versione di Giuseppe. Poeti per don Tonino Bello” e “Un sandalo per Rut” (ed. Accademia di Terra d’Otranto, Neobar 2011). La silloge inedita “Claustrofonia” è stata premiata con segnalazione al Premio Lorenzo Montano 2017. Il suo libro d’esordio è “OLTREVERSO il latte sulla porta” (ed. Zona 2012).