Sorprende piacevolmente ricevere una lettura di un proprio libro, dieci anni dopo la sua pubblicazione. Un grazie a Giorgio Linguaglossa.
C’è bufera dentro la madreè la storia di un perdersi dentro il linguaggio materno e di un ritrovarsi in un altro linguaggio che si è allontanato definitivamente da quel linguaggio. Il tuo linguaggio poetico si situa in questa distanza, in questa tensione tra un linguaggio trovato e uno allontanato, che si è irreversibilmente allontanato dall’alveo materno. In quanto il linguaggio poetico è sempre un non domato, un linguaggio di tracce semi cancellate che baluginano nella pre-coscienza, senza mai riuscire a venire completamente alla luce.
Tutto ciò che è, è tale in accordo a un preliminare orizzonte d’essere che lo dispone. Qui si pone l’attenzione però su una cosa fondamentale, che troppo spesso rischia di essere tra-lasciata, e cioè che questo orizzonte d’essere ha un punto di vista, così come un punto cieco, e mentre quindi riceve e dispone tutto ciò che è in accordo al suo senso, è a un tempo spalancato a partire da un qui, da un ci che ne fornisce l’orientazione. Questo ci dell’essere è appunto l’esserci. Ciò vuol dire innanzitutto che tale orizzonte, in quanto orientato, non è assoluto, ha un punto di vista che non può ricomprendere tutto ma che accoglie e rigetta, seleziona e dispone, proprio a partire da qui, dal ci che esso stesso è, e non da un astratto punto distante, neutrale e indifferente. Questo è il tema centrale della finitezza di cui ogni sviluppo metafisico dovrebbe farsi carico: ogni considerazione sull’essere in generale è già sempre posta a partire da una posizione ontica che ne determina in qualche modo l’orientazione, il suo carattere.
Qui alcune poesie.